I NOSTRI CD. Quando e quanto conta il canto?

Alberto Parmegiani – “Soul Hunters” – A. Ma. Records
Nel jazz quando, e quanto, conta il canto?!.
Parecchio, a giudicare dall’album “Soul Hunters” (A. Ma) griffato da Alberto Parmegiani. Il chitarrista dà corpo ad un l.p., già presente nei vari digital store, realizzato nel quadro delle iniziative di Puglia Sounds, in cui si propone originale ideatore di musica d’insieme. Che è quella che uno immagina di ascoltare diffusa durante una visita al MOMA di New York o all’ingresso del RedHead di Chicago od in after hours a Montreux e magari capita di sentir provenire da un vicolo di Bari “Vecchia”. Il richiamo viene dall’incalzare delle voci, quelle femminili di Daniela Montinaro e Paola Arcieri e l’altra da rapper di Brian Ferreir, che fanno da scansione melodica “al passo” della pulsazione che ritma le otto tracce del vinile. 
Ed ecco emergere allora, nella “battuta di caccia”, il ruolo strategico della squadra, il batterista Fabio Accardi, il bassista Gianluca Aceto col contrabbassista Gianpaolo Laurentaci, il ‘saxflautista’ Francesco Lomangino, il trombonista Antonio Fallacara, il trombettista Giuseppe Todisco, i tastieristi Pasquale Strizzi e Francesco Schepisi. L’editor Antonio Martino ed il sound engineer Tullio Ciriello, che con Parmegiani sono i “facitori” della produzione, ne siano ben lieti. Il disco piace, intriga, si ascolta, si riascolta, i solchi del long playing tendono a consumarsi. L’augurio è pensarne una seconda puntata e, perché no, immaginarne una trilogia, come “Soul Hunter”, il libro di Artemide Rose. 
Con cinque mondi da visitare e concentrare in musica: jazz, rap, funk, hip hop e naturalmente soul.


Paola Furlano – “When You Are Far” – Holly Music
La popular music americana si è ‘disamericanizzata’ dal momento in cui è divenuta patrimonio culturale dell’umanità? Non si spiegherebbe altrimenti il senso di familiarità che si avverte ascoltando uno standard come “Candy”, di Alex Kramer, giuntoci, quanto a fascino, intatto e intonso dagli anni quaranta del secolo scorso. Quando poi a riproporli sono vocalist come Paola Furlano nell’album “When You Are Far” allora la riconnessione con quel background si compie in pieno. Il risentire da una voce “dedicata” un “That’s All” di Nat King Cole, dopo averne immagazzinato la melodia magari da Frank Sinatra, sta a dimostrare, si ribadisce, come certi standards si siano “globalizzati” per piazzarsi stabilmente nell’immaginario musicale della gente. Così un certo tipo di jazz, quello più classico, come l’opera nell’ottocento, ha trovato il suo posto nel flusso di suoni che accompagna il vivere quotidiano. Fa il resto la bravura degli interpreti, è il caso della Furlano, nel riprodurne la magia anche in brani noti come “What’s a Difference” della Grever e anche nell’innestare in quel songbook nuove proposte come “When You Are Far” di Francesco “Frank” Sorrenti, in veste di autore oltre che presidente della label Holly Music.
Originalità e rispetto della tradizione non è equilibrio facile da raggiungere ma tale non è per un’ ugola esperta come quella della Furlano, abituata a transitare per le ottave alla ricerca delle tonalità più indicate a tinteggiare di chiaro e scuro le linee del proprio melodizzare.
Si avverte a monte dell’album il sapiente arrangiamento e la accorta orchestrazione di Gianni Ephrikian presso il Virtual Studio di Andrea De Marchi a Treviso. Lavoro che, a partire da “Home (when shadows falls)” seguito da “You’re Blase” fino a “Don’t Explain” resa famosa dalla Holiday, attraversa sette “episodi” – così li definisce Luciano Federighi nelle liner notes – densi di ricercatezze armoniche in ambienti musicali delineati da una mente musicale conosciuta e riconosciuta anche dall’altra parte dell’Atlantico.

Valentina Nicolotti – “Calicantus” – Emme Records
Da lirica, nel senso di testo poetico, e arte musicale, possono scaturire album come “Calicantus” della vocalist nonchè songwriter Valentina Nicolotti, inciso da Emme Records. Un giardino coltivato di fragranze melodiche, quello della nostra “Alice in Wonderland” che è fra l’altro l’unico standard ripreso nel disco. Come il “Calicantus”, a cui è dedicato il brano che intitola il cd, che fiorisce sia d’inverno che d’estate, gli altri sette pezzi in scaletta sfoderano variegati clima(x). Si alternano infatti i tepori armonici di “Lying Close to you” con le ampie aperture di orizzonti primaverili in “Briciole”, si danno il cambio i freddi respiri e sospiri di “Again” con la nenia notturna, grigio autunnale, di “Dolce Scivola”. La band al seguito, costituita da Nicola Meloni alle tastiere e piano, Gianmaria Ferrario a basso elettrico e contrabbasso e Francesco Brancato alla batteria, è subito in sinergica evidenza per spirito di gruppo nell’iniziale “Fairytole’s Loves” e la buona impressione si rafforza nei brani a seguire. Si aggiungono più avanti dei graditi ospiti in singoli interventi e cioè i chitarristi Max Carletti e Giangiacomo Parigini quindi Cesare Mecca al flicorno in “L’ultimo Mare”, ballad che connota al meglio la Nicolotti, il suo fare musica stretto in maglie poetiche scosse dal moto ondoso sapendo che “l’estate resterà / nera sulla pelle al sol / nostalgico settembre / arriverà già”.

Martine Thomas & Black Coffee – “Once Upon a Time” – Caligola
Si potrebbero chiamare, per neologismo, “chansongs” le chansons e songs che Martine Thomas canta firmando, unitamente ai Black Coffee, l’album “Once Upon a Time” (Caligola). Sono in tutto dodici brani con una track list di un’ora circa frazionabile in tre tronconi: una mezza dozzina di standard, un paio di pezzi originali e alcune rivisitazioni di classici della canzone francese quali “Et maintenant”, “Ne me quitte pas”, “L’hymne à l’amour” e “La Bohéme” legati alle icone Becaud, Brel, Piaf, Aznavour. Partiamo da qui, da questo blocco transalpino che desta maggiore curiosità. Intendiamoci. La Thomas è musicista di razza, eccelle nel vocalizzare “spesso” (aggettivo, non avverbio), sa caratterizzare partiture di Hancock e Wonder, rendere agreables pezzi come “My Favourite Things” e “Feel Like Makin’ Love” ma è quando mette in campo qualità di (re)interprete dello spirito french che brilla di luce calda. Black Coffee, fondato in Croazia nel 1993, ne è un azzeccato Alter Ego. Le si confanno, anche a livello di arrangiamenti, gli apporti del pianista Ivan Ivić e del bassista Renato Svorinić laddove il batterista Jadan Dućic non è da meno nel ruolo di competenza. Ci sono infine due ospiti italiani a completare la formazione. E sono Massimo Donà, con la sua tromba davisiana in “Butterfly”, “Love is Stronger than Pride” ed in quella “Et maintenant” in cui il bandoneon di Daniele Di Bonaventura aggiunge una speciale pennellata d’Artista.
Insomma un “pacchetto” armonico ben amalgamato da una sorta di Super Io (del trio plus) che indirizza Io canoro ed Es improvvisativo dei singoli verso l’equilibrio del Tutto.


