Some Place Called Where: Marilena Paradisi e Kirk Lightsey!

MARILENA PARADISI | KIRK LIGHTSEY
Some Place Called Where
8 tracce | 44.57 minuti
Losen Records

«Dopo una lunga fase dedicata all’improvvisazione totale, alla ricerca e al rapporto col “suono” sviscerato in ben quattro album, ognuno con una particolarità come improvvisazione sulle immagini, la dialettica col silenzio, l’improvvisazione del testo, la dialettica con la risonanza, è come se sentissi di aver concluso un grande capitolo della mia storia, e ho sentito l’esigenza di tornare a “interpretare”, a cercare di raccontare storie attraverso l’uso della parola. Sono passati anni, sono accadute così tante cose che ora sento una differente maturità, un differente approccio alla musica e ai testi, inoltre sento che la mia voce è molto cambiata». Sono le parole di Marilena Paradisi, utile premessa per capire la “complessità risolta” di un disco importante e ambizioso, ma anche delicato, intimo, prezioso, come Some Place Called Where. L’ottavo album della vocalist italiana, che dopo tre dischi centrati sul jazz e quattro tra contemporanea e improvvisazione totale, si avvicina nuovamente alla musica delle origini: lo fa con maturità, con una sensibilità nuova e con una straordinaria partnership, quella del grande Kirk Lightsey.

Pubblicato dalla norvegese Losen Records, Some Place Called Where non è un disco solista con un “featuring”, lo straordinario pianista di Detroit non fa da “special guest”: si tratta infatti di un’opera nata da un duo, forte di un repertorio condiviso, di una comune sensibilità, della stessa visione magica e “olistica” del fare musica. Un senso di scoperta e di luminosità pervade l’intero album, con lo stesso stupore di quando Marilena vide per la prima volta Kirk dal vivo: «Kirk è un musicista che ho avuto la fortuna di ascoltare live e sono sempre rimasta colpita e affascinata dal suo pianismo, dal suo stile, oltre che dalla sua energia e vitalità vulcaniche. È un polistrumentista. Oltre al pianoforte suona il flauto e il violoncello. Ha uno stile inconfondibile, un tocco meraviglioso che fa cantare i tasti, una scelta armonica davvero inusuale che attinge alla musica classica, che lui ascolta moltissimo. Lui stesso, pur avendo vissuto la vera storia di questa musica, non ama etichettarsi come musicista di Jazz, non ama come viene usata oggi questa parola. Per lui è talmente profonda da spiegare – direi un modo di essere – che non ha senso come viene intesa normalmente. Per questo Kirk ama dire che la musica è “magica” oppure… non è musica! Lui cerca costantemente la magia quando suona, e ti invita a cercarla anche in te. Poche note e crea subito un’atmosfera, fa delle scelte armoniche davvero inusuali che ti portano sempre a nuova ispirazione».
Kirk Lightsey rilancia: «È un progetto davvero speciale per me perché suonare in duo e con questa scelta di repertorio mi fa trovare un suono orchestrale dal pianoforte che è molto importante per me. Trovare in quella musica il suono di suspense, mistero, senso di spazio infinito, affetti e sentimenti è importante per il mio feeling nella musica. Marilena ha una voce molto speciale e con molto talento, potrei dire tecnicamente per il suo particolare timbro, per intonazione, musicalità, flessibilità, espressività e il suo stare sul tempo, ma in una sola parola è “molto artistica”, e con questo intendo dire che è in grado di cantare profondamente i suoi sentimenti e per questo è espressiva e perfetta per questo repertorio». (altro…)

Se ne è andata Geri Allen

Di Luigi Onori

Foto di Carlo Mogavero

Chiedo scusa ai lettori se ho fatto passare una decina di giorni dalla morte della pianista afroamericana Geri Allen, prima di parlarne. La Allen si è spenta il 27 giugno scorso in un ospedale di Philadelphia: era malata di tumore ed aveva sessant’anni, essendo nata nel 1957 a Pontiac (Michigan). In Europa (ed in Italia) si era esibita l’ultima volta nel maggio scorso, in un apprezzato duo con Enrico Rava.

