Una nuova recensione del libro “L’altra metà del Jazz” di Gerlando Gatto

Continua il percorso del secondo libro del nostro direttore, Gerlando Gatto, “L’altra metà del Jazz”, tra presentazioni in tutta Italia e recensioni. Pubblichiamo con grande piacere l’ultima di esse, scritta dal filosofo e critico musicale Neri Pollastri, pubblicata su All About Jazz, che ringraziamo.

L’altra metà del jazz
Gerlando Gatto
255 pagine
ISBN: 978-88-97705-81-9
Kappa Vu, Udine
2018″Circa un anno dopo il suo Gente di Jazz (clicca qui per leggerne la recensione) Gerlando Gatto torna a pubblicare un nuovo libro di interviste. La novità—come annuncia il titolo parafrastico—sta nel tipo di protagonisti delle interviste: L’altra metà del jazz sono infatti le interpreti femminili di questa musica, quelle “voci di donne nella musica jazz”—come recita il sottotitolo—spesso trascurate in misura perfino maggiore rispetto a quanto già non avvenga in altri ambiti della società e ciononostante—come ben mostra l’ampiezza del libro—tutt’altro che marginali sia numericamente, sia qualitativamente.

Altra cosa che differenzia il presente lavoro dal suo antecedente è che le interviste siano state in larga misura realizzate appositamente per questa raccolta, quindi quasi tutte piuttosto recenti. Con qualche eccezione, talvolta eccellente—l’intervista a Tiziana Ghiglioni unisce un’intervista del 1990 con una del 2013, così da integrare momenti diversi della sua vita, mentre quella a Karin Krog è del 1991—talvolta anche dolorosa—come nel caso di due artiste oggi scomparse, la cantante norvegese Radka Toneff, suicidatasi nel 1982, e la pianista catanese Dora Musumeci, brillante pioniera del nostro jazz investita da un ignoto pirata della strada nel 2004.

Tra le ben trenta artiste intervistate—delle quali undici sono straniere—troviamo figure di primo piano accanto ad altre meno conosciute, scelta che permette da un lato di vedere più da vicino musiciste delle quali già si apprezza la produzione, dall’altro di venire a conoscenza di artiste ignote ai più. Per tutte, comunque, le interviste toccano tanto il versante artistico, quanto quello personale, per provare a comprendere in che modo le donne vivano un mondo popolato perlopiù di uomini e anche in come questi ultimi si relazionino con loro. Da questo punto di vista, la buona notizia è il fatto che le intervistate alle quali venga richiesto (non tutte, ma molte) se si siano imbattute in più o meno pressanti “richieste indecenti,” rispondono nella quasi totalità negativamente e anche le poche che non lo fanno affermano di essersi liberate con un semplice diniego. Ma ovviamente l’esplorazione fatta da Gatto del rapporto tra femminilità e attività artistica in ambito jazz non si limita a questo e tocca molteplici temi, intrecciandosi con quelli relativi all’attività artistica.

Anche la selezione delle artiste è piuttosto varia sia per tipo di interpretazione, sia per genere: molte, ovviamente, le cantanti, da Dee Dee Bridgewater a Youn Sun Nah, passando per Karin KrogSarah Jane Morris e molte delle migliori voci nostrane; diverse le pianiste, con Myra MelfordIrene Schweizer, e Hiromi Uehara, senza dimenticare Rita Marcotulli e appunto la Musumeci; ma non mancano giovani sassofoniste come Giulia Barba, contrabbassiste come Silvia Bolognesi, fino all’arpista Marcella Carboni.

Lo spessore delle singole interviste dipende ovviamente dall’interlocutrice. A nostro personalissimo giudizio sono sembrate particolarmente interessanti quelle della Melford e della Schweizer, mentre tra le italiane quelle di Petra Magoni e Ada Montellanico. Una nota particolare meritano tuttavia le interviste a Enrica Bacchia, vocalist dallo straordinario percorso di ricerca, e a Donatella Luttazzi, figlia di Lelio, per lo spessore umano che vi traspare. Ma, con pochissime eccezioni, tutte le interviste sono interessanti, vuoi per quanto le artiste hanno da comunicare, vuoi per il garbo con cui sono realizzate.

