La Biblioteca Civica V. Joppi di Udine pubblica alcune riflessioni di Marina Tuni intorno al libro “Il Jazz Italiano in Epoca Covid”

La Biblioteca Civica Vincenzo Joppi di Udine mi ha invitata a partecipare all’iniziativa “Quarantena d’Artista“, che era partita durante il lockdown ed è poi proseguita con artisti, musicisti, attori, scrittori, giornalisti del Friuli Venezia Giulia.
In pratica, si trattava di scegliere un libro da consigliare, che avesse in qualche modo attinenza al periodo in cui siamo rimasti segregati nelle nostre abitazioni a causa della pandemia, sviluppando delle riflessioni intorno ad esso. Devo dire che nel ricevere la proposta è stato per me naturale pensare a “Il Jazz Italiano in Epoca Covid“, il libro del direttore Gerlando Gatto… più attinente di così! Qui il link del mio intervento che comunque pubblichiamo integralmente anche qui di seguito. (Marina Tuni)

“Silencio… No hay banda. There is no band. Il n’est pas de orquestra.”
<<Con queste parole, pronunciate dal mago sul palco del “Club Silencio” nell’inquietante scena di Mulholland Drive David Lynch ci trasporta in una dimensione straniante, illusoria… che mi ha ricordato quella specie di limbo emozionale nel quale ho fluttuato durante il lungo periodo del lockdown.>>

“In questi giorni si è parlato molto di teatri, esibizioni dal vivo, concerti. Nessuna migliore occasione per il nostro Massi Boscarol per invitare a #quarantenadartista #MarinaTuni, giornalista, che da 16 anni collabora con Euritmica (Udin&JazzOnde Mediterranee, Note Nuove, MusiCarnia) dove è responsabile dell’Ufficio Stampa. Editore della webmagazine instArt e del portale nazionale A Proposito di Jazz, ha scritto e pubblicato cinque fiabe per bambini creando la saga del personaggio di Cioccolino oltre ad aver collaborato per alcuni anni con la cantante Elisa. Ed in tanti di noi la conoscono anche per aver curato la comunicazione di Udine ArtMob e della ciclostaffetta “A Roma per Giulio”, eventi organizzati per chiedere verità e giustizia per #GiulioRegeni.”

<<La citazione di Mulholland Drive l’ho ritrovata anche nel titolo della prefazione, scritta dal M°. Massimo Giuseppe Bianchi, a “Il Jazz Italiano in epoca Covid”, instant book e terzo lavoro di #GerlandoGatto, dove il giornalista e critico musicale intervista 41 jazzisti italiani, “colti” nella loro quotidianità forzata, in un flusso temporale asimmetrico e tralignante.>>

“Abbiamo tra le mani un libro che parla di musica ma nasce dal silenzio. A causa del lockdown; il silenzio ha per mesi eletto a dimora le nostre strade e i nostri spazi. In questi mesi di pausa forzata i palcoscenici hanno taciuto. Non hanno taciuto però gli strumenti, né le matite cessato di grattar la punta sui pentagrammi. Non sono mancati i mille concerti in streaming da casa, eventi coatti che il violinista Uto Ughi, in un’intervista al quotidiano “La Stampa” ha definito “figli della disperazione del tempo che viviamo”. Furono vasi di fiori posati sul davanzale delle nostre provvisorie prigioni. Gerlando Gatto ha pensato di animare questo sfondo plumbeo, spezzando l’incantesimo malvagio. Ha provato ad andare oltre l’analisi stilistica della loro produzione. Ha provato e ci è riuscito. Gerlando ha congegnato una griglia di domande semplice e uniforme quanto variegata al suo interno. Ha voluto, credo, fare quello che un critico non ha tempo o voglia di fare: comunicare direttamente con la persona, abbracciarla.” (dalla prefazione di Massimo Giuseppe Bianchi)

<<All’interno del libro, tra le tante significative domande che l’autore pone ai musicisti, ce n’è una che mi ha dato molti spunti per riflettere su quanto sia stata importante per me la musica, oltre alla scrittura e al profondo amore per l’arte… passioni che sono diventate parte della mia professione, passioni che mi hanno stimolato e dato la forza per cambiare una vita che in passato indossavo con grande fatica, come avviene con un abito stretto di tre taglie in meno della tua… Perché spesso non basta “volere” a livello conscio per concretare i nostri sogni e le nostre aspirazioni: dobbiamo crederci scendendo ad un piano più profondo, fino ad arrivare all’inconscio.
È ovvio che tutto ciò comporti necessariamente il doversi caricare sulle spalle molti più gravami e consapevolezze, che ci ingabbiano, che compromettono, talvolta, la nostra realizzazione, che condizionano le nostre scelte, che modificano il nostro modo di pensare, portandoci alla privazione della felicità. Tutto questo è uscito ancor più prepotentemente nel trascorrere dilatato del tempo… al tempo dell’isolamento…
Questa è la domanda di Gatto e la risposta che mi ha colpito… quella della vocalist Enrica Bacchia

D: “Crede che la musica possa dare la forza per superare questo terribile momento? Se non la musica a cosa ci si può affidare?”
R: “[…] vorrei chiarire un punto cardine del mio sentire. Se il termine Terribile si
riferisce alle morti di questi giorni: si, la morte appare tanto drammatica agli occhi degli uomini e per la prima volta nella storia dell’umanità paralizza il mondo intero senza discriminazioni…
Sono consapevole di essere una delle (tante) voci fuori dal coro ma mi ascolti bene: spostiamo nuovamente il nostro punto di vista, sintonizziamoci in un’onda diversa e torniamo a considerare quello che lei definisce un momento terribile. Terribile perché l’unico in grado di farci cambiare uno stile di vita intollerabile sotto tutti i punti di vista? Terribile perché ci obbliga a pensare davvero a come reimpostare le nostre esistenze nel micro e nel macro livello? Terribile lo è, forse, perché ciascuno è chiamato a scegliere se farne un’opportunità di crescita epocale. E ora veniamo alla Musica. Ogni pensiero, ogni micro o macro azione, se fatti consapevolmente, possono dare forza al Presente esercitando la creatività, l’immaginazione e la bellezza. E non è forse la musica (ma tutta l’arte della Vita in genere) che ci allena a questo?”.

<<Chiudo con una breve riflessione, affidandomi ad un’altra delle mie grandi passioni, la filosofia. Eraclito diceva: “Nessun uomo può bagnarsi nello stesso fiume per due volte, perché né l’uomo né le acque del fiume saranno gli stessi…” con riferimento al processo di trasformazione perenne, il divenire cui sono soggetti gli esseri umani, che nascono e crescono andando incontro al proprio destino, attraversando nel cammino periodi “buoni” e periodi “critici”. In questi ultimi, la “crisi” dovrebbe essere il LA per intonare gli strumenti per una nuova esecuzione, accogliendo il cambiamento come occasione di accrescimento e di sviluppo della conoscenza e del pensiero creativo.
Se non saremo in grado di cogliere questa opportunità, non v’è rimedio… perché niente può vivere in assenza di cambiamento.>>

Il Pianista emerito: il sofferto coming out di Keith Jarrett che non potrà più suonare…

La notizia dei guai di salute di Keith Jarrett ha sollevato nel mondo ondate di emozione e sollecitato analisi critiche su un importante e amatissimo artista. Con l’augurare al pianista di Allentown una pronta guarigione, la presente valutazione prende le mosse da due aspetti che esulano dall’ambito strettamente jazzistico: il rapporto con il pubblico e l’approccio al repertorio classico.