Ci sono artisti che si seguono per lunga parte della carriera, artisti con cui chi scrive di musica cresce insieme: ci si nutre dei loro progressi, si assimilano e condividono i passi in avanti… Ho intervistato Geri Allen all’inizio della mia carriera e pubblicato sulle colonne di <<Musica Jazz>> (allora dirette da Pino Candini) un suo ritratto nella seconda metà degli anni ’80. In tante occasioni ho parlato della jazzwoman per varie testate, spesso all’interno del movimento M-BASE (capitanato da Steve Coleman), collettivo in cui la sua personalità emerse. Per molto tempo, fino al 2006 circa, ho seguito costantemente la sua carriera ed i suoi concerti, l’ultimo in trio presso la romana Casa del Jazz insieme ad un ballerino di tip-tap: una sorta di ritorno al passato, quando Louis Armstrong negli anni ’20 accompagnava i “folletti” dalle suole rinforzate.

Sono del 1956, un anno più anziano della pianista di Pontiac, e  la sua scomparsa mi ha ferito, anche perché la sua parabola creativa era tutt’altro che discendente e la rende paragonabile a Mary Lou Willians. Come quest’ultima, Geri Allen si è affermata in un mondo caratterizzato da una marcata presenza maschile; di notevole importanza è il suo itinerario artistico che, partito dai fermenti vivi della contemporaneità, l’ha vista definitivamente approdare all’insieme delle musiche afroamericane (“Timeless Portraits and Dreams”, Telarc 2006). L’ultimo album, non a caso,  si intitola “Celebrating Mary Lou Williams live at Birdland NY” (Intakt, 2016).

Prima di approdare al New York ed al collettivo M-BASE, la pianista si è interessata al soul ed al pop, giungendo al jazz attraverso la fusion degli Head Hunters, un gruppo elettrico capitanato negli anni ’70 da Herbie Hancock. In realtà è stata la metropoli industriale di Detroit il luogo della sua formazione, presso la Cass Technical High School dove insegnava l’influente trombettista Marcus Belgrave. A questo “imprinting” la Allen è tornata nel 2013 con il Cd “Grand River Crossing: Motown & Motor City Inspirations” (Motèma): brani di artisti Motown (da Smokey Robinson a Stevie Wonder) e di jazzisti d Detroit, terzo album di un trittico iniziato nel 2010 e con esecuzioni soprattutto in solo.

Laureatasi in etnomusicologia con Nathan Davis, la pianista – come si diceva –  arriva a New York ed è parte attiva del collettivo MBASE insieme ad un’altra jazzista di vaglia, la vocalist Cassandra Wilson, e ad artisti del calibro di Greg Osby (altista), Gary Thomas (tenorista), Kevin Eubanks (trombonista), David Gilmore (chitarrista), Gene Lake (bassista), Marvin “Smitty” Smith (batterista). In Europa incide il suo primo album “The Printmakers” cui seguirà il solo “Homegrown” (Minor Music 1984-’85). Da lì la carriera di Geri Allen ha dimostrato di  saper unire Monk a Cecil Taylor, il funky al jazz ed al gospel, Jimi Hendrix alla tap dance. Si susseguiranno, poi, esperienze e collaborazioni sempre significative: il suo gruppo elettroacustico Open On All Sides; i magistrali trii con Charlie Haden e Paul Motian; le proprie formazioni (dal trio al settetto) spesso con musicisti dalla forte personalità (da Ron Carter a  Kenny Garrett); il matrimonio con il trombettista Wallace Roney; l’attività di compositrice; l’incisione con Ornette Coleman dell’album “Sound Museum” (1996), primo pianista ad affiancare il padre del free jazz dopo Paul Bley (che lo fece nel 1958); i tour e numerosi i progetti discografici.