Elsa Martin, Stefano Battaglia – “Al centro delle cose” – Artesuono

Ut musica poësis. Come la musica così la poesia. Il rapporto fra le due arti, che era di unità per gli aedi greci, si è scomposto varie volte nel tempo, per tornare a simbiosi quando le sensibilità di poeti e musicisti si sono di nuovo ritrovate. In “Al centro delle cose”, album Artesuono della cantante Elsa Martin e del pianista Stefano Battaglia, si intesse l’ennesima, ed originale, relazione fra nota e fonema, fra verso e frase musicale, ammantando di suono e canto i versi del poeta friulano Pierluigi Cappello a cui il compact rende omaggio. La fonte letteraria da cui sono tratti è la silloge “Poesie 2010-2016” edita da Rizzoli e per l’esattezza “Al centro delle cose” è un verso da “Stato di quiete”, ultima raccolta poetica a sua firma.
Il disco contiene dieci tracce in tutto per rappresentare, tramite la “riscrittura” su pentagramma di Battaglia e la vocalità vaporosa, talora frammista ad effetti elettronici, della Martin, il mondo narrativo di un esponente di spicco della poesia italiana contemporanea, scomparso nel 2017 a 50 anni. Un Autore che rivendicava con forza la difesa della propria poesia, creatura nata a prescindere dall’incidente che, appena sedicenne, ne aveva sconvolto la vita costringendolo su una sedia a rotelle. Cappello difendeva se stesso e la propria liricità pura e incontaminata, nella consapevolezza che il suo dolore esistenziale aveva superato quello fisico. Delle sue raccolte Battaglia sottolinea che “assomigliano all’opera di un vasaio, al lavoro di un instancabile cesellatore dallo sguardo largo e lucido, sempre calato nella sua realtà e nel suo contesto”.
Artesuono ha postato su You Tube il video ufficiale della produzione, viatico ad un ascolto che conferisce forma visiva oltre che auditiva ad una poesia fortemente simbolica, fantasiosa e trasfigurante; una poesia che, grazie alla delicatezza della tastiera ed alla eterea ‘melodicità’ della voce posata su immagini nitide di luoghi “vivi e misteriosi”, si riscopre più fisica, concreta, materica. Al centro delle cose.

Jazz e goliardia, fra storia e ironia

Alcuni anni orsono, in un incontro con gli studenti dell’Università di Siena incentrato su quella goliardia che egli stesso ha professato nella propria carriera di musicista, Renzo Arbore affermava, fra il serio e il faceto, che lo spirito goliardico non era morto negli anni sessanta semmai il ’68 era “stato il punto più alto della goliardia nel manifestare la sua vocazione politica e trasgressiva”.
Ed eccolo ancora nell’estate dello scorso anno sul palco della Versiliana alla Congrega dei Goliardi, come se il tempo fosse passato invano e il movimento studentesco fosse relegato nel modernariato della storia contemporanea.
Nostalgici “amici miei” che si riuniscono al motto di “gaudeamus igitur”? Di certo se la goliardia non ė finita allora si può certificare l’esistenza in vita di suoi elementi quali popolaresco e taverna, umorismo e dissacrazione, nonsenso ed erotismo, allusione e parodia.
Per non dire poi della satira politica insita in alcuni canti dei goliardici “clerici vagantes”, con motivi antigerarchici e anticuriali e di disobbedienza civile sui quali forse non si è abbastanza riflettuto a causa dell’anatema verso la goliardia più “cameratesca”.
Dal canto suo, l’Arbore jazzista ha tentato di trasferirne la leggerezza in diverse riproposizioni di sincopati, classici e swing d’epoca, in maniera peraltro più soft rispetto a quella pop degli Squallor del compianto Alfredo Cerruti e di altri gruppi. Roberto Brivio, membro de I Gufi, nel prefare “I canti goliardici” curati da Alfredo Castelli come supplemento al n. 53 di “La Mezzora”, citava sia Jannacci sia Cochi e Renato come musicisti che si rifacevano talora al repertorio goliardico.

Per trovare più precisi punti di contatto fra jazz e goliardia occorre guardare al modello musicale per eccellenza, a livello di poesia/musica goliardica, ovvero i “Carmina Burana” di Carl Orff. Il musicista tedesco adattò vari canti, raccolti a metà 800, in un’omonima opera lirica in tre episodi nel 1935/36, rappresentata l’anno dopo a Francoforte e alla Scala di Milano nel 1952,  dopo che nel 1949 Luisa Vertova ne aveva pubblicato una prima traduzione italiana.

Una musica di “grande chiarezza tonale e incisività ritmica, ottenuta col mezzo tecnico dell’ostinato” come nel canto “O Fortuna” (Fortuna Imperatrix Mundi), affiancato a quello di influenti riff tipo “Stratus” di Billy Cobham pubblicato nel disco Spectrum del 1973: “nel XX secolo l’ostinazione, quasi l’ossessione industrial-meccanica della reiterazione” si è diffusa anche in musica (www.carlopasceri.it).
Un successo, quello di “O Fortuna”, al pari di riff rock famosi alla “Satisfaction” degli Stones, capace di penetrare vari canali di ricezione auditiva, guadagnare ascolto in ampi strati di pubblico e “contaminarsi” con altri generi.
Non saranno un caso allora progetti del genere “Carmina Burana. La classica incontra… il jazz”, come l’anno scorso a Pforzheim dove coro e cantanti sono stati accompagnati da un gruppo di cinque percussionisti e dal sassofonista jazz Matthias Anton. Ancora in Germania, al Thalia Kino di Berlino, è stata fatta un’altra operazione interessante con la sonorizzazione live, a cura del trio jazz Neuzeit, del film di Jean-Pierre Ponnelle “Carmina Burana ” del 1975 (www.urbanite.net e su YouTube cfr. Carmina Variations, sub voce).
L’incisività ritmica compressa in alcuni canti è stata estratta da Tullio De Piscopo che con la batteria ha creato un particolare tappeto percussivo ai “Carmina Burana”, come documentato nelle esecuzioni di “Buran / Fortune Empress of the World” nei due distinti album “Bona Jurnata” (Capriccio, 2007), “Questa è la storia” (Edel, 2010, 2 cd) e su YouTube.
Ed è reperibile su dvd “Carmina Burana. Live” del 2004 con il batterista e percussionista ravennate Armando Bertozzi che una decina d’anni fa ha allestito la medesima cantata scenica orffiana in chiave jazz in un “inedito connubio”, con coreografie di Luc Bouy e pittori sul palco, uno spettacolo “che incrementa il già alto calore emotivo dell’opera” (Zètema).
Ancora. Ha ripreso antichi “Carmina Burana” il sassofonista Daniele Sepe nel progetto “Kronomakia – la battaglia del tempo”, del 2017, fusione fra jazz, musica medievale, araba, funk, folk del nord Europa con formazione allargata a Rote Jazz Fraction e Ensemble Micrologus.
I “Carmina Burana” danno un’idea di medioevo pagana, ben differente da quella spirituale e solenne che ha ispirato Jan Garbarek e l’Hilliard Ensemble in parti di “Officium”(ECM), album da oltre un milione di copie! E sacrale era Hildegard of Bingen, artista a cui si sono rifatti il pianista Stefano Battaglia e il clarinettista Mirco Mariottini in un brano del cd “Music for Clarinets and Piano”, edito da Caligola nel 2019.
Ma torniamo al punto del sarcasmo nel mondo del jazz.
Storicamente jazz e goliardia hanno avuto diverse occasioni di incontro; a Bologna esisteva un Circolo Goliardico del Jazz e la Dr. Dixie Jazz Band di Nardo Giardina veniva fondata nel 1952 come Superior Magistratus Ragtime Band, adottando una tipica nomenclatura goliardica. Il jazz allora era visto come una forma di bonaria eresia rispetto alla musica dominante (cfr. cittadellamusica.comune.bologna.it).