Giuseppe Cardoni – Keith Jarrett – UmbriaJazz 2004

Di Keith Jarrett tutti ricordano l’atteggiamento verso le platee, la comunicazione non verbale e, in senso lato, il personaggio. (Mi scuseranno coloro che ne parlano già al passato, ma io non riesco a coniugare questo musico se non al presente). Lui che sul palco canta e grida come un ossesso non tollera rumori, è capace di abbandonare stizzito la sala al minimo cenno d’indisciplina e giunse al punto di apostrofare la platea di ‘Umbria Jazz’ con un epiteto (‘assholes’) non proprio sinonimo di kaloskagatói e tutto per aver disobbedito – alcuni – all’ordine di non registrare il con- certo col telefonino.
Jarrett antipatico e intollerante? Al di là della componente narcisistica, credo che egli ponga, e intenda superare, un problema importante e da troppi sottovalutato e lo faccia senza ipocrisie.
Si tratta della scarsa comunicazione tra artista e pubblico. L’arte non dovrebbe essere un banale scambio di oggetti tra donatore e acquirente ma un processo di liberazione interiore che permette a chi ascolta di divenire consapevole della propria forza e libertà, e a chi crea di liberare le sue intuizioni più riposte appoggiandosi alla piattaforma energetica generata insieme al pubblico, in quel luogo, in quel momento.
Il concerto si fa in due, si tratta di una trasformazione, di un ciclo di produzione, di un’alchimia possibile, tra l’altro, soltanto in sala da concerto, non nello “streaming” propugnato da finti amanti dell’arte musicale, che filtra e adultera il messaggio ostacolando irrimediabilmente lo scambio.
Lo “streaming” corrisponde alla visione napoleonica dell’arte come ‘instrumentum regni’. Il grande rito borghese, la liturgia chiesastica di Jarrett invece, criticata da molti come deriva autoritaria dell’ evento-concerto, è un fatto altamente etico e ad altezza d’uomo. L’esperienza del processo creativo, rivissuta dal pubblico, può e deve sensibilizzare lo spirito individuale. Sono intollerante  io, sembra chiedere Jarrett, che pretendo la concentrazione generale, o tu che ostacoli il medesimo processo al quale hai pagato per assistere? Jarrett può a volte mancare di equilibrio, mai però ha suonato con sciatteria di fronte al pubblico: questa sarebbe vera arroganza. E in  fondo anche la presunta arroganza di Miles che suonava con le spalle rivolte al pubblico non era altro, per mio conto, che una richiesta plateale di alzare l’asticella della comunicazione. Artisti di questa fatta aspirano a una fratellanza, non basta un pubblico che dica semplicemente: io c’ero. Educazione, recita il dizionario, “è condur fuori l’uomo dai difetti originali della rozza natura, instillando abiti di moralità e buona creanza”. Vale per chi la musica crea come per chi l’accoglie. Gli argomenti di Keith Jarrett sono solidi e contenuti nei dischi, disponibili a tutti, basta ascoltare.


Se la sua colpa è di dir la verità senza patteggiamenti lo perdono volentieri. Per tutto il resto c’è la Muzak.
Da decenni Keith Jarrett ha messo la propria enorme fama al servizio della grande repertorio concertistico. Ha registrato opere di vari autori, da Haendel a Pärt a Hovhaness favorendo di fatto una meritevole operazione culturale che ha attecchito, come era logico e auspicabile, soprattutto all’interno della comunità del jazz. Ho visto con i miei occhi jazzofili di stretta osservanza acqui- stare a scatola chiusa i dischi dei Concerti di Mozart con Russell Davies solo perché al pianoforte suonava Jarrett. Ma come sono, alla fine, queste registrazioni? Risultano paragonabili a quelle di Pollini, Richter, Ashkenazy? Per provare a rispondere, sarebbe bene rinunciare a paragoni insensati. Il ‘jazz’ più che un genere è un complesso approccio alla musica, quindi all’esecuzione e investe varie forme dell’agire. Come le lingue hanno i loro ‘argot’ il jazz ha una sua pronuncia, sincopata e accentata, un vero e proprio testo nel testo. La fraseologia del jazzista è appuntita, predilige la tensione, feconda l’instabilità laddove nell’estetica del pianoforte classico, particolarmente in Mozart, è importante l’opposto, l’uguaglianza, il controllo dinamico e il jeu perlè. È ostacolo non piccolo da superare per lo strumentista che voglia scollinare da un genere all’altro senza rotolare a valle. Ma c’è un altro problema, lo scoglio – non trascurabile pure – dell’ornamentazione, ossia della realizzazione degli abbellimenti, fioriture melodiche che presidiano i fraseggi specialmente delle opere classiche e pre-classiche.

Non è più accettabile oggi porgere un’ornamentazione casuale seguendo semplicemente l’istinto, anche chi suona lo strumento moderno deve ‘abbellire’ con cognizione di causa per non cadere in un analfabetismo stilistico di ritorno. Sicuramente tra i jazzisti che si avvicinano al non facile repertorio classico (penso a Corea, a John Lewis, al nostro Stefano Bollani) Keith Jarrett è il più convincente sotto il profilo tecnico come dello stile. Diciamo subito che suo lavoro di trasformazione della pronuncia jazz in fraseggio ‘classico’ è impressionante e si spiega sia con una facilità digitale miracolosa che con un istinto mimetico di prim’ordine. Immaginate un attore haitiano che reciti in perfetto italiano, o uno italiano brillare nel teatro kabuki. Casomai è strano sentire, come mi capita ogni tanto, che egli in questi repertorî “stravolge” e “sperimenta”. Se c’è una critica infatti che si può rivolgere alle sue incisioni “classiche” è casomai l’estrema, talvolta eccessiva timidezza dell’approccio interpretativo. Il suo famoso Bach, ad esempio, è preciso ma convenzionale, privo di una fisionomia davvero riconoscibile. Le sue ornamentazioni non vanno molto oltre i suggerimenti delle vecchie edizioni di Casella e Mugellini e le esecuzioni, in particolare quelle cembalistiche come le “Goldberg”, sono molto compassate.

I contrasti tra i tempi veloci e gli adagi risultano non di rado smussati, l’avvicendarsi delle varie situazioni un poco uniforme e la noia serpeggia qua e là. Anche le danze delle Suites Francesi si somigliano un po’ tutte. È come se il pianista, intimidito dagli autori affrontati, scegliesse di stare sempre al di qua del testo senza prendersi, diversamente da quanto avviene nei mirabili soliloqui improvvisati in pianoforte solo, alcun rischio. Anche Liszt, quando trascrisse per pianoforte le Sin- fonie di Beethoven dopo aver ricevuto la tonsura e gli ordini minori in Vaticano, non osò reinventare quelle opere come era solito fare e, intimidito forse dallo spirito del Maestro, quasi una divinità, le richiuse nel chiostro di “partitions de piano” fedeli come immagini allo specchio. Il corretto Bach jarrettiano è quindi, sul piano strettamente artistico, un’occasione perduta poiché  dall’enorme immaginazione di questo artista era lecito attendersi uno sguardo più rivelatore,  anche se restano letture rispettabili.
I dischi più convincenti invece, oltre a quelli che includono le sue proprie composizioni,
sono dedicati al repertorio novecentesco, Shostakovich in testa, ma anche il bell’album con il concerto di Barber e il terzo Bartok. Mi pare che tra il suono un po’ piccolo e nervoso di Jarrett, tra la sua koinè e il fecondo sincretismo intrinseco a quelle musiche si generi un’elettricità particolare che rende avventuroso l’ascolto. Il suo spazio improvvisativo restituisce qualcosa dell’ispirazione primigenia di questi lavori. Qui lo scattante pianismo di Keith si può anche prendere qualche rivincita su letture più blasonate, sempre restando entro il recinto di un approccio testuale filologico nel quale l’interprete non osa mai sovrapporsi autobiograficamente al testo.
Al Jarrett pianista classico può andare allora a pieno titolo una laurea “honoris causa” ma non direi, tutto sommato, che egli sia in quest’ambito un enfant terrible, piuttosto uno studente modello e un po’ secchione. Meglio così. Chi mi conosce sa quanto io stimi e ammiri Chick Corea, genio e sopra tutto poeta… ma soffrii le pene dell’inferno ad ascoltare una sua cadenza scombiccherata durante un Concerto di Mozart, peraltro tutto sbagliato stilisticamente! Non bisogna essere fedeli per forza ai pentagrammi, la musica, Dio ne scampi, non è un prontuario però, come si diceva più sopra a proposito della relazione tra artista e pubblico, il vero peccato mortale non sta nelle note sbagliate ma nella scarsa comunicazione tra testo e interprete. Ciò che ravvisai in quella deludente lettura di Corea fu proprio un’incompletezza espressiva, un non capirsi o non volersi capire. Ecco, di simili fraintendimenti linguistici nelle interpretazioni jarrettiane non vi è traccia.


È un gran merito. Chiaramente, a uno sguardo più generale, esiste il rischio opposto e fin peggiore, che il testo divenga un algido Totem, come purtroppo avviene in certe esecuzioni su strumenti d’epoca, rigide come militari passati in rassegna però fedeli alla lettera.
Il discorso qui ci porterebbe lontano. Non esistono verità ma canoni che non devono perdere di vista la stella polare di una chiara linea espressiva, pena il fallimento su tutta la linea.
Il canone jarrettiano, pur con i distinguo sopra esposti, è persuasivo, i gangli di comunicazione attivi ed ha in più una sua insostituibile funzione, torno a dire, nel rivolgersi a una specifica comunità di ascoltatori e appassionati. D’altronde se è vero, come credo, che nei sincretismi e non nella purezza troveremo buona parte della migliore musica del futuro, l’annessione della tradizione classica è una medicina naturale contro i suoni mercificati. Jarrett l’ha capito e messo in pratica. Non di molti artisti, anche in un lungo periodo di tempo, si può affermare una tale originalità e un tal carattere fondamentale, una visione così ampia.