Un bel libro, che Gatto confessa di aver messo in cantiere dopo alcune critiche ricevute per l’assenza di figure femminili nel suo lavoro precedente. In effetti, da questo punto di vista si tratta di un libro che si può a buon diritto definire necessario.” (Neri Pollastri)

courtesy: All About Jazz

 

Along Came Jazz Una rassegna attenta al nuovo

 

“Along Came Jazz 2018” ha chiuso i battenti domenica 29 luglio con il progetto – dedicato a colonne sonore – “When You Wish Upon a Star” del chitarrista Bill Frisell, seguito – alle Terme Acque Albule, presso Tivoli (Roma) – da circa ottocento spettatori.

I dati della manifestazione, ad ingresso gratuito, parlano di successo dato che la cantautrice napoletana Flo (25/7; accompagnata da Marcello Giannini, Davide Costagliola e Michele Maione) ha avuto un pubblico di 400 persone, come gli ottimi Roots Magic (Alberto Popolla, Enrico De Fabritiis, Gianfranco Tedeschi, Fabrizio Spera) il cui concerto è stato spostato al 27 luglio causa pioggia, con gli inevitabili disagi anche nella comunicazione. L’affluenza maggiore si è registrata il 28 per Steve Coleman & Five Elements (Jonathan Finlayson, Kokay, Anthony Tidd, Sean Rickman) arrivando ad oltre 900 spettatori, tra cui molti giovani attratti dalla presenza del rapper. L’altosassofonista e leader afroamericano ha, peraltro, un album in uscita proprio in questo mese di agosto, registrato dal vivo al newyorkese Village Vanguard.

Si è parlato con il direttore artistico di “Along Come Jazz” – Enzo Pavoni – del futuro della rassegna, sospesa tra il 2010 ed il 2015 e ripresa nel 2016 in stretta collaborazione con la presidenza delle Terme Acque Albule, senza contributi dagli enti locali. Forte del continuativo successo, l’Associazione “Costa della Forma”, organizzatrice del festival tiburtino, vorrebbe continuare ma quanto accadrà e se ci saranno altre edizioni dipende dalla proprietà della Società Terme Acque Albule, che è privata – sebbene per ora al 40% – e in quanto tale libera dalle decisioni della politica.

Si sta, comunque, lavorando per ipotizzare il proseguimento della collaborazione (soprattutto sotto il profilo economico) per un minimo di tre anni, dato il carattere nazionale di “Along Came Jazz” i cui concerti sono stati spesso riproposti da Radio3. La stessa amministrazione comunale sembrerebbe essersi accorta del valore della rassegna. Il futuro saprà dare una risposta a quanto costruito in anni di lavoro e di programmazione sempre attenta al “nuovo” che si muove sia in Italia che negli U.S.A.

Luigi Onori

Nella musica di Randy Weston il mistero dell’amore

 

“The Power of Music”, “the Power of Spirit”: queste due frasi  potrebbero sintetizzare il radioso, energetico, coinvolgente concerto del Randy Weston’s African Rhythms Quintet alla Casa del Jazz il 19 luglio, per il “Roma Jazz Festival 2018. Jazz Is Now”.

Il direttore artistico Mario Ciampà ha in breve presentato il recital, affermando di aver fortemente voluto la presenza di Weston – splendido novantaduenne, nato lo stesso anno di Miles Davis – proprio nella dimensione contemporanea del jazz esplorata dal festival; è quella che nella programmazione vede, tra gli altri, Giovanni Guidi e Fabrizio Bosso, Corey Harris acoustic trio, il settetto di Vijay Iyer, i Five Elements di Steve Coleman e la New Talents Jazz Orchestra diretta da Mario Corvini. In questa “cornice” il pianista e compositore afroamericano rappresenta sì la “tradizione” ma non il “mainstream”, perché la ricerca e il valore delle musiche westoniane sono duraturi e si sviluppano in un percorso Africa-Afroamerica cominciato nei tardi anni ’50 e nutrito da innumerevoli esperienze, progetti, organici, iniziative. Tutto nel nome di una rigorosa coerenza che ha guidato Weston a generare la propria musica senza nessuna concessione al “mercato” o alle “tendenze”, in un’ampia dimensione che rivendica e valorizza l’enorme contributo dato dall’Africa e dai suoi “figli diasporici” alla storia dell’umanità, dalla musica all’economia.