Non si deve però pensare al jazzista come a un goliarda puro – per contro esistono esempi di attenzione goliardica verso il jazz come lo “Spiritual” (Dio del cielo etc.) il cui testo è riportato nel volume di Umberto Volpini “La goliardia” edito da Simone nel 1994 – pur se comunque sopravvivono nell’ambiente jazz pezzi di spirito goliardico come sparsi da un folletto che appare e scompare per fomentare situazioni che assemblano follia e nichilismo, jazz irridens e jazz ridens.

Un certo gusto beffardo si insinua in una fetta della musica improvvisata europea; musicisti come Sergey Kuryokhin e gruppi come il Kollektief di Willem Breuker, olandese come Han Bennink, per certi versi riesumando l’allegria del New Orleans e del Dixieland, hanno sovvertito l’idea canonica di concerto jazz, rendendo protagonista il paradosso, l’absurde, non sappiamo quanto definibile goliardico. A proposito di ridens, ci sarebbe di che discettare sulle ingiuste critiche alla ammiccante cordialità che rese popolare Louis Armstrong, ambasciatore del jazz nel mondo. Satchmo è l’emblema di un artista che fece il proprio mestiere in modo aperto e frontale ed a lui viene oggi riconosciuto un ruolo di rilievo nell’affermazione dell’identità neroamericana.

Tornando agli italiani che hanno ostentato in qualche modo un animus “post-goliardico”, oltre al vintage Arbore, si potrebbe pensare a Bollani, per la spigliatezza inventiva, od alla musica frizzante di Mauro Ottolini, od anche a Carlo Actis Dato ed a quegli altri musicisti “creativi” che sanno fare musica estrosa e spettacolare.
Ma, per quanto ci si sforzi nel trovare agganci e addentellati, la verve discola dei “cantores Goliae” pare in via di esaurimento, fors’anche per colpa dei tempi che non incoraggiano il buonumore. Sulla sua scia si sono ritagliati uno spazio performer di varie nazionalità, inquieti come quei giramondo di “les vagants” che scorrazzavano fra università e abbazie francesi, tedesche, inglesi, italiane diffondendo musica profana nel vecchio continente. Diceva un abate dell’epoca che “percorrono il mondo intero”, come i jazzisti in tour, aggiungiamo oggi. Ma era prima che venisse scoperta l’America!

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Amedeo Furfaro

I nostri CD. I colori del piano jazz

Giovanni Ghizzani – “Lost in the Supermarket” – Dodicilune
“Lost in the Supermarket” è l’album che il giovane pianista e compositore toscano Giovanni Ghizzani ha inciso per la label Dodicilune. Il lavoro prende spunto dal senso di vertigine da smarrimento che si può avvertire in un centro commerciale davanti ai tanti colori della merce esposta. Colori e musica. Val la pena ricordare che la sequenza classica di sette colori era stata associata da Newton alle sette note musicali. Il jazz, se vogliamo, è una sorta di arcobaleno di sottogeneri con vaste venature di suoni. In questo caso, anziché perdersi, Ghizzani esce dal dedalo di corridoi ancor più ispirato nel portare avanti il progetto di un quartetto “over the rainbow” che propone proprie composizioni su testi in inglese scritti dalla cantante Anaïs Del Sordo, supportato da una ritmica che vede schierati il trentino Kim Baiunco al contrabbasso e il siciliano Giuseppe Sardina alla batteria. I musicisti, il cui retroterra curricolare si situa fra blues, funk, rock e free, hanno al proprio attivo ottimi piazzamenti in concorsi fra cui il recente premio della giuria popolare al Conad Jazz Contest. Al versatile team si affianca, nello swing d’apertura (“Claps of Thunder”) il clarinettista Daniele D’Alessandro, presente anche in “Daydream”, omonimo del famoso hit dei Lovin Spoonful; più avanti è la volta del chitarrista Alain Pattitoni in “Living for Tomorrow” e “New Horizons”. Il palinsesto prevede in tutto dodici brani, tre dei quali – “Flows”, “Escape the Wreck”, “30 Ways (to confuse your mind)” – divisi in due parti, in cui risulta centrale, a fini di fluidità dei temi, pur su basi armoniche complesse, lo strumento della voce. In questo, la frontwoman calabrese riesce capacemente “colorando i pezzi di una tinta sonora inconfondibile” per come rileva lo stesso Ghizzani nella nota interna alla cover. È un ‘melodiare’ flessuoso, il suo, in ballad romantiche tipo “Hope” e “Renewal”, che sa spiccare voli felini nei momenti giusti dei pezzi più “metropolitani”. Senza più smarrirsi, il 4et, fra i colori dei prodotti sugli scaffali di un ipermercato della loro Bologna.

Mirco Mariottini, Stefano Battaglia – “Music for Clarinets and Piano” – Caligola
Ernst Ferand, nel volume “L’improvvisazione in nove secoli di musica occidentale”, annota che “non è possibile trovare un solo settore della musica che non sia stato influenzato dall’improvvisazione e neppure una sola tecnica o forma musicale che non abbia avuto origine dalla pratica improvvisativa”. Se si parte da questo assunto l’album di Mirco Mariottini e Stefano Battaglia “Music for Clarinets and Piano” (Caligola) appare una sorta di guida musicale all’agire intenzionale tramite processi improvvisativi in tutte le musiche. Guardando già agli albori della storia della musica, non a caso la prima traccia è dedicata a Ildegarda di Bingen, prima donna a comporre. E senza che manchi il jazz, improvvisativo per definizione, il cui influsso si condensa nelle Impro II e III intitolate, nell’album, a “Jimmy Giuffre” e “Paul Bley”. Poi il percorso abbandona la strada più breve e diviene panoramico. Già nella track su “Igor Stravinsky” emerge il gioco pianistico di cromatismi, policromie, discromie mentre il clarinetto delinea in modo astratto il profilo di un grande contemporaneo in “Bruno Maderna”. La piramide musicale che i due musicisti scalano presenta ulteriori ed impreviste sfaccettature, estranee all’avanguardia novecentesca. Si ritrovano melodie da chanson in “Charles Aznavour”, echi arcaici nel bordone del clarinetto basso nel “ritratto” di “Rosa Balistreri”, ipnotici crepuscoli mediterranei nell’ossessività del flamenco in “Camarón de la Isla”. Scorrono le note come se tastiera ed ancia creassero immagini per una galleria, un’expo di suoni inattesi sparsi nel tempo e nello spazio, che circumnavigano il mondo dall’Ucraina di “Valentin Silvestrov” alla Polonia di “Krzysztok Komeda”, dalla Russia di “Sainkho Namtchylak” fino ancora agli Stati Uniti di “Elliot Carter”. 12 improvvisazioni in totale dove il tema dato è una spiccata personalità musicale su cui l’interpretazione del duo sviluppa possibili esiti alle distinte estetiche e poetiche delle figure di cui sopra. Modelli identitari che si evolvono, come tutta la musica, “con il placido moto che è proprio di un fiume, con l’ininterrotta evoluzione che è propria di un albero di sequoia” (Menuhin).