Massimo Giuseppe Bianchi

Giuseppe Cardoni: il fotografo AFIJ del mese di ottobre – la gallery e l’intervista

Continua la nostra rubrica dedicata all’AFIJ, Associazione Fotografi Italiani Jazz (qui il link alle gallery della rubrica) e il mese di ottobre ci porta in Umbria a conoscere Giuseppe Cardoni.

Giuseppe Cardoni

Ingegnere, dirigente d’azienda, negli anni Settanta si avvicina alla fotografia che, da quel che vedo, è per lui un processo che fa affiorare l’essenza della “cosa sensibile”, l’eidos dell’essere umano; le sue immagini, infatti, non perseguono criteri puramente estetici ma sprigionano emozioni profonde, che rimangono fissate nella mente di chi le guarda.
Cardoni di generi ne percorre molti: dal ritratto alla fotografia sportiva, dalla fotografia di musica e spettacolo al reportage, con una spiccata predilezione per il B/N. Ha fatto parte del Gruppo Fotografico Leica e frequentato Maestri della fotografia italiana quali Gianni Berengo Gardin – che, parlando dell’iconicità della Leica ha detto: “che c’entri qualcosa il mito è indubbio, ma è un amore di gioventù ed è rimasto tale” – Piergiorgio Branzi, Mario Lasalandra. È coautore, con il giornalista RAI, Luca Cardinalini, del libro fotografico “STTL La terra di sia lieve” (Ed. DeriveApprodi,Roma, 2006); insieme a Luigi Loretoni  nel 2008 ha pubblicato il fotolibro “Miserere”,  nel 2011 “Gubbio, I Ceri” e nel 2014 “Kovilj” (tutti Ed. L’Arte Grafica). Sempre nel 2014 ha pubblicato “Boxing Notes” (Edizionibam) reportage sul mondo della boxe. Si è dedicato per alcuni anni alla fotografia di eventi musicali, è coautore del libro “I colori del Jazz”(Federico Motta Editore, 2010) e nel 2019  ha pubblicato il libro fotografico “Jazz Notes” (BAM Stampa Fine Art by A. Manta). Nel 2020 ha pubblicato “Vita e Morte – Rapsodia Messicana”. Ha esposto i propri lavori in numerose mostre sia personali che collettive in Italia e all’estero e ha vinto (o è arrivato in finale) numerosi concorsi nazionali e internazionali; negli ultimi quattro anni ha conseguito questi importanti risultati in più di settanta contest. (MT)

Un paio d’anni fa, leggendo il libro di Helena Janeczek “La ragazza con la Leica” (premio Strega 2018), mi sono appassionata alla storia di Gerda Taro, tra le prime donne-reporter di guerra, morta a 26 anni sotto i cingoli di un carro armato durante la guerra civile spagnola. Sono rimasta affascinata dalla sua personalità rivoluzionaria ma anche dal fatto che, insieme al suo compagno Endre Friedmann, “costruì” la figura del leggendario fotografo Robert Capa. Le foto più belle di quell’epoca, e non solo di quella… erano scattate con l’altrettanto leggendaria Leica, che anche tu usi. Ci racconti com’è iniziato il tuo amore per questa particolare macchina fotografica?
«La scelta e poi la completa adozione è dipesa direttamente dal genere di fotografia che mi interessa maggiormente cioè il reportage, o meglio, raccontare delle storie. Quando ancora utilizzavo una reflex (a pellicola, il digitale non era ancora arrivato) fotografando insieme ad un amico che utilizzava Leica M (telemetro) mi sono reso conto dei vantaggi di discrezione e prontezza dovute alla silenziosità dell’otturatore, alle piccole dimensioni e alla visione “in diretta” grazie al mirino a telemetro che evita l’attimo cieco del movimento di sollevamento dello specchio. L’elevata qualità delle ottiche contribuì a rafforzare la scelta. Nel mio caso, la scelta dello “strumento” fu essenzialmente tecnica e indipendente da fascinazioni mitiche. Essendo interessato “all’istantanea” e meno alla fotografia “in posa” questo mezzo mi consentiva maggiormente di essere meno notato e di non “perturbare la scena”(credo che queste siano le motivazioni che hanno spinto negli anni tantissimi grandi fotografi interessati alla fotografia umanistica a fare questa scelta). Di fondo comunque sono convinto che come per uno scrittore non importa se scrive con una matita, una penna, una macchina da scrivere o un computer così anche per un fotografo, essendo la fotografia un linguaggio, quello che conta sono i contenuti, ciò che si ha da dire e come si dice, piuttosto che lo strumento utilizzato».

Altra cosa che mi ha incuriosito molto, approfondendo le tue note biografiche, sono i tuoi splendidi reportage (divenuti in seguito libri) in Italia e in Messico, rigorosamente in B/N, una sorta di viaggio iconografico nell’Ars Moriendi.
“Ars Moriendi” è anche il titolo di alcuni testi, scritti a seguito della pandemia di peste nera che si abbatté sull’Europa dal 1347al 1353, che portò non solo sofferenza e morte ma anche rivolte popolari. Al di là delle impressionanti analogie con il periodo che stiamo vivendo a causa del Coronavirus, ti devo confessare un’altra consonanza: nel mio peregrinare per il mondo non c’è stato viaggio in cui io non abbia visitato i cimiteri più importanti, da New Orleans a Parigi, da Roma al Tennessee, ma anche quelli minuscoli, nelle Pievi della mia amata Carnia. Lo diceva Foscolo, ma ci credo anch’io, che la civiltà dei popoli si misura attraverso il culto dei morti. Hai piacere di raccontarci che cosa ti spinge ad interrogarti, soprattutto mediante le immagini che catturi, su una questione imprescindibile come la morte, materia culturale e antropologica?
«Mi hai fatto una domanda da niente…! Sarei tentato di cavarmela rispondendoti sinteticamente: perché mi sento vivo e amo la vita! Oppure…”perché come ci insegna proprio la cultura Messicana il mondo dei vivi e quello dei morti si toccano fino a coincidere”.
Tentando di argomentare, facendomi aiutare da Freud,  credo che la contrapposizione e l’interazione tra Eros e Thanatos  (eros come pulsione energetica e vitale piuttosto che come libido) ci riguardi tutti. Tutti desideriamo la felicità, ma i limiti imposti dalla natura e dalla società spesso ci rendono difficile raggiungere la meta. Ritengo che questa lotta continua (tra gli istinti di vita e la consapevolezza della morte) insieme alle situazioni in cui viviamo contribuisca a determinare i nostri stati d’animo e i nostri sentimenti. Ed è proprio questo, nei pochi casi in cui mi riesce, che con il linguaggio fotografico mi interessa raccontare: emozioni, sentimenti».

-Tu sei anche un bravissimo fotografo di jazz, ho letto di te una magnifica definizione: “la sua Leica si muove improvvisando come uno strumento musicale”. Una foto ben fatta ha un’anima e soprattutto mostra l’essenza del musicista, quel filo, dicevamo, che lo unisce al suo pubblico. Spesso, quando scrivo un articolo, una recensione, mi soffermo a pensare al peso, all’impatto che ogni singola parola potrà avere in chi mi legge… È una grossa responsabilità, non trovi? Capita anche a te di pensarlo per le fotografie che scatti?
«Non sento una responsabilità istantanea, specifica “nel momento dello scatto”. Sento una grandissima responsabilità “di fondo” nel mio approccio alla fotografia nel rispetto delle persone che incontro e magari fotografo e nell’onestà del non mistificare o travisare le realtà che viviamo o che osserviamo diventandone interpreti o testimoni. Ma credo che questo si possa estendere per ogni nostra attività».

-La musica è una fenomenale attivatrice di emozioni anche estetiche, se vogliamo. Esiste persino una ricerca che dice che le nostre menti hanno la capacità di elaborare una sorta di libreria musicale che riesce a richiamare, attraverso una singola emozione collegata ad un brano, una multiforme combinazione di sentimenti ad esso associati. Quando scatti una fotografia, quanto la tua mente è condizionata dal fatto che ti piaccia o meno la musica dell’artista che stai fotografando e quanto ciò influisce sul risultato finale?
«Sono interessato a realizzare fotografie con una forte connotazione personale, che correlino la mia interiorità con la realtà che ho di fronte o sto vivendo. Quindi la musica può essere importante, come possono essere anche importanti altri “segnali” quali un atteggiamento, uno sguardo, una luce particolare, un espressione, un gesto, in altri termini, ciò che riesce a provocarmi un emozione o un interesse».