Pubblico abbastanza numeroso e piuttosto partecipe, considerando la situazione jazzistica romana che soffre – in questo luglio – per eccesso di proposte, per la mancanza di una “cabina di regia” (strutture museali che fanno rassegne musicali…), per il conflitto fra concerti gratuiti e a pagamento, per i prezzi non differenziati (perché non fare biglietti ed abbonamenti “giovani”?), insomma per una situazione complessiva che tende ad affastellare date (spesso in concorrenza) e a non valorizzare gli artisti. Lo stesso “Roma Jazz Festival” ha dovuto annullare (e sostituire) l’annunciato concerto dei Freexielanders, da tempo in cartellone, dopo che i musicisti non hanno accettato il tardivo cambio delle condizioni d’ingaggio, con inevitabili code polemiche.

Si diceva del repertorio di Weston e dei suoi African Rhythms: l’ottimo T.K.Blue (sax alto e flauto), l’originale Billy Harper (sax tenore; collaboratore del pianista dal 1972), Alex Blake (contrabbassista virtuoso ed estroverso, dalla tecnica chitarristico-percussiva) e Neil Clarke (percussioni, infaticabile ma in alcuni episodi troppo presente). Randy Weston ha proposto, insieme al ben affiatato gruppo, lunghi brani “storicizzati” che, però, nei rispettivi arrangiamenti (uno della compianta ed eccellente Melba Liston) e nella concreta, vivace e dialettica esecuzione non hanno mostrato rughe. Si parla del fiammeggiante “African Cookbook” (nell’album omonimo del 1964), dell’orchestrale e trascinante “African Sunrise” che rievoca le atmosfere afrolatine di Dizzy Gillespie e Machito (si trova, tra l’altro, nel doppio “The Spirit of Our Ancestors”, 1992), della ballad in tempo dispari “Hi-Fly” (incisa nel 1958), del corposo “Berkshire Blues” che dà il titolo ad un long playing Black Lion del 1965, di “Blue Moses” ispirato alla musica devozionale gnawa (nel nord dell’Africa; il pezzo risale agli anni ‘70) e, come bis, del lento, mistico, profondo “The Mistery of Love” del compositore ghaniano Guy Warren (inserito nel disco “Highlife”, registrato nel 1963 dopo uno dei primi viaggi di Weston in Africa).

Occorrerebbe troppo spazio per descrivere in dettaglio ciascuno dei sei brani ma su qualche prassi esecutiva è utile soffermarsi per avere un quadro della musica westoniana e del suo livello. Intanto il pianista ha ancora oggi un carisma fortissimo, sa comunicare con semplicità ed efficacia, dirige i suoi musicisti con piccoli cenni e lascia loro ampi spazi, si ritaglia rari momenti solistici ma costruisce il tessuto vivo della musica a livello armonico, timbrico e ritmico: non a caso è un discepolo di Duke Ellington e Thelonious Monk. Gli African Rhythms non utilizzano batteria ma un set di percussioni (congas, soprattutto, ma anche bongo, timbales e piatti): ciò evita un drumming jazzistico (tranne in rare situazioni) e favorisce una costruzione poliritmica dei brani, vivida e stratigrafica. Spesso i pezzi sono introdotti da preludi pianistici a tempo libero, delle autentiche e vertiginose escursioni in cui Weston accenna alla melodia del pezzo variandola già in modo radicale, inserendo i trilli, le ottave contrapposte, i ribattuti, i cluster e le dissonanze che seducono e rapiscono chi ascolta.  Le composizioni sono strutturate in più episodi scanditi dalla presenza dei due fiati usati in varie combinazioni: T.K.Blue ha uno stile alla Johnny Hodges ma modernizzato mentre Billy Harper evoca la lezione di Sonny Rollins però come prosciugata, essenzializzata. Antifonia, senso del blues e polifonia sono spesso presenti, come una dimensione ritmico-danzante: a volte il pianista sospende la sua azione e ascolta, compiaciuto, il gruppo, accennando qualche movenza di danza. Le alternanze tra tempi liberi e fortemente scanditi è un altro elemento della musica caleidoscopica di Weston, una miscela di collettivo e individuale che è l’essenza del jazz. A volte le personalità esplodono, come nel caso del funambolico Alex Blake il cui contrabbasso diventa chitarra flamenca, gumbri (strumento gnawa), percussione. Innumerevoli i momenti pregevoli ma chi scrive ha apprezzato – in un generale alto livello espressivo – l’esplosiva sezione B di “African Cookbook”, tutti i “preludi/introduzioni” di Randy Weston, sempre altamente ispirati ed intensi, il formidabile senso del blues collettivo, l’alternarsi di quattro battute tra T.K.Blue e Blilly Harper in “Hi-Fly”, il misticismo di “Blue Moses”, la potenza spirituale e melodica di “Mistery of Love”.