Nello stile di Geri Allen c’era sempre una forte tensione ritmica, unita ad un sottile melodismo. Spesso dietro le quinte, guidava con mano sicura ed esperta i suoi gruppi come sapeva mettersi al servizio degli altri musicisti, si trattasse di Dave Holland o Wallace Roney. Sono personalmente legato ad una manciata di sue registrazioni che consiglio, senza nessuna sistematicità. “Homegrown” (per l’etichetta europea Minor Music, 1985) la vedeva in piano solo, in una fragrante poetica che fondeva Monk e  Taylor alternando ritmo e cantabilità, giocando sulle pause, rendendo ora fitta ora rarefatta una musica originale (in gran parte suoi  brani, tra cui “Mama’s Babies” ed “Alone Together”) e sempre ispirata. In “In The Middle” (Minor Music, 1987) dove guida il suo ottetto Open on All Sides (con Steve Coleman e Robin Eubanks) c’è tutta l’anima “black music” dell’artista di Pontiac: strumenti elettrici, cori, forme non convenzionali, davvero un’apertura in tutte le direzioni con una salda radice jazz. Il trio con il contrabbassista Charlie Haden ed il batterista Paul Motian rappresentò la vera e propria consacrazione della Allen che seppe inserirsi fra i due “giganti” (latori ciascuno di una storia sonora imponente, tra Ornette Coleman e Bill Evans). Nell’album “In the Year of the Dragon” (JMT 1989) si percepiscono un ruolo paritario ed un riuscito interplay, evidente anche dal contributo compositivo di Geri Allen: “For John Malachi” e “No More Mr.Nice Guy”. Musica che travalica generazioni e gerarchie e si fa, soprattutto, “relazione”. Splendida anche la registrazione “Maroons” (Blue Note, 1992) con Marcus Belgrave e Wallace Roney (trombe), Anthony Cox e Dwayne Dolphin (contrabbasso), Pheeroan AkLaff e Tani Tabbal (batteria): tolti gli aspetti più vistosamente eversivi, resta una salda poetica ispirata anche dalla storia e da altre arti (come la lirica di Greg Tate che dà il titolo all’album). Niente di neoclassico, piuttosto un jazz intensamente contemporaneo quanto consapevole della propria storia.

Mi mancherà Geri Allen.

 

Luigi Onori

Geri Allen, Enrico Rava accoppiata vincente

 

Geri Allen pianoforte , Enrico Rava tromba e flicorno: un duo di straordinaria efficacia; lo abbiamo constatato personalmente il 19 maggio in occasione del concerto inserito nel programma di “Narrazioni Jazz” a Torino.

Allen e Rava rappresentano oramai due icone del jazz moderno, due artisti acclamati dai pubblici di tutto il mondo.

Nata a Pontiac, Michigan, cresciuta a Detroit, Geri Allen si è messa in luce, a partire da metà degli anni Ottanta, nel giro M-Base di Steve Coleman, dopo di che ha suonato in trio con Charlie Haden e Paul Motian, con Dave Holland, Ron Carter, Charles Lloyd, Ornette Coleman costruendosi una solida reputazione sia come solista sia come ‘accompagnatrice’. Nel suo stile si rintracciano disparate influenze, da Monk a Hancock, da Mary Lou Williams a Cecil Taylor, assorbite e ricondotte ad unità con grande maestria.

Parlare di Enrico Rava è quasi superfluo data la notorietà che il trombettista ha oramai raggiunto; in questa sede basti ricordare che si tratta del jazzista italiano meglio conosciuto all’estero e che la sua poetica ha conquistato un pubblico che va ben al di là dell’ancora ristretta cerchia degli appassionati di jazz.

I due si conoscono da molto tempo ma mai avevano avuto l’occasione di suonare assieme. Finalmente quest’anno è stato possibile organizzare un tour che partito il 10 maggio da Vienna, passando poi per Belgio, Germania e Francia, ha ‘toccato’ anche l’ Italia per quattro date: il 17 maggio a Correggio (Reggio Emilia) in occasione del Crossroads 2017, il 18 al Vicenza Jazz Festival, il 19 al Narrazioni Jazz di Torino e il 20 all’Unicredit Pavilion di Milano.

Ma veniamo alla serata del 19. Com’era fin troppo facile attendersi, il concerto è stato semplicemente superlativo. Ad onta del fatto che mai avevano suonato assieme, i due hanno evidenziato un interplay stupefacente: il loro jazz, che non esiteremmo a definire da camera, era asciutto, essenziale, declinato quasi per sottrazione; mai una nota ridondante, mai un passaggio superfluo, mai un’inutile sottolineatura ma un continuo gioco di rimandi, di ammiccamenti sonori, di scambi di ruolo in un flusso sonoro che ha letteralmente affascinato il pubblico. La sonorità lirica e a volte struggente di Rava, la sua freschezza inventiva, il suo fraseggiare così particolare si sono sposati magnificamente con il pianismo sicuramente più materico della Allen che ancora una volta ha evidenziato uno stile del tutto personale pur nella derivazione da quei modelli sopra accennati.

In repertorio brani originali come “Wild Dance” di Enrico Rava tratto dall’omonimo album inciso nel 2011 per la ECM, “Overboard” sempre di Rava registrato nel lontano 1994 con gli  ‘Electric Five’ e “Feed the  Fire” di Geri Allen  già contenuto in due album “Twenty One” del ‘94 e “Some Aspects of Water” del ’97, unitamente ad alcune perle del repertorio jazzistico e brasiliano come “Retrato en branco y preto” di Jobim – Chico Buarque de Hollanda, “Night in Tunisia”,  i monkiani “Round Midnight” e “Well you needn’t”, il sempre attuale “Jitterburg Waltz”  di Fats Waller tutti porti con pertinenza ed eleganza.