-Immagino che tu, come un padre nei confronti dei suoi figli, ami ogni tuo singolo scatto… tuttavia, ne ricordi qualcuno di cui sei particolarmente orgoglioso?

«Sono orgoglioso soprattutto del mio impegno per questa disciplina che pur non essendo la mia professione mi ha aiutato e mi aiuta a vivere più intensamente.
Premettendo che di scatti veramente “buoni” non ne ho fatti molti, nei lavori o tematiche trattate ho qualche fotografia che preferisco rispetto alle altre o magari ricordo con piacere quelle che hanno vinto importanti premi internazionali ma la mia vera scommessa è di riuscire a realizzare fotografie o meglio ancora racconti fotografici che mi sopravvivano in modo da segnare un futuribile punto a favore nella dialettica esistenziale di cui abbiamo parlato precedentemente».

Marina Tuni

La prematura scomparsa, il 20 ottobre scorso, di Alessandro Giachero, grande artista e didatta

Due pessime notizie hanno interessato il mondo del jazz in questi ultimi giorni: in Italia la prematura e improvvisa scomparsa, il 20 ottobre scorso, di Alessandro Giachero colpito da un infarto mentre andava a prendere il figlio a scuola e, negli USA, l’impossibilità dichiarata dallo stesso Keith Jarrett di poter continuare a suonare.
Di Jarrett ci occuperemo nei prossimi giorni. In questa sede vogliamo ricordare Alessandro Giachero, un artista che in vita non ha raccolto tutto ciò che avrebbe meritato. Eppure si trattava di un pianista i cui meriti erano, almeno sulla carta, ampiamente riconosciuti.

Nato ad Alessandria nel 1971, Giachero si era costruito una solidissima preparazione di base grazie e lunghi ad articolati studi culminati tra l’altro nel diploma ottenuto nel 1994 presso il Conservatorio della città natale e nella laurea specialistica in jazz e arrangiamento presso il Conservatorio “L. Cherubini” di Firenze. Come logica conseguenza era stato segnalato nel Top Jazz del 2005 e del 2006 tra i migliori nuovi talenti del jazz italiano sia come pianista solista sia con il progetto T.R.E. il cui album “Riflessi” è stato considerato, sempre nel Referendum di Musica Jazz del 2006, tra i migliori dischi dell’anno. Impegnato in diversi contesti, ha suonato, tra l’altro, con il William Parker Resonance Quartet (con Hamid Drake alla batteria e Daniele Malvisi al sax contralto), negli States, con diverse formazioni guidate da Anthony Braxton, tra cui l’omonimo Quartettto con Antonio Borghini al contrabbasso e Cristiano Calcagnile alla batteria. In Italia ha inciso, tra l’altro, con l’“abeat” una delle etichette più originali e innovative del panorama jazzistico nazionale.
All’attività di musicista sul campo oramai da tempo aveva affiancato una proficua attività didattica, così dal 2001 era docente di Pianoforte, Musica D’Insieme e Armonia presso l’Accademia Nazionale del Jazz a Siena, mentre nel 2012 aveva ricoperto il ruolo di direttore didattico della Siena Jazz University. Dal 2016 al 2017 aveva esteso la sua attività didattica anche come docente di Pianoforte Jazz e Pianoforte complementare presso il Conservatorio “Maderna” di Cesena, per poi passare al Conservatorio Giovan Battista Martini di Bologna nel 2018.
Dal punto di vista discografico, Giachero si era segnalato prepotentemente a metà degli anni 2000 grazie al già citato progetto “T.R.E.” il trio formato con Stefano Risso al basso e Marco Zanoli alla batteria, seguito nel 2010 dal cofanetto formato da 6 CD “Standards” dell’Anthony Braxton Quartet, dalla produzione come leader di due album a suo nome, uno per solo piano (“Preludi – Libro Primo” abeat 2013) e l’altro con un Ensemble (“Passio” abeat 2015) fino ad arrivare a “Sonoria – Live in Pisa”, uscito su etichetta Evil Rabbit nel 2020.

L’avevamo intervistato nel 2011 e in questa sede ci piace riportare alcune delle sue risposte a conferma di una mentalità allo stesso tempo lucida e appassionata.
Richiesto di un’opinione sullo stato di salute del jazz italiano, così rispondeva Giachero:

“Anche in Italia mi sembra che la scena sia molto stimolante. Ci sono musicisti e formazioni più vicine all’area americana e altri più vicini all’area europea. La lista dei musicisti che trovo interessanti sarebbe molto lunga. In generale mi sembra che ci siano molte cose interessanti che però non riescono ad avere una visibilità adeguata. Il circuito mi sembra saturo soprattutto di una musica rappresentativa di qualcosa, invece di essere espressione diretta dei musicisti e del loro mondo interiore. Mi sembra che da parte degli organizzatori ci sia più un pensiero commerciale e diciamo così “di cassa” piuttosto che un’effettiva esigenza di una circuitazione della cultura musicale con la sua essenza rispetto a questo momento storico. Aprire a progetti e musicisti meno conosciuti o che hanno meno visibilità, ma non per questo meno bravi e interessanti, darebbe una ventata di freschezza alla musica e alla cultura in Italia. Ogni periodo di crisi e di decadenza ha in sé in realtà un fermento culturale profondo e innovativo, e questo periodo mi sembra caratterizzato da queste due dimensioni: da una parte la decadenza culturale, la confusione tra arte e commercialità, dall’altra lo sforzo di alcuni musicisti e artisti di tenersi fermi alle proprie idee e rigorosità concettuali, senza compromessi, per avere quella indipendenza artistica fondamentale per continuare nella ricerca di un nuovo linguaggio o sviluppare quelli attuali. La ricerca di un nuovo linguaggio e l’espressione di Sé stessi sono determinanti nello sviluppo della musica e nello sviluppo della società in cui viviamo”.
Ancora una ferma denuncia sullo stato del mercato discografico.
“Il disco è un po’ come mettere un punto fermo ad un progetto, concretizzare un’esperienza musicale e da lì andare oltre, o sviluppare essa stessa.
Per quanto mi riguarda, essendo interessato alla ricerca in vari ambiti, il disco rappresenta anche un documento del mio personale percorso artistico.
Trovo la tendenza di avere una propria etichetta molto importante e significativa. E’ importante perché rispecchia l’esigenza dei musicisti di avere il controllo sul proprio lavoro, senza scendere a compromessi con un editore o una etichetta, avendo il diretto coinvolgimento sulla totalità del lavoro.
Questo aspetto però rispecchia la parte negativa del mondo discografico. La maggior parte della etichette non produce più i propri artisti con un investimento, che ormai è minimo. Un artista si deve comprare un certo numero di copie, e molte volte cedendo anche una parte dei diritti d’autore, in modo che l’editore sia in pari con il suo investimento e non debba fare nessuno sforzo per la diffusione del progetto. Sarebbe interesse delle etichette far circolare i propri artisti all’interno del circuito in modo da far conoscere sia l’artista stesso che il disco, e sia il lavoro dell’etichetta stessa.  Questo semplice binomio in Italia non funziona, vuoi per le ragioni prima descritte, vuoi per la viziosità e faziosità del circuito, vuoi perché il circuito è regolato da pochi nomi e pochi interessi che impediscono la giusta e naturale diffusione di tutta la musica”.
Infine la diretta testimonianza di cosa per lui significasse l’insegnamento.
Mi piace molto insegnare, che per me vuol dire condividere il percorso con gli studenti. Credo molto nello scambio tra insegnante e allievo e cerco sempre di trasmettere quante più cose posso, sia musicali che extramusicali. L’aspetto più importante per me è quello di cercare di far capire e trasmettere il significato della musica, e la musica in se stessa”.

Gerlando Gatto

Charles Lloyd Ocean Trio il 23 in un concerto pay-per-view al Teatro Lobero di Santa Barbara

L’Ocean Trio del sassofonista Charles Lloyd, completato da Gerald Clayton al piano e Anthony Wilson alla chitarra, terrà venerdì prossimo 23 ottobre presso lo storico Teatro Lobero di Santa Barbara, un esclusivo concerto pay-per-view, quindi senza la presenza di un’audience in osservanza delle normative Covid.

I biglietti, prenotabili presso il sito web del Teatro, sono fissati a 15 euro e i possessori del biglietto potranno vedere lo spettacolo anche nelle successive 72 ore. Il ricavato sarà destinato a sostenere sia il Teatro Lobero sia la NIVA, National Independent Venue Association (organizzazione americana di locali musicali indipendenti, promotori e festival indipendenti, costituita nel marzo 2020 e con sede a New York).