Giulio Scaramella – “Opaco” – Artesuono
I colori del jazz nella vulgata più diffusa sono il bianco e il nero, come i tasti del pianoforte. Ma ciò è alquanto riduttivo! Ci sono tanti esempi che sconfessano tale stereotipo. L’album del pianista-compositore Giulio Scaramella, “Opaco”, della Artesuono, sta a dimostrare come le tinte di questo gene(re) di espressione musicale possano configurarsi persino in un dimensione coloristica non netta, né trasparente, talora nebulosa, volutamente priva di lucentezza. Che però è capace di trasmettere all’esterno il proprio suono interiore stimolando in chi ascolta i due effetti di cui parla Kandinskij, fisico e psichico, insomma soma e psiche. Il suo trio senza batteria con Federico Missio ai sax e Mattia Magatelli al contrabbasso ne ovatta il guscio ammorbidendolo già dal primo brano che battezza il disco e nella successiva “Musica Ricercata VII” di Ligeti, di minimale raffinatezza. Sarà perché stimolati dal discorso relativo alla “tavolozza” tonale ma il terzo brano in scaletta, “Know Your Knots”, evoca l’idea di un blu opacizzato che implica lento movimento laddove “Over the bar” pare virare, fra il giallo e l’arancione, in sospensione fra energia e instabilità, ambedue ad alta vibrazione metrica. “Time flies (and so do changes)” è uno swing in cui prosegue l’esplorazione “politonale” con “lotte di toni” del trio mentre, dopo “Frammento” e l’omaggio a Coltrane in “Naima”, ecco un “The Wall”, composto stavolta da Magatelli, reso palpitante dalle curate atmosfere impressionistiche replicate in chiusura in “Petite Fleur” di Sidney Bechet. È, quella di Scaramella, una rilettura di orizzonti allargati a più segmenti autoriali – Bach, Bartók, Bill Evans, Ethan Iverson e Mark Turner – beninteso smaltati di opaco.

Stefano Colpi Atrio al TrentinoInJazz 2019

Sabato 29 giugno
ore 21,30
Cortile Museo del pianoforte antico
Via Santa Caterina, 1
Ala (TN)

STEFANO COLPI ATRIO

Ingresso 10 Euro

Un altro concerto importante per l’edizione 2019 del TrentinoInJazz: nel programma del Lagarina Jazz, ad Ala (TN), sabato 29 giugno torna Stefano Colpi con il suo Atrio, insieme a Roberto Cipelli (pianoforte) e Mauro Beggio (Batteria).

Il progetto Atrio scaturisce dall’attività compositiva di Stefano Colpi, stimolata in un primo momento dal contatto con il pianista Stefano Battaglia e con il batterista Carlo Alberto Canevali, e documentata dal cd Where Do We Go From Here? (2003). Da più di dieci anni il nome è lo stesso (quando l’organico si amplia, diventa Open Atrio) ma i componenti cambiano, seguendo le avventure compositive del contrabbassista trentino. Sotto questa formula si sono dunque alternati vari musicisti: dagli apprezzati pianisti Stefano Battaglia e Roberto Cipelli, al clarinettista Mauro Negri, ai batteristi Carlo Canevali e Stefano Bertoli. Sono stati coinvolti vari solisti di rango della scena regionale trentina, come Walter Civettini, Michele Giro, Michael Lösch, Giuliano Cramerotti, Enrico Tommasini.

Nel 2009, la versione di Open Atrio con Mauro Negri, Roberto Cipelli e Stefano Bertoli fu presentata ad Ala, nel cartellone di Lagarina Jazz. Torna ora nella città di velluto, con la formula originaria del trio con pianoforte, coinvolgendo due figure di spicco del panorama jazzistico nazionale e internazionale, quali Roberto Cipelli e Mauro Beggio. Il primo, pianista di grande sensibilità, vanta collaborazioni con molti tra i più rappresentativi musicisti italiani e stranieri, tra cui Dave Liebman, Sheila Jordan, Tom Harrell, Paolo Fresu, Gianluigi Trovesi. Il secondo, autentico virtuoso del proprio strumento, ha iniziato giovanissimo nel quartetto di Enrico Rava e in seguito ha collaborato tra l’altro con Johnny Griffin, Toots Thielemans, Paul Bley, Kenny Wheeler.

I NOSTRI CD. Curiosando tra le etichette (parte 3)

Proseguiamo il nostro viaggio attraverso alcune tra le più importanti etichette di jazz. Oggi parliamo di Caligola, Cam Jazz, Dodicilune e ECM di cui vi presenteremo alcune significative produzioni.

CALIGOLA

L’associazione culturale Caligola dal 1980 promuove musica al di fuori dei circuiti istituzionali, organizzando concerti all’interno di spazi presi in affitto. Dal folk al blues, dal rock alla musica d’autore fino al jazz, l’associazione Caligola è riuscita a portare nel territorio veneziano alcuni tra i più noti maestri della musica moderna. Nel 1994 nasce Caligola Records, etichetta indipendente, che sotto la sapiente regia di Claudio Donà è riuscita ad imporsi come una delle più importanti realtà italiane nel valorizzare il jazz italiano in particolare dell’area veneta. Di Caligola records vi proponiamo tre recenti produzioni.

Maurizio Brunod è uno tra i più fedeli artisti della Caligola Records. Chitarrista di grande spessore pubblicò il primo album con Caligola nel 2009, “Northern Lights”, per chitarra solo. Adesso si ripropone con “African Scream” ancora per chitarra solo. Anche se la chitarra è tornata prepotentemente in auge nel mondo del jazz grazie ad alcuni personaggi di assoluto livello, ciò non significa che tutte le ciambelle riescano col buco, soprattutto se si decide di affrontare un repertorio variegato ed impegnativo da solo con il proprio strumento seppur confortato dall’ausilio dell’elettronica. Ma Brunod è artista che non teme le sfide ed eccolo dunque dedicare il brano d’apertura al collega e amico Garrison Fewell prematuramente scomparso, “Ayleristic”, già proposto nell’album in duo con lo stesso Garrison, “Unbroken Circuit” del 2015. Nel ricordo dell’amico, Brunod non ha pudore dei propri sentimenti e ci regala una interpretazione intensa, suggestiva, emozionalmente coinvolgente. Subito dopo eccolo alle prese con uno standard, “I Remember Clifford” di Benny Golson affrontato con lucida consapevolezza senza alcuna smania di voler travolgere alcunché ma con il sincero proposito di rendere omaggio ad un grande pezzo e ad un grande compositore.
Di qui sino alla fine sei originali a sua firma intervallati da un brano di Aldo Mella. E nella duplice veste di compositore-esecutore Maurizio ha modo di mettere in mostra tutte le sue valenze. Al riguardo particolarmente convincente la title track caratterizzata da un andamento quasi ipnotico grazie ad una melodia inusuale e ad un uso appropriato del loop.

Claudio Cojaniz è un altro pezzo da novanta del jazz friulano e più in generale italiano. Questo “Molineddu” è stato registrato tra il novembre 2016 e il febbraio 2017, quindi pochi mesi prima di “Sound Of Africa”, altro album del pianista che manifesta così il suo amore verso questo continente. Ad affiancarlo ancora una volta i componenti del ‘Coj & Second Time” vale a dire Alessandro Turchet (contrabbasso), Luca Grizzo (percussioni, vocale), Luca Colussi (batteria) con l’aggiunta di Carmela Arghittu (voce) nel brano che dà il titolo all’album. In programma sette originali tutti dovuti alle felice vena creativa del leader. Ancora una volta il pianismo di Cojaniz risulta di grande interesse; il suo linguaggio, pur nel dichiarato omaggio all’arte, alla cultura di altri continenti (qui sentita la dedica alla città di Aleppo), mai risulta calligrafico, sempre scevro da ogni manierismo e intellettualismo di maniera. Di qui niente funamboliche evoluzioni sulla tastiera, niente invenzioni particolarmente azzardate, niente suoni alterati ma linee melodiche essenziali eppure di assoluta godibilità, armonizzazioni non astruse ma non banali, e soprattutto una tavolozza coloristica che i membri del quartetto rendono al meglio con la cavata possente e precisa di Alessandro Turchet, la batteria mai ridondante di Luca Colussi che si dimostra ancora una volta (se pur ce ne fosse stato bisogno) uno dei migliori e più lucidi batteristi italiani e le percussioni assolutamente inusuali di Luca Grizzo che regalano quasi un tocco di magia alla musica dell’ensemble (se non si vede Grizzo esibirsi non si ha un’esatta percezione di quanto detto). Tra i brani da segnalare soprattutto “Molineddu – Girasoles suta sa luna” in cui Carmela Arghittu interpreta con grande e sincera partecipazione i versi di Istevene Stefano Flores.