Una vita in un concerto, senza retorica e senza presunzione, con una freschezza ed un’immediatezza che rendono Weston e la sua musica campioni di una “saggezza giovanile”, di un desiderio di vivere e di suonare che sembra abbattere il tempo e lo spazio, una musica per tutti gli uomini e contro tutte le violenze: “Mistery of Love”.

Gli Snarky Puppy al di là di ogni genere

 

Neanche l’atteso ottavo di finale tra Russia e Croazia ai campionati mondiali di calcio ha impedito ai fan degli Snarky Puppy di accorrere all’Auditorium Parco della Musica di Roma per assistere al concerto di una delle più interessanti formazioni apparse negli ultimi anni. Abbiamo scritto “una delle più interessanti formazioni apparse negli ultimi anni” e non “una delle più interessanti formazioni apparse nel mondo del jazz negli ultimi anni” per correttezza intellettuale.
In realtà gli Snarky Puppy sono una band del tutto atipica, per questo, quando si parla di loro, occorre scegliere bene i termini e accettare il fatto che con loro le categorie musicali generalmente utilizzate per definire la musica sono del tutto inutili.
Sotto certi versi gli Snarky Puppy ci hanno fatto venire in mente il pianeta Solaris descritto dallo scrittore polacco Stanislaw Lew e portato sugli schermi dal regista russo Andreij Tarkovskij (sul remake con George Clooney stendiamo un velo pietoso…). Come Solaris, gli Snarky Puppy sono una formazione in continua evoluzione, mai uguale a se stessa, estremamente cangiante nelle scelte musicali, ma capace di dare vita ai tuoi desideri più reconditi ed inespressi. Tanto per dare un’idea della difficoltà di catalogazione, nel 2014 il gruppo guidato dal bassista Michael League ha ottenuto con Something il Grammy Award come migliore performance rhythm’n’blues. Nel 2015 i lettori di Down Beat hanno eletto gli Snarky Puppy il Jazz Group of the Year mentre nel 2016 e 2017, rispettivamente, con Sylvia e Culcha Vulcha hanno ottenuto un Grammy come Best Contemporary Instrumental Album. Come se ciò non fosse sufficiente League ha trovato anche la maniera di produrre gli ultimi due album di David Crosby, Lighthouse e Sky Trail, regalando una seconda giovinezza al vecchio gigante della West Coast.

Non chiedeteci che genere suonano gli Snarky Puppy perché non sapremmo cosa rispondere. Li suonano tutti e tutti insieme, ma contemporaneamente non ne suonano nessuno. In questo operano una fusione tra generi, ma guai a definirli fusion. Immaginate la band come un enorme shaker musicale dove gli ingredienti sono miscelati in dosi diverse. Ad agitare il tutto è una possente sezione ritmica, con le batterie a dialogare sempre tra loro, il basso elettrico a tenere groove, spesso doppiati dalla mano sinistra di una tastiera. Al di sopra degli strati ritmici creati emergono improvvisamente assoli di chitarra elettrica, oppure è la sezione fiati che disegna linee soul, funk jazz, rock, giungendo anche a ricordare gli inni del Philadelphia sound.
Anche a livello di formazione il gruppo di Brooklyn (anche se formato a Dallas, Texas) non ha un assetto tipo. Sono infatti una trentina i musicisti che ne fanno parte, a rotazione. Come più volte ha affermato League, riferendosi agli Snarky Puppy, è più giusto pensare al concetto di una famiglia i cui componenti si frequentano, ma non necessariamente si vedono sempre tutti insieme. Per ogni strumento ci sono tre o quattro musicisti disponibili. I chitarristi sono tre, cinque i tastieristi, quattro i batteristi, sei i musicisti ai fiati. Anche la fase di composizione dei brani è molto originale. Chiunque può proporre una sua composizione che viene poi provata assieme. Nel corso di questa fase ogni musicista può portare cambiamenti o avanzare i suoi suggerimenti. Il brano viene eseguito sino a quando non viene trovata la giusta alchimia frutto del lavoro di squadra.