Charles Lloyd è una delle più grandi personalità jazz di tutti i tempi: oggi è Jazz Master NEA (National Endowment for the Arts) nonché Cavaliere delle Arti e delle Lettere (prestigioso riconoscimento francese), senza trascurare il fatto che è stato inserito nella Memphis Music Hall of Fame. Molte le vicende della sua vita che hanno segnato profondamente la storia del jazz. Così quando dal 1960 al 1963 suonò nell’orchestra del batterista Chico Hamilton, diventandone anche il direttore musicale e uno degli arrangiatori, contribuì in maniera decisiva a portare rapidamente la band verso un linguaggio più aperto alle influenze post-bop. Ancora nel biennio 1966-1968 Lloyd guidò un quartetto in cui comparivano il pianista Keith Jarrett, il contrabbassista Cecil McBee (successivamente sostituito da Ron McClure), ed il batterista Jack DeJohnette. Il gruppo fu importante per almeno due ragioni: innanzitutto fornì ad un giovanissimo Jarrett l’opportunità di mettersi in luce e fu anche l’occasione in cui questi conobbe DeJohnette con cui sarebbe nato, anni dopo, un lunghissimo sodalizio. La musica del quartetto era una interessante fusione di linguaggi, dal post-bop al free jazz al soul jazz, ben esplicitati nel celebre album “Forest Flower”, prodotto dalla etichetta Atlantic Records, che ebbe un ampio successo commerciale tanto da essere ancora oggi uno dei dischi più ascoltati nel mondo del jazz.

Durante gli anni ’70 scomparve dalle scene jazzistiche per ricomparire nei primissimi anni ’80 grazie anche all’incontro con Michel Petrucciani e al contratto firmato nel 1989 con la prestigiosa etichetta ECM. Da allora non manca di far sentire la voce del suo sassofono in tantissime occasioni, tornando così ad essere un esponente di primissimo piano.

Nel concerto di cui in apertura sarà coadiuvato da Gerald Clayton e Anthony Wilson. Clayton è un pianista e compositore, nominato per ben quattro volte ai Grammy, che è stato anche Musical Director del Monterey Jazz Festival. In tournée si è esibito con Roy Hargrove, Diana Krall, Gretchen Parlato, the Clayton Brothers Quintet e molti altri. Questa estate ha inciso l’album “Happening: Live At The Village Vanguard via Blue Note Records” con Logan Richardson al contralto, Walter Smith III al tenore, Joe Sanders al contrabbasso e Marcus Gilmore alla batteria.
Il chitarrista e compositore Anthony Wilson, è figlio del grande band leader Gerald Wilson la cui influenza si è fatta ovviamente sentire. Apprezzato per la sua capacità di transitare senza difficoltà alcuna da un genere all’altro, ha collaborato con alcuni bei nomi sia del pop sia del jazz quali Diana Krall, Mose Allison, Bobby Hutcherson, Madeleine Peyroux, Al Jarreau, Paul McCartney, Willie Nelson e Barbra Streisand
Wilson ha inciso molti album sia come leader sia come sideman a partire dal 1997.

Gerlando Gatto

I NOSTRI CD

Jon Balke – “Discourses”- ECM
Jon Balke è artista che mai delude ed anche questa sua ultima fatica discografica si mantiene su livelli di classe elevata. More solito, l’artista lascia prevalere l’espressività, i contenuti di ciò che si vuole comunicare, rispetto a qualsivoglia muscolare dimostrazione di tecnica strumentale Di qui un pianismo scarno, elegante, assai curato nel suono e integrato da interventi di elaborazione elettronica, quali «riverberi e riflessi del mondo che vengono distorti». Prima accennavo ai contenuti: in questo album il musicista nordeuropeo ha voluto altresì trasmettere un messaggio ben preciso, da lui stesso esplicitato con le seguenti parole: “Mentre nel 2019 il clima politico si inaspriva, con discorsi sempre più polarizzati, la mancanza di dialogo mi ha indirizzato verso i termini che costituiscono i titoli delle singole tracce”. Ma al di là degli enunciati e dei singoli titoli, la musica riesce a rispecchiare quanto dichiarato? A mio avviso sì: la musica di Balke accoglie in sé una serie di spunti, di idee anche contraddittorie così come avviene nel mondo reale. Ecco quindi espliciti riferimenti ad un certo romanticismo (“The facilitator”, “The container”) mescolarsi con influssi impressionisti (“The how”) senza dimenticare da un lato il grande J.S.Bach dall’altro il jazz nelle sue forme più attuali. Insomma una sorta di moderno caleidoscopio a riflettere in maniera perfetta il mondo interiore di un artista che nel corso di una lunga carriera ha sempre guardato al futuro, mai soffermandosi sui traguardi raggiunti.

Paolo Benedettini – “Re: Connections” – Double Record
Il contrabbassista Paolo Benedettini può vantare un ricchissimo e significativo curriculum a cominciare dal lungo periodo trascorso a New York dove è stato membro stabile del trio del compianto batterista Jimmy Cobb insieme al pianista Tadataka Unno; sempre negli States ha collaborato con molti altri artisti tra cui Harold Mabern, Joe Magnarelli, Joe Farnsworth, Eric Reed, e per le tournée europee Joe Farnsworth, Eric Alexander e David Hazeltine. Rientrato da poco in Italia ha firmato questo “Re: Connections” che sta ad indicare proprio il ritorno e quindi la riconnessione con il passato. Passato che si avverte pure nella scelta dei compagni d’avventura dal momento che il chitarrista Marco Bovi e il pianista Nico Menci hanno accompagnato spesso Benedettini nelle fasi iniziali della sua carriera. L’album è notevole; d’altro canto un artista del calibro di Ron Carter non si sarebbe speso a scriverne le liner notes se non fosse stato assolutamente convinto della musica proposta dal contrabbassista, e non si sarebbe spinto a dichiarare, cito testualmente, “La sua versione del mio brano “For Toddlers Only” vi stenderà, così come ha fatto con me”. Tra gli altri brani degni di menzione “Chovendo Na Roseira”, uno standard brasiliano di Jobim presentato in modo allo stesso tempo pertinente e originale, e “Il “Coro a bocca chiusa” della “Madama Butterfly di Puccini, uno dei due espliciti riferimenti alla musica lirica (l’altro è “Entr’acte I”, derivato dalla Carmen di Bizet).

Mauro Bottini – “By Night” – ACP
In “By night”, il sassofonista Mauro Bottini si presenta in compagnia di Cristiano Coraggio alla batteria, Marco Massimi al basso e Antonino Zappulla alle tastiere (pianoforte, Fender Rhodes e Organo), cui si aggiunge in un solo brano – “Rome by Night” scritto da Bottini – la pregevole chitarra di Rocco Zifarelli. L’album è dedicato alla notte, un momento particolare nella vita di tutti noi, ma ancora più particolare per i musicisti che di notte spesso vivono, suonano e quindi evidenziano la propria personalità. Personalità, nel caso di Bottini, delineata da tempo a disegnare un artista maturo, perfettamente conscio delle proprie possibilità e che, proprio per questo, non esita ad esibirsi nella triplice veste di sassofonista, leader e compositore. Insomma, già dall’ascolto di questo album, si può avere una visione chiara della bravura di Bottini che ci restituisce un quadro della “notte” a tinte variegate così come deve essere, in cui ad atmosfere fusion (si ascolti Rocco Zifarelli nel brano d’apertura), a tratti anche funk si alternano dolci ballad, il tutto caratterizzato da una fruttuosa ricerca sulle linee melodiche. Al riguardo da segnalare soprattutto “My Princess”, composta ancora da Bottini mentre sotto il profilo ritmico da ascoltare con particolare attenzione “If” di Antonino Zappulla.