Roberto Martinelli (sax soprano) e Ermanno Maria Signorelli (chitarra classica) sono i protagonisti del toccante album “Pater” registrato a Padova nel 2018. Titolo non potrebbe essere più esplicativo dal momento che l’album è dedicato ai padri dei due artisti scomparsi in un breve arco di tempo. E questo dà la misura del tipo di musica che si ascolta. Sax soprano e chitarra costituiscono un duo certo non usuale ed in effetti è il primo disco che i due incidono assieme anche se, viceversa, sul campo hanno avuto diverse occasioni di collaborare. Di qui un’intesa che va ben al di là della registrazione in oggetto, un’intesa confortata dal comune background sia classico sia jazzistico, dall’idem sentire quanto a purezza e naturalezza del suono acustico. Non a caso Signorelli è tra i pochissimi jazzisti italiani ad aver scelto la chitarra classica. Al riguardo dobbiamo, quindi, segnalare l’assoluta coerenza con questo assunto di ambedue i musicisti che non si sono lasciati sedurre dai “nuovi suoni”. Liberi da ogni obbligo di modernità, i due si spingono su terreni in qualche modo legati alla musica colta europea in cui è ben difficile distinguere tra pagina scritta e improvvisazione. Materia, quest’ultima, in cui sia Martinelli sia Signorelli sembrano eccellere per tutta la durata dell’album. Straordinariamente efficace la trattazione delle dinamiche in cui anche il silenzio ha un suo rispettabile ruolo, così come coinvolgente risulta l’invenzione tematica dei due che si riallaccia in maniera decisa al gusto melodico della tradizione italiana. Infatti degli otto brani in programma ben sette sono gli originali di cui quattro di Signorelli e tre di Martinelli cui si aggiunge lo standard “My Favourite Things” di Rodgers e Hammerstein porto con gusto e originalità.

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CAM JAZZ

La CAM JAZZ è nata come una costola della prestigiosa Cam (Creazioni Artistiche Musicali) Records, costituita tra la fine del 1959 e l’inizio del 1960. Fondata dai fratelli Campi fu una delle primissime etichette a specializzarsi nel registrare le musiche tratte dai film. Nel 2000 la nascita di CAM Jazz per una intuizione del titolare della CAM che ascoltato Giovanni Tommaso appena finito di registrare la colonna musicale di un film, con musiche da lui composte, e venuto a conoscenza che Giovanni era un jazzista gli propose l’idea di suonare in versione jazz alcuni dei temi più noti tratti dal catalogo CAM. Giovanni accolse l’idea con entusiasmo, e fu così che nacque il primo album di CAM JAZZ, “La dolce vita – Tommaso/Rava Quartet”. Quasi inutile sottolineare come questa etichetta rappresenti oggi una delle realtà più vitali e importanti, conosciuta ed apprezzata in Italia e all’estero, avendo tra l’altro acquisito due prestigiose etichette, La Black Saint e la Soul Note.

Anche in questo caso vi proponiamo tre produzioni. Le prime due vedono protagonista uno degli artisti di punta dell’etichetta Enrico Pieranunzi, registrato dal vivo durante un concerto alla Bastianich Winery in splendida solitudine, e in trio con Gabriele Mirabassi e Gabriele Pieranunzi.

Enrico Pieranunzi “Wine & Waltzes” fa parte di quella serie di registrazioni effettuate quasi per scommessa da Ermanno Basso produttore dell’etichetta e Stefano Amerio vero e proprio mago del suono, titolare dei celebri “Artesuono Recording Studios”. In sostanza si trattava di verificare se fosse possibile produrre degli album live registrati nelle cantine del Friuli Venezia Giulia. La scommessa è stata vinta alla grande e questo album ne è una prova inconfutabile. Enrico suona come al solito molto, molto bene, con quella classe e quella originalità che ne hanno fatto uno dei migliori pianisti oggi in esercizio sulle platee di tutto il mondo. Il suo stile allo stesso tempo rigoroso e fantasioso, frutto di un innato talento ma anche di anni ed anni di intenso studio, è immediatamente riconoscibile. Se a tutto ciò si aggiunge la piacevolezza di un repertorio quasi tutto incentrato sul ritmo ternario si capirà immediatamente perché l’album è godibile dal primo all’ultimo istante.

Così come godibile è “Play Gershwin” ovviamente incentrato sul compositore di Brooklyn. Come si diceva con Pieranunzi negli studi di registrazione di Stefano Amerio, a Cavalicco, Gabriele Mirabassi al clarinetto e Gabriele Pieranunzi al violino. Un organico, quindi, inusuale ma di eccelso spessore tecnico-artistico. Questo album meriterebbe tutta una serata di illustrazioni non solo e non tanto per la qualità della musica e la bravura degli esecutori quanto per la complessità dell’operazione che sottende il CD. Al riguardo bisogna partire da un dato: sia “An American in Paris” sia “Rhapsody in Blue” – ambedue contenute nell’album – furono scritte per larghi organici. Come ridurre queste partiture sì da farle suonare ad un trio anziché ad un’orchestra sinfonica? L’impresa era di quelle da far tremare i polsi, come confessa lo stesso Pieranunzi che per “Un Americano a Parigi” si è servito della trascrizione per pianoforte solo di William Daly e della versione per due pianoforti scritta dallo stesso Gershwin, mentre per la “Rapsodia” è stata lasciata integra quella parte solistica di pianoforte scritta nel 1924 che spesso viene tagliata e si è proceduto a ristrumentare passaggi non suonati dal pianoforte. Risultato? Eccellente sotto ogni aspetto; alle due opere sopra citate si aggiungono i preludi (scritti originariamente per solo pianoforte) che evidenziano vieppiù una intesa del tutto straordinaria che va ben al di là del fatto meramente musicale. Pieranunzi mette sul piatto ancora una volta tutto il suo mostruoso bagaglio che va dal ragtime a Bach mentre i compagni di viaggio lo seguono con una gioia ed una intensità palpabili ed avvertibili in ogni momento.

Pipe Dream – “Pipe Dream”
Sotto l’insegna di Pipe Dream opera un nuovo quintetto costituito da Hank Roberts (violoncello e voce), Filippo Vignato (trombone), Pasquale Mirra (vibrafono) Giorgio Pacorig (pianoforte, fender rhodes) e Zeno De Rossi (batteria). Questo è il loro album d’esordio e se il buongiorno si vede dal mattino allora di questo gruppo sentiremo parlare a lungo e bene. In effetti l’album è molto interessante ricco com’è di umori, di sapori, di colori, di atmosfere che rendono sempre vivo l’ascolto. I cinque musicisti conoscono molto bene la musica globalmente intesa per cui nelle loro esecuzioni non è difficile scorgere tracce di jazz propriamente detto (soprattutto free e bop) suggestioni etniche, echi di minimalismo, abbandoni poetici, frammenti di funk… Così la mente vaga alla ricerca di ricordi lontani ma riportati in superficie da suggestioni sonore porte con intelligenza, garbo e originalità. Si noti, ad esempio, con quanta abilità Filippo Vignato si muove sulle frequenze più basse contribuendo in maniera determinante a non far sentire la mancanza del contrabbasso. Egualmente il violoncello di Hank Roberts si incarica di eseguire le linee melodiche più accattivanti mentre Zeno De Rossi fa cantare i suoi tamburi alternando suono e silenzio (magistrale il suo accompagnamento nella title track). Giorgio Pacorig si conferma pianista versatile e nell’occasione anche valido compositore (suo “They Were Years”, il brano più complesso dell’intero programma). Infine Pasquale Mirra dispensa sghembi tocchi di melodia a comporre un puzzle tra i più originali e convincenti che abbiamo avuto modo di sentire in questo primo scorcio dell’anno.