Essendo inserito in un contesto significativamente intitolato “Narrazioni Jazz” gli organizzatori hanno pensato bene di affiancare alla musica dei testi scelti davvero bene da Guido Michelone e recitati altrettanto bene da Anna Bonaiuto. Tutto bene, dunque? Non proprio. Intendiamoci: lo scrivente nulla ha contro l’accoppiata parole e musica tanto è vero che lo stesso fa parte del gruppo di Giampaolo Ascolese quando si organizzano spettacoli multimediali. Ma occorre sempre tener presente che la protagonista principale rimane la musica; insomma gli interventi parlati devono essere brevi, concisi sì da non spezzare il ritmo del concerto. Invece a Torino gli interventi della Bonaiuto sono stati troppo lunghi ed accorciarli di qualche minuto nulla avrebbe tolto alla valenza degli stessi, anzi…

Il jazz italiano a FIM – Fiera Internazionale della Musica

 

FIM – FIERA INTERNAZIONALE DELLA MUSICA
La Fiera della Musica e dei Musicisti
26/27/28 Maggio 2017
LarioFiere
Viale Resegone
Erba (CO)

Anche il grande jazz italiano alla Quinta Edizione di FIM – Fiera Internazionale della Musica. Dal 26 al 28 maggio a Erba (CO), cinque grandi musicisti, diversi per estrazione, esperienze, storia e approcci, interverranno per portare al pubblico di FIM la propria testimonianza, all’insegna della musicalità più libera, espressiva, ricercata. Non solo rock, dunque, alla Quinta Edizione di FIM, ma anche diverse modalità di intendere, vivere e divulgare il rapporto con il jazz. Si parte proprio il giorno dell’inaugurazione, venerdì 26 maggio, con Gaetano Fasano, che alle 14.30 in Casa FIM presenta La Padderia. Il musicista salernitano è un profondo conoscitore della storia del tamburo, vissuto sempre attraverso il gusto della ricerca e il superamento delle convenzioni: Fasano ha maturato una lunga carriera artistica in cui ha esplorato i generi più diversi, dal jazz al prog-rock, dal blues sino alla musica latina, Africana ed Araba. Eccellente strumentista, Fasano è anche un didatta assai richiesto dalle principali scuole italiane, grazie al suo sistema di studio La Padderia: un originale metodo fondato sul confronto diretto tra maestro e allievo, che praticano frontalmente con un sistema di hardware e pads da studio.

Dalla batteria al sassofono, tra forme standard e non convenzionali, con Tino Tracanna: sabato 27 maggio alle 17.45 in Casa FIM uno dei più ammirati e influenti sassofonisti nostrani racconta la sua esperienza musicale dai primissimi anni ’80 ad oggi. Figura seminale per il sax jazz italiano degli ultimi 40 anni, insignito del Top Jazz di Musica Jazz 2016 come secondo miglior musicista e terzo miglior gruppo, Tracanna racconterà la propria visione del sassofono attraverso i suoi lavori da bandleader, o in compagnia di giganti come Franco D’Andrea e Paolo Fresu. Alle 18.15, poco dopo Tracanna, sarà un altro amatissimo nome della musica italiana a raccontarsi in Casa FIM: Patrizio Fariselli! L’improvvisazione sarà il filo conduttore dell’incontro con l’ex tastierista degli Area: dagli anni ’70 ad oggi, dalla musica totale accanto a Demetrio Stratos all’esperienza discografica di avant-jazz degli ultimi anni, Fariselli si rivelerà al pubblico nel suo percorso – davvero sui generis – tra musica, scrittura e immagine. A Fariselli verrà consegnato il FIM Award 2017 “Creative Keoyboards”. (altro…)