Max De Aloe – “Just For One Day – The music around David Bowie” – barnum
Armonicista di grande sensibilità e dotato di un sound affatto personale, Max De Aloe si ripresenta alla testa del suo quartetto, stabile oramai da più di dieci anni, con Roberto Olzer al pianoforte, Marco Mistrangelo al contrabbasso e Nicola Stranieri alla batteria.
In repertorio tredici brani che rappresentano un viaggio attorno alla musica di David Bowie, una vera e propria icona del rock internazionale, con l’aggiunta di cinque pezzi composti dallo stesso armonicista. De Aloe affronta il non facile repertorio alla sua maniera, ovvero con sensibilità, eccellente senso melodico, grandi capacità architettoniche e quel suono che, come accennato in precedenza, costituisce la specialità della casa. Di qui una musica sorprendente che lungi dal caratterizzarsi come semplice riproposizione di brani già noti, tende a reinventarli secondo la personalissima visione del leader, in un momento particolare come l’attuale. In effetti è lo stesso Max, nelle note di copertina, ad informarci di come nei giorni in cui avrebbero dovuto essere in studio di registrazione, si è ritrovato vittima del Covid 19, allettato per più di un mese. La convalescenza è stata lunga e non senza problematiche cosicché sarebbe stato meglio attendere ancora un po’ prima di registrare. Ma De Aloe voleva registrare il prima possibile in quanto ciò che l’affascina nella musica “non è l’idea di perfezione ma la sua visceralità, autenticità e urgenza espressiva” Così il 20 luglio scorso è entrato in studio di registrazione e i risultati stanno lì a dimostrare quanto avesse ragione! Particolarmente toccante l’interpretazione di “Lazarus”, considerata a ben ragione la canzone simbolo del testamento musicale di Bowie

Massimiliano Génot, Emanuele Sartoris – “Totentanz – Evocazioni Lisztiane” – Dodicilune
Un duo pianistico impegnato in un repertorio originale ma esplicitamente ispirato alla musica di Franz Liszt, ad eccezione dei brani di apertura e chiusura dovuti rispettivamente a Génot e Sartoris, e al già citato Listz. Come si evidenzia da quanto detto, un esperimento già tentato nel mondo del jazz con esiti alterni in quanto collegare jazzisti al mondo classico è impresa certo non facilissima. Questa volta la sfida presenta due incognite in più: innanzitutto l’eterogeneità del duo in quanto mentre Massimiliano Génot è artista ben affermato nel mondo della musica classica, Emanuele Sartoris è pianista jazz; in secondo luogo “Totentanz”, opera non molto conosciuta, è stata scritta per pianoforte e orchestra. I due pianisti affrontano le complesse partiture con l’intento non di riprodurle sic et simpliciter, ma di fornirne una propria originale visione che si appalesa, particolarmente in due brani: “Toten-Rag” in cui il pensiero di Liszt viene declinato in termini di ragtime mentre in “Hispanic Barbarian Fantasy” i due pianisti tendono a sottolineare come la musica colta europea dell’ottocento e del novecento sia stata fortemente influenzata dalle musiche ispaniche a loro volta debitrici delle tradizioni arabe. Insomma come acutamente osserva Paolo Fresu nelle note di copertina, “un’opera senza confini capace di abbattere le tante barriere che il macabro mondo odierno edifica”.

Maurizio Giammarco – “Only Human” – PMR
Conosco Maurizio Giammarco da oltre quarant’anni per cui posso affermare, senza tema di smentita, che si tratta di una delle persone – al di là della statura artistica – intellettualmente più oneste che mi sia capitato di conoscere. Ed è in questo solco che si inscrive anche “Only Human” inciso con “Halfplugged Syncotribe” vale a dire la nuova versione espansa a quintetto del trio Syncotribe, già attivo da un quinquennio; il gruppo risulta quindi formato, oltre che dal leader, da Luca Mannutza il quale affianca all’organo anche il piano acustico e quello elettrico, da Paolo Zou, giovane chitarrista romano, dal bassista Matteo Bortone e dal batterista Enrico Morello. In repertorio nuove composizioni appositamente pensate per questo gruppo da Giammarco e presentate a gennaio scorso nell’ambito della rassegna Recording Studio. Il concerto è diventato per l’appunto questo “Only Human” che, come dichiara lo stesso Giammarco, “viene incontro a un sentimento d’insofferenza, ovvero quella che provo di fronte all’uso generalizzato e irresponsabile degli strumenti di comunicazione di massa”. Il titolo “Only Human” fa riferimento quindi al “risveglio di un nuovo umanesimo”. Di qui una musica non sempre facile, alle volte sghemba, caratterizzata come sempre da una indiscussa originalità, da un notevole equilibrio fra tradizione e sperimentalismo e da una ricca tavolozza sonora e timbrica dovuta soprattutto a Luca Mannutza e Paolo Zou che – dichiara ancora Giammarco – “suona la chitarra in modo differente da come solitamente la suonano i chitarristi di jazz, usando gli effetti e tutto il potenziale dello strumento”.

Bruno Marini – “4” – Arte Sonora
“Love Me or Leave Me” – Arte Sonora
Due gli album del baritonista veronese Bruno Marini in scaletta questa volta. In “4” il leader è accompagnato da Marcello Tonolo al piano, Marc Abrams al contrabbasso e Valeri Abeni alla batteria. In repertorio sei brani composti dallo stesso Marini (quattro) e da Tonolo (due), registrati a Verona nel luglio del 1985, già comparsi su LP e ora ripubblicati, dopo 35 anni, su CD. Si tratta, insomma, come sottolineato nella stessa copertina dell’album, di “historical tapes”. In realtà queste sono le prime tracce incise dal quartetto dopo un certo lasso di tempo speso a suonare in club e festival. Già allora il gruppo appariva ben rodato, in grado di produrre musica di eccellente livello, sempre in bilico tra pagina scritta e improvvisazione, grazie sia all’intesa tra i musicisti, sia alla bravura dei singoli; non a caso l’album venne registrato in soli cinque giorni.
Anche “Love me or leave me” contiene “historical tapes” dal momento che è stato registrato e pubblicato su LP solo due anni dopo il già citato “4” vale a dire nel 1987. Il sassofonista questa volta è in trio con Charlie Cinelli al contrabbasso e Alberto Olivieri alla batteria, quindi senza uno strumento armonico. In repertorio oltre agli otto brani contenuti nell’LP, “The Lady Is A Tramp” di Rodgers e Hart come bonus track. Alle prese con brani che fanno parte del song-book jazzistico come “Thelonious” di Monk, la title track di Donaldson e Kahn e “Bye Bye Blackbird” di Henderson e Dixon, Marini se la cava egregiamente denotando, già all’epoca, una raggiunta maturità suffragata da una grande padronanza tecnica e una buona capacità improvvisativa. Tra i brani da segnalare i due original di Marini, “Blue Mob” e “All the Things You Could Be”, che si rifanno piuttosto apertamente alle atmosfere disegnate da Gerry Mulligan nei primissimi anni ’50.

Mos Trio – “Metamorfosi” – Emme Record
Disco d’esordio per il “mOs trio” pubblicato il 10 aprile 2020 dall’etichetta Emme Record Label. Protagonisti Giuseppe Santelli al pianoforte, altresì autore di tutti i brani eccezion fatta per il celeberrimo “Take Five” di Dave Brubeck, Renzo Genovese al basso elettrico e Simone Ritacca alla batteria. A mio avviso la forza del trio si basa su due pilastri: da un canto il sapersi muovere tra diversi stili ma con un occhio sempre attento alla tradizione, dall’altro la profonda intesa che si è instaurata fra i tre e che li porta ad improvvisare ben sapendo che i compagni d’avventura non si perderanno per strada. Di qui una musica variegata che passa con disinvoltura, ma senza sbavature, dal jazz propriamente detto (si ascolti ad esempio il brano d’apertura “La strada del ritorno” con un Ritacca in evidenza) ad atmosfere latin-jazz come quelle disegnate in “Nostalgia” con una dolce linea melodica; dai suadenti ritmi dispari di ”Flowing” alla title track che, dopo un assolo di batteria, si apre ad una dolce melodia espressa dal pianoforte di Santelli ben sostenuto soprattutto da Renzo Genovese, il tutto con un occhio rivolto a certe forme della musica classica; dalla spagnoleggiante “A Toledo” al clima onirico di “My Thoughts” fino alla conclusiva “Take Five” la cui esecuzione è corretta…anche perché dire qualcosa di nuovo nell’interpretazione di questo pezzo è impresa molto, ma molto difficile, al limite dell’ impossibile.

Benjamin Moussay – “Promontoire” – Ecm
Novità in casa Ecm, l’incisione per piano solo del francese Benjamin Moussay che avevamo imparato a conoscere grazie alle registrazioni con il conclamato clarinettista Louis Sclavis (“Sources” 2012, “Salt and Silk melodies” 2014, “Characters On A Wall” pubblicato nel settembre del 2019, tutti e tre targati ECM) e con il nostro Francesco Bearzatti (“Dear John“ maggio 2019). Con “Promontoire” Moussay offre la sua più intima e personale proposta, caratterizzata da un profondo lirismo e da una non comune intensità espressiva. Registrato tra il gennaio e l’agosto del 2019, l’album presenta dodici composizioni originali dello stesso pianista, tutti di durata inferiore ai 5 minuti, e tre addirittura al di sotto dei due minuti. Quindi da un lato l’intenzione dell’artista di non battere vie conosciute, avventurandosi nella creazione dell’intero repertorio; dall’altro l’esposizione di un pianismo fatto di brevi frasi, essenziale, a tratti quasi minimalista e purtuttavia con due sostanziali punti di riferimento: Bill Evans e Keith Jarrett. Moussay si mantiene sempre in un difficile equilibrio tra l’improvvisazione propria del linguaggio jazzistico ed un occhio attento alle più moderne espressioni della musica colta. In questo senso vanno lette alcune sue composizioni quali, ad esempio, “Théa” che forse non a caso chiude l’album. Tra gli altri brani di particolare interesse “L’oiseau d’or” probabilmente il brano più prettamente jazzistico dell’intero album.