A Roma gli Snarky Puppy si sono presentati in nove, con una formazione composta da due batterie, un basso elettrico, una chitarra elettrica, due fiati, una tromba e un sax tenore (a volte tre quando un tastierista lasciava il suo strumento e si aggiungeva alla sezione), tre tastiere. Un groove di basso di League ha dato il via a un concerto, purtroppo non impeccabile dal punto di vista sonoro. Spesso si sono udite distorsioni sui fiati, che sono un elemento fondamentale nel suono della band e il volume, generalmente troppo elevato, ha penalizzato la musica invece che esaltarla. Di solito questi problemi si risolvono dopo un paio di brani, ma purtroppo stavolta i fonici non sono riusciti a rimediare. Il rimpianto di non aver potuto ascoltare la musica degli Snarky Puppy al 100% delle sue possibilità è stato ben presto superato dall’entusiasmante prestazione del gruppo. Già al secondo brano, un lento con una parte di fiati alla Sketches of Spain, incastonato su una ritmica funk, ha indotto il pubblico all’applauso ritmico e ad accompagnare, cantando, i temi della band. Non ci era mai accaduto ascoltare la platea intonare dei temi strumentali. Kite, tratto da We Like It Here, è stato accolto da un’ovazione e così tutti i successivi brani proposti dal gruppo. L’entusiasmo del pubblico, in genere molto giovane, è stato autentico e trascinante. Nel corso della serata che è stata essenzialmente improntata al funk (perdonerete la semplificazione giornalistica) abbiamo provato ad analizzare le componenti del gruppo, così come al ristorante si cerca di individuare la ricetta o l’ingrediente segreto di un piatto che ci sta piacendo particolarmente. La base, come detto prima, è la ritmica, con le due batterie a portare i primi mattoni nella costruzione dei brani e il basso elettrico a iniziare l’innalzamenti del muro della struttura portante. Le tre tastiere avevano (perdonate ancora la banalizzazione) compiti ben precisi. La prima era essenzialmente ritmica e spesso doppiava le linee di basso di League. La seconda aveva un suono molto tagliente, anni Settanta, alla Chick Corea del periodo Return to Forever, mentre la terza (probabilmente un Hammond C-3) aveva una funzione più soul e groovy.  La chitarra elettrica era essenzialmente rock, mentre la sezione fiati (che meraviglia, l’avremmo voluta più ampia) agiva quasi come solista e aveva il compito di eseguire linee melodiche fossero esse improvvisazioni jazz o stacchi funk. Ogni volta che la sezione entrava in azione, le sue linee risultavano sorprendenti e capaci di trasformare il mood del brano, vuoi per la bellezza dei temi proposti vuoi per l’inatteso contrasto apportato rispetto alla generale dinamica del brano. In una intervista League ha spiegato di essere cresciuto ascoltando tantissimo pop, soul, rhythm’n’blues. La scuola jazz che ha frequentato gli ha insegnato le basi della teoria musicale, rendendolo capace di comporre musica con sensibilità pop, sebbene dotata di profondità. League non ha mai voluto essere il nuovo grande musicista jazz ma piuttosto essere un musicista che scrive musica unica, risultato della combinazione dei generi che ama. Da quanto abbiamo potuto ascoltare nel corso del concerto, League ha decisamente realizzato il suo obiettivo.

 

 

Marco Giorgi

www.red-ki.com

 

“Il jazz italiano per le terre del sisma” con oltre 30.000 partecipanti

 

La scossa di martedì scorso (5 settembre) – con epicentro a Campotosto vicino L’Aquila – ha ricordato quanto sia ancora profonda e aperta la “ferita” dei terremoti che hanno colpito quattro regioni dell’Italia centrale (Lazio, Abruzzo, Umbria e Marche) tra il 2009 e il 2016. Attraverso la musica, la solidarietà, la mobilitazione di jazzisti e pubblico – in una chiave ricostruttiva e positiva – la rassegna “Il jazz italiano per le terre del sisma” (31 agosto-3 settembre) aveva riacceso i riflettori sui luoghi terremotati pochi giorni prima, per non dimenticare e per guardare al futuro.  Iniziata a Scheggino e transitata per Camerino, la manifestazione ha fatto tappa il 2 ad Amatrice. Qui sarà costruito ex-novo un Centro Polifunzionale, uno spazio per le arti; vista l’impossibilità di riedificare lo storico cinema-teatro Garibaldi, tutti i fondi raccolti dall’iniziativa dei jazzisti italiani (fin dall’edizione 2016) saranno destinati a questo luogo-simbolo. Nel sito dove sorgerà il Centro Polifunzionale di Amatrice hanno suonato Paolo Fresu e Daniele di Bonaventura, tromba e bandoneon, in un evento di apertura promosso dalla Croce Rossa Italiana (proseguito, poi, con altri concerti nel piazzale dell’ex Istituto Alberghiero).