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ECM (Editions of Contemporary Music)

Se c’è un’etichetta che nel mondo della musica, al di là di qualsivoglia genere, ha influenzato musicisti, critici e pubblico questa è sicuramente la ECM. Fondata ad Amburgo da Manfred Eicher nel 1969, la casa discografica tedesca nel corso di questi ultimi decenni ha imposto una propria estetica, dettando parametri che hanno portato ad un jazz completamente diverso rispetto all’originale afro-americano, con una cura estrema per il suono, un’estetica cui hanno aderito moltissimi artisti e non solo europei tra cui Mal Waldron che registrò il primo album ECM (“Free at Last” novembre 1969), Joe Lovano, Keith Jarrett, Paul Bley, Chick Corea, Pat Metheny, l’Art Ensemble of Chicago Jan Garbarek, John Abercrombie, Palle Danielsson… i nostri Enrico Rava, Stefano Battaglia, Stefano Bollani… solo per citarne alcuni . Nel 1984 nasce la costola ECM New Series, che pubblica artisti come Arvo Paart, Heiner Goebbels, Meredith Monk, Ketil Bjornstad, Valentin Silvestrov, che appartengono alla musica colta contemporanea.
Tornando al jazz vi proponiamo le prime cinque uscite con cui la ECM ha inaugurato questo 2019.

Ralph Alessi – “Imaginary Friends” – ECM 2629
Ecco il terzo album del trombettista statunitense Ralph Alessi pubblicato dalla ECM dopo “Baida” del 2013 e “Quiver del 2016”. Questa volta Alessi è alla testa di un suo quintetto attivo dal 2010 e completato da Ravi Coltrane a tenore e sopranino, Andy Milne al pianoforte, Drew Gress al contrabbasso e Mark Ferber alla batteria. In programma nove composizioni originali del leader. L’album si apre con “Iram Issela” che evidenzia ancora una volta come Alessi risulti artista assolutamente moderno senza per ciò perdere il contatto con la tradizione; il brano è caratterizzato da una bella linea melodica e già da questo primo pezzo si possono riscontrare quelle che saranno le caratteristiche dell’intero album. Vale a dire il ruolo di leader assoluto del trombettista che detta e disegna le atmosfere dell’album in ciò coadiuvato splendidamente dal pianismo mai esorbitante di Andy Milne e da una sezione ritmica di assoluta eccellenza, sempre pronta a sottolineare i momenti clou delle varie interpretazioni. Abbiamo lasciato per ultimo Ravi Coltrane in quanto il sassofonista (classe 1965, figlio di John e Alice Coltrane) può vantare un’intesa con Alessi dai tempi del California Institute of the Arts alla fine degli anni ’ 80. Ciò spiega, meglio di mille parole, la straordinaria intesa tra i due che li porta a dialogare su un piano di assoluta parità. Si ascolti, al riguardo “Melee”, il brano più lungo dell’album, un vero e proprio campo minato in cui trombettista e sassofonista si avventurano senza rete, dando fondo a tutte le loro potenzialità, in un gioco di rimandi, rincorse, stop and go a tratti davvero entusiasmante.

Yonathan Avishai – “Joys and Solitudes” – ECM 2611
Un album che si apre con una sontuosa interpretazione del classico “Mood Indigo” di ellingtoniana memoria non può che conquistarti immediatamente. Se poi a questo primo brano seguono sette composizioni originali, tutte di convincente fattura, ecco che finito l’album hai subito voglia di rimetterlo su. Autore di questo piccolo miracolo è il pianista Yonathan Avishai, nato a Tel Aviv nel 1977, da madre francese e padre israeliano, ma residente in Francia dal 2001, che con questo album segna il suo ingresso da leader nella scuderia ECM. Avishai è alla testa del suo trio, in attività dal 2015, con Yoni Zelnik, bassista israeliano oramai anch’egli di casa a Parigi e Donald Kontomanou, batterista francese della Guinea con origini greche. Accennavamo al brano d’apertura, “Mood Indigo”: ebbene il trio non si limita ad una pedissequa riproposizione ma ce ne fornisce una versione originale particolarmente apprezzabile per la ricchezza armonica e la ricerca timbrica. E sono questi elementi che si riscontrano in tutto l’album in cui il pianista fa riferimento esplicito ad esperienze, emozioni da lui vissute in prima persona. Così, ad esempio, lo straniante “Tango”, che dello stereotipo argentino conserva ben poco, è ispirato dall’ascolto di ‘Ojos Negros’ di Anja Lechner e Dino Saluzzi; particolarmente gustoso con il suo andamento altalenante “Joy” mentre “Les pianos de Brazzaville” si richiama esplicitamente ai suoi viaggi nella repubblica del Congo, grazie anche ad alcuni espliciti riferimenti etnici. Una menzione particolare merita “When Things Fall Apart” il brano più lungo e articolato (più di dodici minuti) che, dopo un inizio di carattere impressionistico, si sviluppa attraverso un ampio dialogo fra i tre che pone in evidenza sia l’intesa di gruppo sia la bravura dei singoli.

Mats Eilertsen – “And Then Comes The Night” – ECM 2619
Dopo la felice esperienza del settetto con “Rubicon” (sempre ECM del 2015) il bassista norvegese Mats Eilertsen si ripresenta al pubblico del jazz alla testa di un trio con Harmen Fraanje piano e Thomas Strønen batteria che esiste già da una decina d’anni. Si tratta, quindi, di un classico trio pianoforte con sezione ritmica che, almeno dal punto di vista dell’organico, non presenta alcunché di nuovo. Eppure l’album presenta notevoli motivi di interesse grazie alla particolare visione musicale dei tre, condotti con mano sicura dal leader che può vantare un’intesa attività in casa ECM avendo collaborato alle registrazioni, tra gli altri di, Tord Gustavsen, Trygve Seim, Mathias Eick, Nils Økland, Wolfert Brederode e Jakob Young. Ma è nei progetti a suo nome che l’artista rivela compiutamente la sua cifra stilistica. Così, in questo “And Then Comes The Night” (titolo derivato dal racconto dello scrittore islandese Jón Kalman Stefánsson “Luce d’agosto ed è subito notte”) Eilertsen abbandona strade già abbondantemente battute per inerpicarsi lungo sentieri scoscesi in cui il silenzio ha quasi la stessa importanza del suono e il gioco delle dinamiche risulta preponderante rispetto a qualsivoglia elaborazione armonica o ricchezza di fraseggio. Di qui una musica tutt’altro che banale con cui Eilertsen ci invita a compiere con lui un viaggio immaginario, nel profondo delle emozioni che non possono non riguardare ciascuno di noi. E così l’album si apre con un titolo particolarmente significativo “22”, in ricordo della terribile strage compiuta il 22 luglio del 2011 sull’isola di Utøya, nel Tyrifjorden,
da un uomo che uccise 69 giovani, ferendone altri 110, tra i partecipanti ad un campus organizzato dalla sezione giovanile del Partito Laburista Norvegese. A tutt’oggi è l’atto più violento mai avvenuto in Norvegia dalla fine della seconda guerra mondiale.