Francesca Naibo – “Namatoulee” – Aut records
Tanto straniante quanto interessante questo album d’esordio della chitarrista veneta, milanese d’adozione, Francesca Naibo, che si esprime in assoluta solitudine. L’artista è giunta a questa prima fatica discografica dopo essersi fatta conoscere grazie alle collaborazioni con personaggi quali Marc Ribot e George Lewis. Straniante, dicevo, perché qui siamo davvero nell’apoteosi del sound. In effetti trovare in questa musica una qualsivoglia traccia melodica è impresa quanto mai difficile; si trascurano le parole e si va al di là di qualsivoglia schema predefinito. In compenso l’ascoltatore è immerso in un’orgia di suoni in cui la Naibo appare come una sorta di deus ex machina capace di padroneggiare questa materia incandescente in cui la libera improvvisazione di chiara matrice jazzistica e propria soprattutto delle avanguardie afroamericane si confronta e dialoga con le più acute sperimentazioni in campo sonoro proprie della colta musica contemporanea. In buona sostanza si tratta di una sfida aperta che la Naibo affronta forte di una solidissima preparazione tecnica e, probabilmente quel che più conta, con una straordinaria lucidità che le consente di andare avanti per la sua strada alla ricerca di forme espressive assolutamente nuove ed originali. Qualcuno ha voluto paragonare la Naibo alla Mary Halvorson, parallelismo a mio avviso forse un po’ troppo frettoloso: aspettiamo e vediamo quel che succede!

Chiara Pastò – “The Other Girl” – Velut Luna
Devo onestamente ammettere che questo album mi ha molto stupito: mi era stato presentato quasi come un disco di musica leggera ed ho invece scoperto un CD raffinato, concepito molto bene, registrato in maniera superlativa (così com’è consolidato costume della Velut Luna e del produttore Marco Lincetto) e che sfugge a qualsivoglia criterio di classificazione …certo escludendo la musica colta e quella contemporanea. Protagonista una vocalist di sicuro spessore quale Chiara Pastò, che può vantare una solida preparazione di base: canto, violino, pianoforte imparati appena adolescente, quindi il conservatorio di Vicenza dove studia con importanti personalità del jazz italiano quali Francesca Bertazzo, Salvatore Maiore, Piero Tonolo, Mauro Beggio, Paolo Birro. I primi passi professionali nel 2018 quando firma un contratto di esclusiva con la casa discografica Velut Luna con cui nel 2019 incide il suo primo disco. Ed ecco ora questo “The Other Girl” in cui la vocalist mette sul tappeto tutto il suo patrimonio musicale in cui è facile individuare echi di Joni Mitchell, Pearl Jam, Fred Bongusto, Mango, Luigi Tenco, Milva, Ornella Vanoni, Francesco De Gregori, Steve Wonder e Dee Dee Bridgewater. Una ricchezza di orizzonti che le consente di affrontare un repertorio non facilissimo composto in massima parte da brani originali con l’eccezione di “Lontano, lontano” di Luigi Tenco e “Cry Me A River” di Arthur Hamilton. Ben coadiuvata da un ensemble di eccellenti professionisti e da un’orchestra d’archi e da ottimi arrangiamenti curati in massima parte da Fabrizio Castania, la Pastò si esprime con grande coerenza lungo tutto l’album, evidenziando una timbrica originale e una grande capacità di interpretare i testi (per altro notevoli) in lingua italiana.

Oscar Pettiford – “Baden-Baden 1959, Karlsruhe 1958” – Jazz Haus
Oscar Pettiford fu uno dei più influenti contrabbassisti della storia del jazz tanto da definire uno stile esecutivo preso a modello da molti strumentisti, senza contare che fu tra i primi ad introdurre il violoncello nel jazz quando i postumi di una frattura al braccio non gli consentivano di suonare il contrabbasso. Questo album lo coglie in un momento particolare della sua carriera. Siamo negli ultimi anni ’50 quando Joachim-Ernst Berendt lo convince a recarsi in uno studio di registrazione di Baden-Baden alla testa di una band che comprende alcuni dei migliori jazzisti europei dell’epoca, come il chitarrista Attila Zoller, il trombettista Dusko Goykovich, il pianista Hans Hammerschmid, il clarinettista Rolf Kühn, mentre da Parigi arrivano il batterista Kenny Clarke e il sassofonista Lucky Thompson. Questa straordinaria formazione incide una decina di brani che sono puntualmente riprodotti in questo album unitamente ad altri sei brani registrati con una formazione leggermente modificata. La musica è davvero di alta qualità: vi consiglio di ascoltare soprattutto “But Not For Me” di George Gershwin impreziosito dal duetto di Pettiford con Goykovich, “The Nearness of You” in cui Hans Koller al sax tenore illustra il tema per poi lasciare campo libero al contrabbasso mentre in “All the Things You Are” Pettiford dimostra la sua straordinaria abilità di violoncellista in veste solistica.

Ferdinando Romano – “Totem” – Losen Records
Il contrabbassista Ferdinando Romano, al suo esordio discografico da leader, è presente da tempo sulla scena jazzistica (in particolare lo ricordiamo con la Rainbow Jazz Orchestra e l’Arcadia Trio assieme a Leonardo Radicchi sax e clarinetto e Giovanni Paolo Liguori batteria). Accanto a questa attività di strumentista jazz Romano affianca una solida formazione classica maturata con il diploma presso il Conservatorio “Luigi Cherubini” di Firenze e il Conservatorio della Svizzera Italiana di Lugano. Proprio grazie a questa preparazione ha avuto modo di segnalarsi anche come compositore in ambito classico-contemporaneo. Tutto ciò si avverte in questo album sia sul repertorio (otto composizioni tutte di Romano) sia sulla prassi esecutiva che vede all’opera un settetto completato da Ralph Alessi alla tromba, Tommaso Iacoviello al flicorno, Simone Alessandrini ai sax (alto e soprano), Nazareno Caputo al vibrafono e marimba, Manuel Magrini al piano e Giovanni Paolo Liguori alla batteria. Tutte le composizioni appaiono ben strutturate, caratterizzate da una intensa ricerca sul piano contrappuntistico e corredate da originali impianti ritmo-armonici e da una tavolozza timbrica di assoluta pertinenza. Ovviamente l’ottima riuscita dell’album è dovuta anche alla presenza di ottimi solisti tra cui, ancora una volta, si segnala Ralph Alessi la cui tromba disegna alcuni dei passaggi più interessanti dell’intero album. Tutto ciò senza dimenticare il fondamentale apporto del leader che si mette in luce già a partire dal brano d’apertura “The Gecko” in un trascinante dialogo con la marimba di Nazareno Caputo, mentre nel successivo “Evocation” il contrabbassista si esprime in splendida solitudine.

John Scofield – “Swallow Tales” – ECM
Come enunciato chiaramente nel titolo, questo album è un esplicito omaggio che il chitarrista di Dayton dedica all’amico e mentore Steve Swallow, con la riproposizione di nove brani del bassista. L’incisione, effettuata in uno studio di New York, risale al marzo del 2019 e Scofield suona in trio con Bill Stewart alla batteria e lo stesso Steve Swallow al basso. Insomma un incontro al vertice tra alcuni dei massimi esponenti del jazz di oggi, dal batterista Bill Stewart già compagno di Scofield in quella prestigiosa band che tanti successi ottenne tra il ’90 e il ’95, a Swallow prestigioso strumentista e compositore già compagno d’avventura di nomi assai prestigiosi come Carla Bley, Jimmy Giuffre, João Gilberto, Chick Corea, Gary Burton, Jack DeJohnette…per finire con Scofield unanimemente considerato uno dei massimi esponenti della chitarra jazz. Che tra Scofield e Swallow ci sia una profonda amicizia e una reciproca profonda stima non c’è alcun dubbio e questo legame, profondo, si avverte nell’album in oggetto. I due dialogano perfettamente, alternando improvvisazione e scrittura, con una levità non comune sicché la musica scorre fluida tanto da poter apparire, ad un ascolto superficiale, semplice. Citare qualche brano, particolarmente meritevole, è impresa impossibile dato che tutti meritano un ascolto attento…tuttavia se proprio devo farlo, mi piacerebbe che ascoltaste con mente e cuore aperto “Away” un vero e proprio gioiellino di grazia e capacità esecutiva.