Ma è stato a L’Aquila – come nella I edizione del 2015 – che si è concentrata domenica 3 settembre la maggioranza degli eventi: diciotto palchi sparsi nella città dove circa settecento jazzisti italiani di varie regioni, stili e generazioni (in base ad un democratico criterio di rotazione) hanno suonato (esibendosi gratuitamente) dalle 11 all’una di notte.

Alle spalle di questa mobilitazione di energie positive ci sono enti, strutture e persone. “Il jazz italiano per le terre del sisma” è stato promosso da Mibact, 723a Perdonanza Celestiniana nonché dalle città de L’Aquila, Amatrice, Scheggino e Camerino. Sponsor principale è la SIAE ma la costruzione materiale dell’esteso happening sonoro è frutto del lavoro del direttore artistico Paolo Fresu, di I-Jazz (che raccoglie parecchi festival e organizzatori nazionali), dell’associazione MIDJ (Musicisti Italiani di Jazz, con la sua dinamica presidentessa Ada Montellanico) e della romana Casa del Jazz. Come per le precedenti edizioni, si è realizzato un coordinamento di settore non comune nel nostro Paese, attraverso un lavoro preparatorio (volontario e gratuito) durato molti mesi.

Tanto lavoro ha rischiato di esser messo in forse dal maltempo ma – dopo una notte di forti temporali –  il sole si è alternato alle nubi consentendo lo svolgimento della rassegna all’aperto (anche se erano state predisposte situazioni al chiuso). Trentamila le persone che sono alla fine transitate a L’Aquila per “Il jazz il jazz italiano per le terre del sisma”, un risultato importante considerate le minacce atmosferiche e il ripetersi “usurante” di iniziative di solidarietà.

Pubblico, musicisti e politici (dal ministro Franceschini al sindaco Pierluigi Biondi) si sono ritrovati nel concerto di apertura alla Fontana delle 99 Cannelle alle 11: luogo fortemente simbolico per la gente aquilana, restaurato e magnifico sotto il sole; ben visibile, tuttavia, dalla fontana un edificio transennato ed inagibile. La voce di Peppe Servillo ed i Solis String Quartet hanno dato corpo alla magia della musica, a quell’immateriale che serve al materiale per credere ancora nella vita, nella bellezza. Gli artisti si sono esibiti in un repertorio di brani della canzone napoletana, con omaggi a Fausto Cigliano e Nino Taranto. Il primo appuntamento ha visto anche discorsi e premi, con un chiaro impegno per la ricostruzione da parte della politica e la volontà concreta di contribuire alla rinascita della città da parte del jazz italiano.

Per il secondo concerto (ore 12) si è saliti dalla Fontana delle 99 Cannelle all’area dov’era la Casa dello Studente (vi hanno cantato le Saint Louis Voices, dirette da Milena Nigro); il percorso mette drammaticamente in evidenza quanto ancora ci sia da riedificare. Ancora sul posto una parte delle macerie dell’edificio dove sono morti otto studenti universitari ma altri quarantasette – alloggiati in case private – sono scomparsi per il terremoto del 2009. Sono stati ricordati prima del concerto e si è chiesto un “luogo della memoria” per non dimenticarli.

Dalle 14 sino all’una di notte “Il jazz italiano per le terre del sisma” si è articolato su altri sedici palchi; ben presenti misure di sicurezza che, comunque, non hanno limitato la possibilità di fruire dei molteplici appuntamenti e percorsi sonori. Dal duo alla big-band si è ascoltato un variegato spaccato stilistico e generazionale della musica di ispirazione afroamericana nel nostro paese. In ogni sede di concerto c’era, inoltre, la possibilità di versare un contributo economico per il centro polifunzionale di Amatrice; il pubblico, soprattutto a partire dalle ore 16, è iniziato ad aumentare fino alla cifra già ricordata di 30.000 persone. In vendita in alcuni punti c’era anche il nuovo libro curato dall’associazione MIDJ che racconta – attraverso foto e testimonianze di musicisti – l’edizione dell’altr’anno: “il jazz italiano per Amatrice” (coordinamento editoriale di Marcello Allulli; comitato redazionale di Maria José Galindo e Paolo Soriani; 190 pagine, euro 25). I fondi raccolti con la vendita del volume di grande formato, pagate le spese di realizzazione, andranno sempre per la struttura culturale amatriciana.