Eleni Karaindrou – “Tous des oiseaux” – ECM 2634
Questo album, della ECM New Series, ci propone le colonne sonore scritte da Eleni Karaindrou per la pièce “Tous des oiseaux” del regista Wajdi Mouwad e “Bomb. A love Story” dell’attore e regista iraniano Payman Maadi. L’artista greca si dimostra ancora una volta all’altezza della situazione evidenziando la solita verve compositiva che avevamo imparato a conoscere ed apprezzare sin dalla sua prima colonna sonora per Periplanissis (Wandering), di Christoforos Christofis (1979). Da allora Eleni non si è più fermata collezionando allori in tutto il mondo tra cui la vittoria nel 1982 al Thessaloniki Film Festival che la condurrà ad una fruttuosa collaborazione con Theo Angelopoulos e nel 1992 il Premio Fellini di Europa cinema. Anche con quest’ultima fatica discografica la Karaindrou si cala perfettamente nello spirito delle rappresentazioni sceniche, la prima che porta sulla scena una tragedia che si sviluppa nel cuore del conflitto israelo-palestinese, la seconda a sottolineare come al culmine della guerra Iran-Iraq del 1988, quando Teheran viene bombardata senza sosta, l’amore, l’affetto, la speranza e la vita hanno la meglio sulla paura della morte. Da sottolineare come questa colonna sonora sia la prima composta dalla Karaindrou dopo la scomparsa di Angelopoulos e si sia già meritata una nomination per l’ APSA (Asia Pacific Screen) come Best Original Score. Date le tematiche trattate, è facile intuire lo spessore della musica, sempre molto intensa, emozionale, ricca di colori, di suggestioni, di umori ottimamente resa dall’orchestra d’archi, con il primo violino Argyo Seira, al cui fianco troviamo altri musicisti di talento quali, tanto per fare qualche nome, la vocalist Savina Yannatou, Nikos Paraoulakis al ney (sorta di flauto caratteristico soprattutto della musica tradizionale colta di molti Paesi Medio-Orientali), Stefanos Dorbarakis al kanonaki (strumento cordofono della tradizione classica araba). Dal canto suo la Karaindrou si fa apprezzare in alcuni brani anche come pianista.

Joe Lovano – “Trio Tapestry” – ECM 2615
Ecco l’album che non ti aspetti. Protagonista il grande sassofonista Joe Lovano, di origini siciliane, che dopo aver partecipato a varie registrazioni ECM nel corso degli anni (ricordiamo gli splendidi album a fianco di Paul Motian, Steve Kuhn e John Abercrombie) approda adesso al suo primo album da leader per la casa tedesca, cosa abbastanza strana visto l’eccezionale curriculum dell’artista. Album che non ti aspetti, dicevamo in apertura, in quanto Lovano, ben coadiuvato dalla pianista Marilyn Crispell e dal batterista Carmen Castaldi, si muove su terreni molto più vicini a quella che viene considerata l’estetica ECM piuttosto che ai canoni del jazz propriamente detto (quello afro-americano tanto per intenderci). Ecco, quindi, una musica molto introspettiva, delicata, declinata attraverso undici brani a firma di Lovano che lo stesso sassofonista definisce come “alcune composizioni tra le più intime che abbia mai scritto”. A ciò si aggiunga il fatto che “Trio Tapestry” è tutto giocato sul lirismo e sulla straordinaria intesa fra i tre cementata con la pianista di Filadelfia dalle precedenti collaborazioni e con il batterista dalla condivisione del percorso formativo presso il Berklee College e dai successivi gruppi che li hanno visti suonare l’uno accanto all’altro. Chi fosse a caccia di swing qui non lo troverà, di converso all’interno di strutture ben delineate avrà la possibilità di apprezzare a che grado di rarefazione può giungere la musica se affidata a veri e propri talenti e alla straordinaria versatilità di Lovano che, pur in un contesto stanzialmente cameristico, si esprime sempre con un fraseggio molto fluido e sempre originale.

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DODICILUNE

L’etichetta Dodicilune, fondata e guidata da Gabriele Rampino (direttore artistico) e Maurizio Bizzochetti (label manager) è attiva dal 1996 e dispone di un catalogo di oltre 250 produzioni di artisti italiani e stranieri. Distribuiti nei negozi in Italia e all’estero da IRD, i dischi Dodicilune possono essere acquistati anche online, ascoltati e scaricati su una cinquantina tra le maggiori piattaforme del mondo grazie a Believe Digital. Tra le ultime produzioni ne abbiamo scelte tre che riteniamo particolarmente significative.

Claudio Angeleri – Blues is more
Consentiteci, innanzitutto, di formulare le nostre più vive congratulazioni a Claudio Angeleri che con questo “Blues Is More” firma il suo ventesimo album da leader. Per l’occasione il pianista e compositore bergamasco presenta al suo fianco una batteria di straordinari musicisti: il sassofonista Gabriele Comeglio, attivo sia nel jazz (Yellow Jackets, Randy Brecker e Lee Konitz) sia nel pop (Mina, Battiato e Lucio Dalla); il bassista Marco Esposito, già sodale di Angeleri in diverse occasioni nonché collaboratore tra gli altri di Gianluigi Trovesi, Franco Ambrosetti, Bob Mintzer; il trombonista Andrea Andreoli, attivo con la WDR Orchestra insieme a Bill Lawrence (Snarky Puppy) e Bob Mintzer; il batterista e percussionista Luca Bongiovanni, presente in alcune edizioni di Bergamo Jazz e Iseo Jazz. Ospiti anche la cantante Paola Milzani (in “Monk’s dream”), e il flautista Giulio Visibelli (“Paths”). In repertorio tre riletture di standard, “Dance of the infidels” di Bud Powell, “A new world a comin” di Duke Ellington e “Monk’s dream” di Thelonious Monk e Jon Hendricks, cui si affiancano sette composizioni originali del pianista che vanta una lunga e prestigiosa carriera testimoniata oltre dai già citati album da prestigiose collaborazioni con artisti del calibro di Charlie Mariano, Bob Mintzer, Franco Ambrosetti, Gianluigi Trovesi. Ciò detto bisogna ancora una volta sottolineare come il pianismo di Angeleri, seppur nell’ambito di un moderno mainstream, riesca ad essere allo stesso tempo moderno e originale. Il suo linguaggio è creativo, intelligente, spesso trascinante, corroborato da tanti anni di studio, dai molti album cui prima si faceva riferimento e dall’aver calcato con successo molti e molti palcoscenici. Così’ nel suo pianismo ritroviamo echi di blues (naturalmente), di modale, di musica contemporanea, di funky…il tutto omogeneizzato sì da renderlo un unicum di assoluta originalità. Senza trascurare quella capacità di scrittura che difficilmente rende riconoscibile la pagina scritta dalle improvvisazioni: al riguardo si ascolti con attenzione il basso di Marco Esposito nella title track sax di Gabriele Comeglio in “Paths” e la splendida voce della Milzani in “Monk’s dream”.. per non parlare dei due splendidi piano solo, “la ellingtoniana “A new world is coming” e l’originale “Dixie” che chiude l’album.

Centazzo, Schiaffini, Armaroli – “Trigonos”
Musica certo non per tutti quella proposta da Andrea Centazzo (percussioni, malletkat, sampling), Giancarlo Schiaffini (trombone) e Sergio Armaroli (vibrafono), ovvero tre sperimentatori tra i più acuti della scena contemporanea italiana. In programma dieci brani tutti originali scritti dai tre. E a questo punto crediamo che il quadro della musica contenuta nell’album sia piuttosto chiaro, una musica che non presenta alcun punto di riferimento preciso ma che viaggia da un lato all’altro dell’immaginario triangolo costituito dai musicisti a riaffermare la volontà del singolo di andare al di là di qualsivoglia estetica precostituita, di rifuggire da ogni cliché, di affrontare piste sconosciute alla ricerca del proprio io più profondo. Quindi un’improvvisazione totale che prevede un’immersione completa nei suoni prodotti da ognuno a seconda della propria sensibilità: così mentre Schiaffini mette sul tappeto quell’enorme bagaglio che lo connota e che va dal New Orleans al migliore free-jazz, Centazzo evidenziala sua passione per i suoni profondi, evocativi e Armaroli si muove leggero dispensando pennellate di colore con il suo vibrafono. Il risultato è affascinante, certo alle volte straniante, ma una volta cominciato ad ascoltare “Trigonos” è praticamente impossibile
smettere e così si giunge alla fine in atmosfere sempre ovattate, quasi sottovoce come ad opporsi, rileva nelle note di copertina Paolo Carradori, a quanti oggi usano “parole orrende”. Da sottolineare il coraggio della etichetta salentina nel produrre un album del genere dando così una mano non secondaria allo sviluppo delle “nostre” avanguardie.