Ermanno Maria Signorelli – “Silence” – Caligola
Accade, alle volte, che ammirato un artista sulla scena ce ne facciamo un’ idea che poi viene smentita quando il personaggio lo conosciamo da vicino, nella vita reale. Ecco, con Ermanno Maria Signorelli ciò non può accadere. Lo conosco da molti anni e nonostante ci siamo visti poche volte, lo sento particolarmente vicino in quanto la sua musica è lo specchio del suo essere. Lui è una persona gentile, colta, misurata, mai sopra le righe e mai banale…così la sua musica è fresca, originale, misurata, sempre rivolta ad esprimere l’animo dell’artista piuttosto che la sua preparazione tecnica, scevra da qualsivoglia esercizio muscolare. A questa sorta di regola non fa eccezione «Silence», secondo album di un trio nato nel 2004 e completato da Ares Tavolazzi al contrabbasso e Lele Barbieri alla batteria. Il CD esce sei anni dopo «3» (Blue Serge) e presenta sette composizioni originali del leader, uno standard (“Nardis” di Miles Davis) e la rivisitazione, assolutamente straordinaria, della celeberrima “Arietta” di Edvard Grieg. Ascoltando l’album si ha la netta sensazione di essere trasportati in un altrove dove il sussurrare, il non alzare i volumi, l’intimità la fanno da padroni, clima determinato anche dal fatto che, come loro consuetudine, i tre suonano rigorosamente acustico. Non a caso lo stesso leader, napoletano di nascita ma padovano d’adozione, scrive nelle note di copertina: “Dove tutti urlano non c’è voce che basti per farsi sentire; nella valle solitaria un usignolo è concerto”. E’ una musica, quindi, assolutamente originale che denota quanto tutti e tre gli artisti siano attenti a ciò che li circonda dandone un’interpretazione assolutamente personale.

Giannicola Spezzigu – “Voices of the Stones” – Caligola
Il batterista Marcello Molinari è leader di un quartetto attivo oramai da qualche tempo e dalla sua posizione ha lanciato il progetto di realizzare un disco a nome di ciascuno dei suoi componenti, che possono così esprimere le proprie potenzialità sia come leader, sia come compositori, Questa volta tocca al contrabbassista sardo, ma bolognese d’adozione, Giannicola Spezzigu, con Claudio Vignali al pianoforte e Andrea Ferrario al sax tenore a completare il quartetto, cui si aggiunge come special guest il trombettista Arne Hiorth in “Dimension of Emptiness”. In repertorio otto brani di cui sei composti dallo stesso Spezzigu e due da Andrea Ferrario. Il clima prevalente è quello di un ricercato lirismo che pervade tutti i pezzi ad eccezione del blues di “Souls Around”, di Andrea Ferrario, giocato su ritmi più accesi. Notevole “A Short Story” che evidenzia la bravura del leader che privilegia la bellezza e pienezza del suono al fraseggio molto articolato mentre nel già citato “Dimension of Emptiness” la tromba del norvegese Arne Hiorth (già accanto ad artisti di fama mondiale come Mari Boine, Anja Garbarek e Bjørn Eidsvåg) dà al tutto un tocco di preziosa struggente malinconia; notevole in questo brano anche l’assolo del leader.

Antonella Vitale – “Segni Invisibili” – Filibusta
Una Vitale inedita quella che si ascolta in questa nuova produzione. Dopo aver cantato jazz senza se e senza ma per lungo tempo, la vocalist romana si è concessa una sorta di evasione ma con esiti che non esito a definire più che positivi. Quindi cambio di organico: non più il quartetto di sole donne ma un quintetto completato da Gianluca Massetti piano e tastiere, Andrea Colella contrabbasso, Francesco De Rubeis batteria e percussioni e Danielle Di Majo sax soprano, alto e flauto. Mutamenti sostanziali anche nel repertorio: niente più standard jazzistici ma una serie di composizioni della stessa Vitale tenuti per lungo tempo nel cassetto con l’aggiunta di due splendidi brani tratti dal repertorio pop italiano, “Tu non mi basti mai” di Lucio Dalla e “Per me è importante” di Zampaglione, Triolo, Pesce, portato al successo da Tiromancino; quest’ultimo pezzo è stato registrato nel periodo del lockdown insieme a Massetti nelle rispettive case. Al cospetto di un repertorio per lei inedito, la Vitale ha scelto di immergersi totalmente nell’universo musicale che l’ha accompagnata nel corso della sua vita, quindi non solo jazz, ma anche rock, pop di qualità, musica d’autore, musica classica… servendosi di una vocalità sempre al servizio di una sincera espressività. Bisogna aggiungere che un tale risultato non sarebbe stato possibile senza gli ottimi arrangiamenti di Gianluca Massetti e senza la bravura dei singoli musicisti che hanno trovato, tutti, il giusto spazio. Così da apprezzare Colella in “Amara” chiuso da una pertinente citazione dall’Adagietto della Sinfonia n.5 di Mahler, la Di Majo superlativa nella title track mentre l’apporto ritmico di De Rubeis è stato preciso e spesso trascinante. Comunque in primo piano resta la Vitale particolarmente brava, a mio avviso, nel rendere bene un piccolo capolavoro quale “Tu non mi basti mai” e perfettamente in palla in tutte le altre esecuzioni.

We Kids Quintet – “We Kids Quintet” – abeat
I “Kids” del ‘patriarca’ Stefano Bagnoli cambiano ancora volto ma questo non ha influito sul livello qualitativo della famiglia. E così anche quest’ultimo CD si iscrive di diritto tra le tante belle cose realizzate dal batterista, nell’occasione affiancato da Giuseppe Vitale (pianoforte), Stefano Zambon (contrabbasso), e da due indiscussi talenti da lui scoperti di recente, i fratelli siciliani, Matteo Cutello (tromba) e Giovanni Cutello (sax), particolarmente efficace quest’ultimo in “Work 3”. In repertorio dieci brani, più un bonus track, tutti scritti dai componenti il gruppo. Realizzato con il sostegno di MiBACT e SIAE nell’ambito del programma “Per chi crea”, l’album è stato registrato presso Il Pollaio Studio (Ronco Biellese) nei primi giorni del gennaio di questo 2020. Le tracce del disco si ascoltano tutte d’un fiato, in quanto la musica ti cattura sin dal primo istante tale e tanta è l’energia che il gruppo riesce a sprigionare. La tecnica esecutiva è impeccabile, la bravura dei singoli manifesta in ognuno degli assolo che si ascoltano, ottimo il materiale su cui il quintetto si misura: composizioni originali, ben studiate in cui pagina scritta e improvvisazione si bilanciano correttamente. Tra tutti continua a spiccare il leader, Stefano “Brushman” Bagnoli, efficace sia dietro i tamburi, sia nel dirigere il gruppo, sia nel fornire allo stesso due dei migliori brani del disco, “Epigrafe” in apertura e “Salieri” in chiusura prima del bonus track.
Senza dimenticare, come si accennava in precedenza, la scoperta dei fratelli siciliani che conferma le sue doti anche di eccellente talent scout.

Martin Wind – “White Noise” – Laika Records
E’ uscito il 28 agosto l’undicesimo album del contrabbassista e compositore tedesco, Martin Wind, da 25 anni sulla scena newyorkese. Edito dalla Laika Records, “White Noise” vede accanto al contrabbassista due grandi personaggi del jazz europeo quali il chitarrista Philip Catherine ed il flicornista e trombettista olandese Ack van Rooyen. In repertorio otto brani composti in prevalenza da Wind e van Rooyen cui si aggiungono alcuni standard di Kenny Wheeler, Cole Porter, Jimmy Van Heusen e Jule Styne. Il trio, orfano di uno strumento armonico, si muove lungo una direttrice ben chiara: eliminare qualsivoglia esibizione di mero tecnicismo, suonare quasi per sottrazione a enfatizzare un concetto che viene esplicitato dallo stesso leader: “Il silenzio è diventato sempre più un lusso, con “White Noise” ho voluto creare un polo acustico opposto. Una sorta di oasi sonora in cui il pubblico può rilassarsi e godere la musica fino alla sua massima espressione”. Obiettivo raggiunto? Direi proprio di sì. Intendiamoci: nulla di particolarmente nuovo sotto il sole, ma una musica “melodica” eseguita con sincera partecipazione dai tre artisti i cui strumenti si fondono in un unicum spesso di rara bellezza. Si ascolti, ad esempio, la title track caratterizzato da un clima di soffusa malinconia in cui spicca una superba prestazione di Philip Catherine che fa cantare la sua chitarra con effetti di riverbero e distorsione.