I NOSTRI CD. Una sventagliata di nuovi album dal blues alla musica contemporanea

a proposito di jazz - i nostri cd

John Abercrombie Quartet – “Up and Coming” – ECM 2528

In questo album, che apre la stagione 2017 della ECM, ritroviamo il chitarrista John Abercrombie alla testa di un quartetto composto da “vecchi amici”, se ci passate il termine, vale a dire Marc Copland al piano , Drew Gress al contrabbasso e Joey Baron alla batteria. In un modo o nell’altro Abercrombie, anche nel recente passato, ha avuto modo di collaborare con i musicisti su citati : basti ricordare, al riguardo, l’album “39 Steps” del 2013 che tanti consensi ottenne da pubblico e critica. Ciò per sottolineare come il quartetto già prima di entrare in sala di registrazione per quest’ultimo album fosse ben rodato e pronto a seguire le linee direttrici tracciate dal leader. Linee che si sostanziano innanzitutto nella ricerca di una bella linea melodica supportata da raffinate armonizzazioni e quindi nello splendido suono della chitarra di Abercrombie che dialoga magnificamente con il sound più robusto del pianoforte; l’intesa tra i due è a tratti sorprendente: John e Marc sanno ascoltarsi, comprendersi e mai accade che una intuizione, un input lanciato da uno dei due non venga prontamente captato e sviluppato dall’altro. Così il fraseggio liquido, scorrevole di Abercrombie, a fronte del pianismo più articolato e dinamico di Copland, crea spesso una tensione che affascina l’ascoltatore attento. Ovviamente questo continuo gioco di rimandi non sarebbe stato possibile se i due non fossero stati accompagnati da una eccellente sezione ritmica in grado di fornire un supporto di grande flessibilità ed eleganza. Caratteristiche queste che si riscontrano per tutta la durata dell’album, sia che il gruppo interpreti le cinque composizioni di Abercrombie, sia che ad assumere il ruolo del compositore per due volte sia Marc Copland, sia, infine, che si faccia rivivere un capolavoro assoluto quale “Nardis” di Miles Davis.

Theo Bleckmann – “Elegy” – ECM 2512

In perfetta sintonia con il titolo, atmosfere sognanti, oniriche quella disegnate dal vocalist e compositore tedesco Theo Bleckmann al suo esordio da leader nell’ambito della prestigiosa etichetta ECM. Ad onor del vero Theo aveva già registrato per la casa tedesca ma come sideman: lo ritroviamo, infatti, accanto a Julia Hulsmann in “ A Clear Midnight—Weill and America” (ECM, 2015) e ancora con Meredith Monk ‎in “Mercy” (ECM, 2002) e “Impermanence” (ECM, 2008) album, questi ultimi due, in cui suona anche lo stesso batterista di “Elegy”, John Hollenbeck. Ma soffermiamoci adesso su quest’ultima produzione di Theo che ha scelto di guidare un quintetto completato da Ben Monder chitarra, Shai Maestro piano, Chris Tordini, contrabbasso e, come si accennava, John Hollenbeck batteria. Il gruppo appare perfettamente funzionale alle idee del leader vale a dire una musica semplice ma non banale, un organico che si esprime quasi per sottrazione, la precisa volontà di non prediligere il lato virtuosistico della performance ma di affidarsi all’espressività, ad una concezione che in qualche modo potremmo avvicinare al cosiddetto minimalismo. Ovviamente per raggiungere in pieno tali obiettivi occorreva un repertorio acconcio: di qui i dodici brani presenti nell’album, tutti a firma del leader eccezion fatta per “Comedy Tonight” tratto da “A Funny Thing Happened on the Way to the Forum” , musical andato in scena per la prima volta a Broadway nel 1962, con musiche e versi di Stephen Sondheim. I brani sono tutti interessanti anche se una menzione particolare la merita “The Mission” un vero e proprio esercizio di bravura per Theo Bleckmann che dimostra ancora una volta, se pur ce ne fosse bisogno, quanto sia meritata la stima di cui gode nell’ambiente musicale di tutto il mondo.