Un vero peccato che la parte serale dei concerti tenutasi nel piazzale davanti alla Basilica di Collemaggio (ancora in restauro) – condotta da Geppi Cucciari –  sia slittata di un’ora e mezza nel suo svolgimento. Per questo motivo hanno suonato ad ora troppo tarda il pianista Enrico Intra (in duo con Marcella Carboni all’arpa) e Marcello Rosa (con una formazione di soli tromboni), musicisti ultraottantenni di grandissima levatura a cui, peraltro, MIDJ ha dato un premio alla carriera. Uno svarione organizzativo che ha visto il pubblico, complici le temperature rigide, scemare dopo il concerto di Mario Biondi (preceduto da banda di Paganico, big-band del Conservatorio de L’Aquila diretta da Massimiliano Caporale, quartetto di Gegè Munari e seguito dal duo Franco Ambrosetti/Dado Moroni) e prima dei “senatori” Intra e Rosa: si sarebbe potuto evitare modificando la scaletta degli interventi, che sono proseguiti con i recital di Gegè Telesforo “SoundzforChildren”, del pianista Rossano Sportiello, di Remo Anzovino e Roy Paci in “Fight for Freedom – Tribute to Muhammad Ali”.

Nel corso del pomeriggio chi scrive ha avuto la possibilità di ascoltare alcuni recital, che si susseguivano nei vari luoghi a distanza di un’ora o quarantacinque minuti. La centrale piazza Duomo – dove i restauri procedono – ha ospitato in un vasto palco formazioni orchestrali, tra cui la Roberto Spadoni & New Project Orchestra; la formazione – diretta dal chitarrista e didatta romano – vede, tra gli altri, Roberto Cipelli al piano, Giovanni Falzone alla tromba e Mauro Beggio alla batteria ed ha un repertorio vivace ed originale che si rifà all’album “Travel Music: l’Italia dal finestrino” (Alfa Music). Lungo l’asse centrale di corso Vittorio Emanuele si affacciano edifici storici i cui chiostri sono stati luoghi di musica. A palazzo Cappa Cappelli il trombettista/flicornista Giovanni Di Cosimo si è esibito con il gruppo elettrico “Nu”, in una formula che attualizza il linguaggio davisiano arricchendolo di tensioni e visioni contemporanee. Poco distante c’è Palazzo Natellis che ha visto l’applaudito recital di Marco Colonna (ance), Eugenio Colombo (ance, flauto) ed Ettore Fioravanti (batteria), il trio “Rahsaan” che propone un’originale e policroma lettura del repertorio di Roland Kirk.

Centralissimi la basilica di San Bernardino e la scalinata ad essa antistante. Come nel 2015, all’interno della magnifica chiesa si sono susseguiti recital pianistici fra cui quelli di Roberto Magris e Mario Piacentini. Quest’ultimo ha saturato lo spazio con brani dal sapore ora minimalistico ora più decisamente jazzistico, arrivando a distillare suoni in grande sintonia con lo spazio e gli spettatori. Sulla scalinata – con una magnifica vista sugli Appennini e su una zona de L’Aquila ancora caratterizzata dalle gru – ha suonato l’orchestra “L’Insiùm” del pianista Glauco Venier e del direttore-arrangiatore Michele Corcella, formazione eccellente con musicisti friulani e di varie parti d’Italia (Mirco Cisilino, Antonello Sorrentino, Simone La Maida, Michele Polga, Alfonso Deidda tra gli altri). Questo “laboratorio permanente di ricerca musicale” ha proposto prevalentemente musiche del cinquecentesco Giorgio Mainiero, oltre ad un “Dear Lord” in omaggio a Coltrane davvero mistico. Sempre sulla scalinata si è materializzata la musica di Jimi Hendrix nella non-filologica e corrosiva versione del gruppo MIDJ Espresso: Giovani Leoni “Purple Whales”, con – tra i vari – Simone Graziano, Alessandro Lanzoni e Dimitri Grechi Espinoza. Alla fine del corso V.Emanuele, in direzione della basilica di Collemaggio, c’era il palco della Villa Comunale che ha offerto il MatTrio, con il sax tenore di Marcello Allulli, la chitarra di Francesco Diodati e la batteria di Ermanno Baron: un gruppo dal linguaggio intenso e tagliente che declina il jazz nelle tensioni e nella dimensione contemporanea.