Dave Brubeck – At The Sunset Center – Solar 4569973

Questo album riporta, per la prima volta integralmente, il concerto tenuto dal quartetto di Dave Brubeck al ‘Sunset Center’ di Carmel (California) nel giugno del ’55. La ‘storica’ collaborazione tra il pianista Dave Brubeck e il sassofonista Paul Desmond era iniziata nel 1946 all’interno di un ottetto dal sapore vagamente sperimentale. Negli anni a venire, in particolare nel 1951, Brubeck e Desmond costituirono un quartetto completato da Fred Dutton al basso e Herb Barman alla batteria, questi ultimi poi sostituiti rispettivamente da Bob Bates e Joe Dodge. In quel periodo il quartetto, nonostante avesse tenuto diversi concerti soprattutto in università e college, realizzò solo un album “Jazz Goes To College” registrato nel corso di vari concerti in college nel 1954. Di qui l’interesse non solo artistico ma anche storico dell’album in oggetto. Dal punto di vista squisitamente musicale, non occorrono certo molte parole per sottolineare come si ascolti una delle formazioni più importanti della storia del jazz, una formazione che seppe dire qualcosa di originale. Certo lo stile può piacere o meno ma il ruolo ricoperto da Brubeck e Desmond resta lì, indiscutibile. L’album contiene otto standards registrati, come si accennava al ‘Sunset Center’ di Carmel cui è stata aggiunta una inedita versione di “Two Part Contention” dello stesso Brubeck registrata durante un concerto al ”Basin Street Club” di New York del 1956. Un’ultima notazione di carattere cronachistico: il “Sunset Center” era un teatro che ospitava dei cicli di concerti jazzistici ed è proprio lì che il 19 settembre dello stesso 1955 Erroll Garner registrò il suo indimenticabile “Concert by the Sea”.

François Couturier, Tarkovsky Quartet – “Nuit blanche” – ECM 2524

Parlare semplicemente di jazz a proposito di questo album appare improprio: siamo piuttosto nel campo della musica contemporanea eseguita da artisti che hanno frequentazioni importanti con il mondo del jazz. François Couturier piano, Anja Lechner violoncello, Jean Marc Larché sax soprano, Jean Louis Matinier accordéon sono infatti musicisti che abbiamo spesso incontrato in contesti più prettamente jazzistici. Da qualche tempo i quattro hanno costituito questa formazione dall’organico assai insolito che hanno chiamato “Tarkovsky Quartet” in omaggio ad Andrei Arsenyevich Tarkovsky, celebre regista russo scomparso nel 1986. Ancora una volta il quartetto si impone alla generale attenzione per la profondità di campo che riesce a dare alla sua musica. Ascoltando i diciassette brani dell’album – di cui sette sono libere improvvisazioni e gli altri scritti da Couturier da solo o con gli altri compagni di strada – non si può non restare colpiti dalla purezza del suono, dalla estrema linearità con cui si esprime ciascun artista, dall’atmosfera dialogante per cui violoncello e fisarmonica riescono ad esprimersi su un piano di assoluta parità e soprattutto dalla straordinaria capacità improvvisativa dei singoli che, anche nel caso dei brani scritti, trovano ampi spazi per dar libero sfogo alla fantasia. Di qui una musica aperta, nuova ad ogni ascolto, ricca di sottigliezze. E, per chiudere, consentitemi di sottolineare la straordinaria prestazione di Jean Louis Matinier il quale dimostra, se pur ce ne fosse bisogno, come la fisarmonica, se in mani sapienti, sia strumento adatto ad ogni situazione, anche la più sofisticata e quindi lontana da quel recinto popolare cui ancora oggi molti vorrebbero rinchiuderla.

Matt Dibble, Fabio Zambelli – “Songs and Soundscapes” – Xtreme

Album interessante questo proposto da Matt Dibble e da Fabio Zambelli; il clarinettista inglese e il chitarrista italiano hanno costituito da qualche tempo un duo che tralascia facili situazioni per addentrarsi in terreni scivolosi, imprevedibili come quelli rappresentati dalla ricerca e dalla sperimentazione. Intendiamoci: mai abbiamo sostenuto che ricerca e sperimentazioni nel campo musicale siano valori in sé, occorre che le stesse siano sostenute da profonda conoscenza della materia musicale, da eccellente tecnica di base e soprattutto – almeno a nostro avviso – da una onestà di fondo che si sostanzia nell’assoluto abbandono di qualsivoglia ansia di stupire, di meravigliare. Ebbene, ascoltando l’album in oggetto, sembra proprio che i due artisti abbiano le carte in regola per soddisfare anche i palati più esigenti: la loro è una musica tutta basata sull’interplay, sulla coralità, ben equilibrata tra parti scritte (songs) e improvvisazioni (soundscapes), sempre alla ricerca di soluzioni nuove, affascinanti, impreziosite da belle linee melodiche e da una robusta tecnica strumentale. Questi elementi non stupiscono ove si tenga presente che i due si sono conosciuti nel 2001 a Londra, durante i loro studi di jazz performance e composizione presso il conservatorio “Guildhall school of music and drama” e che successivamente hanno suonato, tra l’altro, nella GSMD jazz band misurandosi su repertori di jazz classico e contemporaneo, e con cui hanno vinto il premio BBC come migliore orchestra jazz Britannica. Nel corso della loro attività, prima di questo “Songs and Soundscapes”, hanno inciso nel 2009 in Francia come duo “Minor Mood”, poi pubblicato nel 2011 da Sonitus, e quindi “Spring” sempre in duo pubblicato nel 2015, album che hanno aperto la strada quest’ultima realizzazione.