Tanti altri musicisti in tanti altri luoghi: piazza S.Margherita e piazza dei Gesuiti, l’interno e l’esterno dell’Auditorium del Parco (creato da Renzo Piano), palazzo Lucentini Bonanni, il ponte della Fortezza Spagnola, piazza Chiarino, parco del Castello, chiese del Crocifisso e di S.Giuseppe Artigiano… Camminando tra un concerto e l’altro un anonimo ha detto ai suoi amici: “Questa è L’Aquila che mi ricordo”; speriamo che non lo sia per un giorno l’anno e che tutti i luoghi colpiti dal sisma possano risorgere in una rinnovata dimensione, con l’aiuto – piccolo o grande – del jazz italiano che nel 2018 sarà per l’ultima volta a L’Aquila nella formula solidale e militante sinora utilizzata.

 

Nicola Puglielli tra standards e originals

 

Cari amici,

ci risiamo… o meglio ci ritentiamo. Martedì 7 febbraio riprendono le guide all’ascolto con Nicola Puglielli e la sua chitarra.

Quanti mi seguono, ricorderanno forse l’esperienza delle “Guide all’ascolto” che per alcuni anni ho condotto alla Casa del Jazz con buon successo.

Adesso, purtroppo, alla Casa del Jazz, per motivi prettamente economici, non è possibile ripetere queste esperienze per cui mi son dato da fare per trovare altri luoghi idonei. Qualche tempo fa, da un piccolo teatro mi era stata offerta la possibilità di organizzare una serata dedicata all’importanza della chitarra nella storia del jazz con il grande chitarrista Nicola Mingo; la serata andò bene e c’erano tutte le premesse per andare avanti ma non se n’è fatto alcunché dato che i gestori del locale si dimostrarono, per usare un eufemismo, poco gentili.

Adesso ho trovato un altro spazio particolarmente idoneo, con una bella sala che sembra fatta apposta per ospitare eventi musicali e altre salette che possono accogliere quanti alla musica non sono interessati: si tratta delle “Officine San Giovanni”, site in Largo Brindisi, 25.

Il primo appuntamento, come accennato in apertura, è fissato per martedì 7 febbraio dalle ore 19 alle 20,30. Protagonista la chitarra solo di Nicola Puglielli che presenterà un repertorio in cui accanto a noti standards quali “Nostalgia in Times Square” di Charles Mingus e “Django” di John Lewis figurano composizioni originali dello stesso Puglielli.

La passione di Puglielli per la chitarra e per il jazz inizia già negli anni settanta, quando frequenta i mitici locali romani come il “Music Inn” ove si fa le ossa suonando con grandi musicisti italiani come Massimo Urbani e Giovanni Tommaso. Più tardi si dedica intensamente allo studio del jazz, della chitarra classica e dell’arrangiamento sotto la guida di Gerardo Iacoucci. Sulla sua strada incontra jazzisti come Kirk Lightsey, Tony Scott, Steve Grossman e Philip Catherine, ma collabora anche con importanti compositori come Nicola Piovani e con l’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia a Roma.

Molte e variegate le esperienze in sala di registrazione con artisti quali Gerardo Iacoucci, Luis Bacalov, Manuel De Sica,  Germano Mazzochetti, Miriam Meghnagi, Gianfranco Reverberi, Lilli Greco, Nicola Piovani.

Come compositore ha ottenuto diversi riconoscimenti in concorsi internazionali come il Carrefour Mondial de la Guitare in Martinica con “In The Middle”. Ha composto le musiche di “Viva Ingrid!”, regia di Alessandro Rossellini, presentato al Festival del Cinema di Venezia del 2015.

Due i CD a suo nome: il primo, “In the Middle”, è stato prodotto nei 2000 dall’etichetta tedesca Jardis ed ha suscitato grande interesse da parte della critica che definisce Puglielli “una nuova stella della chitarra jazz” (Akustik Gitarre, Germania) e “una sorpresa per chi aveva dimenticato la chitarra acustica” (All about Jazz, Italia). Il secondo è “Viaggio ConCorde” pubblicato dalla III Millennio.

Nel 2013, per il Bicentenario Verdiano, ha realizzato due progetti, divenuti CD,  di elaborazione di musiche verdiane: “I Trovatori”, rilettura swing di arie del Trovatore inciso dal gruppo “Hot Club de Zazz” e “Play Verdi” (interpretazione jazzistica dei Preludi di alcune opere) registrato dal “Play Verdi Quartet”.

L’Huffington Post dice di lui che è un arrangiatore capace di “captare l’anima” del grande compositore.

Ha insegnato Chitarra Jazz nei Conservatori di Frosinone, Roma e Perugia.