Duke Ellington – “Blues in Orbit + The Cosmic Scene” – Essential Jazz Classics 2 CD

Duke Ellington – “Sacred Concerts” – “Rondeau”

Il perché di questi due titoli , “Blues in Orbit” e “The Cosmic Scene”, viene illustrato efficacemente nell’esaustivo libretto che accompagna i CD laddove si spiega che, dopo il lancio nello spazio dello Sputnik 1 di fabbricazione sovietica il 4 ottobre del 1957, l’idea di poter viaggiare nello spazio conquistò l’animo della gente. Neanche il jazz ne rimase immune come dimostrano questi due album di Ellington risalenti al 1958-59, ma non solo ché altri lavori dedicati allo spazio furono registrati da Dave Brubeck e da George Russell. Ciò detto occorre sottolineare come i due CD di Ellington contengano integralmente gli LP originari con l’aggiunta di ben diciotto bonus tracks di cui otto alternative takes tratte dalle stesse sedute di registrazione e dodici da altre date. Nel primo album compare la band ellingtoniana al completo mentre nel secondo si può ascoltare un nonetto di livello assoluto con la presenza dei più rappresentativi solisti dell’orchestra. Ellington prese la decisione di ridurre l’orchestra ad un nonetto dopo lo strepitoso successo ottenuto al Newport Jazz Festival del 1956, sempre alla ricerca di nuove vie espressive. Straordinario il repertorio dei due album comprendente sia celebri standard rivisitati e riattualizzati sia nuove composizioni mai registrate in precedenza. Dal punto di vista squisitamente musicale, ambedue gli album sono semplicemente straordinari: l’orchestra ellingtoniana è colta in uno dei suoi momenti migliori, impreziosita dagli assolo di Paul Gonsalves, di Clark Terry, di Jimmy Hamilton, di Johnny Hodges … e via discorrendo in una galleria delle meraviglie che comprende alcuni dei migliori solisti che la storia del jazz possa vantare.
Il secondo CD contiene una recente (2015) registrazione live di brani tratti dai concerti sacri di Ellington, effettuata in Germania dalla Big Band Fette Hope e dal Junges Vokalensemble Hannover sotto la direzione rispettivamente di Timo Warnecke o Jorn Marcussen-Wulff Klaus e di Jürgen Etzold . E’ noto agli appassionati di jazz come i concerti sacri rappresentino , almeno nella considerazione dello stesso Ellington, le pagine più importanti da lui scritte nel corso degli anni. Composti tra il 1962 e il 1973 i tre Concerti rappresentano al meglio l’anima del compositore e la sua stessa concezione della spiritualità. Ben si capisce, quindi, il perché questa musica non venga spesso eseguita risultando assai difficile ricreare le emozioni che Ellington trasmetteva con la sua orchestra. Ben venga, quindi, questa impresa che ci restituisce pagine di musica che non conoscono età. E bisogna dire che sia la band sia i vocalist se la cavano assai bene: da un punto di vista orchestrale, la band riesce a rappresentare quella concezione orchestrale che caratterizzava l’opera di Ellington mentre i cantanti sono tutti all’altezza del compito: Claudia Burghard (mezzo soprano), Joachim Rust (baritono), magistralmente supportati dal già citato Junges Vokalensemble Hannover, danno energia a brani celeberrimi come “Ain’t But The One”,“Come Sunday” , “Something’Bout Believing” riportandoli all’attualità del nuovo secolo.

Ellery Eskelin Trio – “Willisau Live” – hatOLOGY 741

Oramai vicino ai sessanta, il tenorsassofonista statunitense Ellery Eskelin è stato definito da “Down Beat” il miglior artista nel campo della musica creativa di oggi. E per avere conferma di quanto tale considerazione sia meritata basta l’ascolto di questo album registrato dal vivo durante il Festival Jazz di Willisau, in Svizzera, il 28 agosto 2015. Ellery suona in trio con Gary Versace all’organo Hammond B3 e Gerry Hemingway alla batteria. L’organico è inusuale ma non per il sassofonista che sta esplorando questa particolare formula già dal 1994 quando costituì un trio con il tastierista Andrea Parkins e il batterista Jim Black, formula ulteriormente perfezionata nel 2011 con la creazione del Trio New York, dove accanto a Eskelin e Versace c’era Gerald Cleaver alla batteria, in questi ultimi tempi sostituito per l’appunto da Gerry Hemingway. Ed eccoci alla serata del 28 agosto 2015 a Willisau: il trio inizia la sua performance con una medley lunga oltre cinquanta minuti in cui figurano, in successione, un originale – “Our (or about)” –firmato da tutti e tre i musicisti, e tre standard , “My Melancoly Baby”, “Blue and Sentimental” di basiana memoria ed “East of the Sun”. Il set si chiude con altre due perle, la monkiana “Wee See” e “I Don’t Stand A Ghost of A Chance With You”. Ebbene dal primo all’ultimo istante la musica del trio appare innervata da una grande energia e dalla perfetta consapevolezza, da parte di tutti e tre i musicisti, di stare esplorando nuove strade pur restando fortemente ancorati alla tradizione. Di qui il fraseggio e la sonorità del leader che dimostra di aver ascoltato e assimilato la lezione dei grandi del passato quali, tanto per fare qualche nome, Sonny Rollins e Ben Webster; di qui il fantasioso apporto ritmico, davvero originale e timbricamente unico, della batteria di Hemingway che deve aver molto apprezzato le sezioni ritmiche delle orchestre di Count Basie; di qui il particolare approccio alla materia sonora da parte di Versace che stravolge un po’ il modo di suonare di Jimmy Smith, da un tutto pieno ad un gioco di pause e di sottigliezze timbriche non proprio usuali nel mondo degli organisti.

Cameron Graves – “Planetary Prince” – Mack Avenue 1123

Cameron Graves al pianoforte , Kamasi Washington al sax tenore: dovrebbero bastare solo questi due nomi per far capire che tipo di musica si ascolta in questo cd. Ma il gruppo è più largo e comprende altri eccellenti musicisti del moderno jazz di Los Angeles quali il trombettista Philip Dizack, il trombonista Ryan Porter, ed una formidabile sezione ritmica costituita dal batterista Ronald Bruner Jr., dal bassista elettrico Hadrien Feraud considerato oggi un numero uno e dal contrabbassista Stephen “Thundercat” Bruner. La presenza di Kamasi Washington in questo album di debutto come leader di Cameron Graves non deve meravigliare ove si tenga presente che il pianista era partner del sassofonista in quell’album “Epic” che tanto successo ottenne alla sua uscita nel 2015. Insomma questo “Planetary Prince” rappresentava , per Cameron, una occasione assai importante per consacrarsi definitivamente come uno dei migliori, più fantasiosi e visionari pianisti, tastieristi e compositori delle ultime generazioni. E le premesse c’erano tutte anche perché i pezzi dell’album sono da lui stesso scritti e arrangiati. Peccato che anche ad un primo sommario ascolto l’album risulti tutt’altro che imperdibile. Certo Graves suona bene, Washington non deve dimostrare alcunché, ma è tutto l’impianto del disco che non regge, proponendo una musica scontata e poco originale. E qui ci fermiamo in quanto è ben possibile che Graves ritorni sui suoi passi e ci proponga qualcosa all’altezza delle sue enormi possibilità. (altro…)

I grandi del Jazz nelle foto di Jean-Pierre Leloir

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Bel progetto che sicuramente interesserà tutti gli appassionati di jazz, in particolare quanti amano le foto: stiamo parlando del catalogo di fotografie inedite dei grandi del jazz ad opera di Jean-Pierre Leloir .
Appassionato di musica sin dall’adolescenza Leloir (1931-2010) inizia a scattare fotografie per pubblicazioni come Jazz Magazine, L’Express e Le Nouvel Observateur, appena ventenne. Nell’arco della sua carriera, ha immortalato molti dei musicisti jazz che hanno visitato Parigi o hanno fatto della capitale francese la loro casa fra il 1950 e gli anni ’60, tra cui Louis Armstrong, Chet Baker, Sydney Bechet, Art Blakey, Donald Byrd, John Coltrane, Miles Davis, Duke Ellington, Ella Fitzgerald, Billie Holiday, Charles Mingus e Lester Young. Le molteplici fotografie utilizzate in questa splendida raccolta sono state accuratamente selezionate dall’immenso catalogo di Leloir. Molte delle immagini non erano mai state pubblicate prima in nessun formato. (altro…)