Roberto Ottaviano – “Eternal Love”
Da una parte Abdullah Ibrahim, Charlie Haden, Dewey Redman, Elton Dean, lo stesso Coltrane, Don Cherry, dall’altra la musica africana: questi i due poli al cui interno è declinata la personalissima poetica di Roberto Ottaviano, senza dubbio alcuno uno dei migliori sassofonisti oggi in esercizio e non solo sulle scene italiane. La sua è una visione particolare della musica che trascende l’“hic et nunc’ per immergersi in una spiritualità che per l’appunto ritroviamo in alcuni dei musicisti sopra citati e di cui Ottaviano reinterpreta alcuni brani, cui affianca due sue notevoli composizioni. In particolare con questo album Ottaviano tende ad operare una ricerca molto profonda, una sorta di ‘bagno mistico” (così lui stesso la definisce) per far sì che il “Jazz si faccia infine Musica Totale, ma soprattutto travalichi l’idea fine a sé stessa di fare musica per scavare a fondo nel nostro ego e per capire se esiste un noi universale da cui ripartire”. Se queste sono le premesse che hanno spinto l’artista è poi impossibile stabilire se l’obiettivo è stato raggiunto, data la natura totalmente intimista del progetto. Ciò che si può dire in questa sede è che l’album ancora una volta non delude gli estimatori di Ottaviano (e noi tra questi). Per affrontare il delicato compito Ottaviano ha costituito un nuovo quintetto in cui accanto ai ‘fidi’ Alexander Hawkins (piano, Rhodes, Hammond) e Giovanni Maier (contrabbasso), troviamo Zeno De Rossi alla batteria e Marco Colonna ai clarinetti. L’album si apre con la rilettura di un brano tradizionale africano, “Uhuru”, che ci conduce in maniera pertinente alla musica che Ottaviano ci riserva nei solchi successivi. Una musica intimista, suggestiva, ricca di colori, in cui la bravura dei singoli si incastona nelle strutture ampie, disegnate con maestria dal leader. E parlando dei singoli non si può non sottolineare ancora una volta la maestria di Ottaviano che al sax soprano conosce pochi rivali, la capacità di Marco Colonna al clarinetto basso di dialogare alla pari con il leader (lo si ascolti in “Mushi Mushi” di Dewey Redman), l’eccezionale lavoro di Maier anche con l’archetto (in “Eternal Love”, “Until The Rain Comes” di Cherry e “African Marketplace” di Abdullah Ibrahim), lo spumeggiante fraseggio di Hawkins e il supporto sempre imprescindibile di Zeno De Rossi.

Gente di Jazz: una nuova recensione del critico musicale Neri Pollastri pubblicata su All About Jazz Italia

Il libro del nostro direttore Gerlando Gatto continua a far parlare di se. Dopo la seconda ristampa e numerosi riscontri da parte della critica e dei lettori, arriva questa pregevole ed accurata recensione scritta dal critico musicale toscano Neri Pollastri e pubblicata sul sito All About Jazz Italia (qui il link), che ringraziamo per averci concesso l’autorizzazione a pubblicarla anche sul nostro portale. Ecco la versione integrale:

Gerlando Gatto: Gente Di Jazz

 

Neri Pollastri By NERI POLLASTRI

Gente di Jazz
Gerlando Gatto
232 pagine
KappaVu
2017

“In questo volume Gerlando Gatto -catanese trapiantato a Roma, che di jazz si è occupato fin dai suoi esordi giornalistici risalenti ai primi anni Settanta e oggi una delle firme storiche del jazz italiano -raccoglie alcune delle sue numerosissime interviste con musicisti realizzate nel corso degli anni, selezionandole sulla base di un criterio solo in parte accidentale: la loro partecipazione a Udin&Jazz, festival che si tiene nella città friulana da oltre un quarto di secolo.

Le interviste, raccolte secondo l’ordine alfabetico degli interlocutori, hanno datazioni assai diverse tra loro: talune sono recentissime, molte risalgono agli anni Novanta, talaltre sono ancora precedenti. In alcuni casi -per esempio quelli Enrico Pieranunzi e Gonzalo Rubalcaba -le interviste sono più di una per musicista e permettono così di confrontare periodi diversi della loro carriera artistica.

Gli artisti intervistati sono sia italiani, sia stranieri, spesso di primissimo piano -come nel caso di Enrico RavaStefano BattagliaStefano BollaniPaolo FresuFranco D’AndreaGiancarlo SchiaffiniFrancesco Bearzatti -sia meno noti ma non per questo meno valenti -come Claudio CojanizDario Carnovale, Antonio Onorato, Massimo De MattiaEnzo Favata. Non mancano altri nomi storici del jazz italiano, come Claudio FasoliRoberto GattoRosario BonaccorsoMaurizio Giammarco, mentre tra gli stranieri si trovano alcune autentiche “chicche,” quali Mino CineluMcCoy TynerMartial SolalMichel Petrucciani e Joe Zawinul.

Lo stile delle interviste è estremamente semplice, diretto e colloquiale, frutto anche della modalità in cui sono state effettuate: spesso a margine dei concerti, con un approccio ai musicisti aperto ma anche di timido rispetto, talvolta addirittura a casa dell’intervistatore, a Roma, come nel caso di quelle di apertura -con Battaglia -e chiusura -con Zawinul, diventato quasi un amico di famiglia con un curioso rapporto con la madre di Gatto, pur nella totale incomunicabilità linguistica. Un tal tipo di approccio da un lato favorisce la stesura di pagine molto vive e per il lettore assai stimolanti, dall’altro è molto produttivo nella relazione con gli artisti, i più riflessivi e/o brillanti dei quali, infatti, offrono nel dialogo dei contributi decisamente interessanti.

Ciò accade per esempio nel caso di Battaglia, che parlando del suo passaggio da musicista classico a improvvisatore offre interessanti spunti sulla continuità e la differenza tra i due ambiti musicali; in quello di Bollani, che con le sue modalità schiette e paradossali si spinge anche oltre la musica e prende singolari e interessanti posizioni in campo sociale e, in un certo senso, anche politico; di D’Andrea, che con poche pennellate spiega da dove provenga il suo così rigoroso e al tempo stesso originalissimo mondo musicale; di Rava, che regala alcuni illuminanti aneddoti tratti dalla storia dell’ultimo mezzo secolo di questa musica; di Schiaffini, che condivide alcune lucide riflessioni, tra l’ironico e l’amaro, sullo stato del pubblico e delle istituzioni musicali, ma anche delle belle parole sul senso dell’improvvisazione.

Tutte le interviste sono godibili e interessanti, possibile strumento di comprensione di questa musica non solo per chi ne sia appassionato, ma anche per chi voglia avvicinarla -cosa, com’è noto, spesso per i più non semplicissima -grazie alla presenza di alcuni “fili rossi” che tornano spesso nelle conversazioni, quali lo sviluppo della musica jazz e i suoi rapporti con il pop e la classica, il senso dell’improvvisazione e le sue diverse forme, le ragioni della difficile diffusione di questa musica, le perversioni del mercato e delle istituzioni musicali. Temi, questi, toccati in modo spesso molto diverso (anche per la diversità dei momenti in cui ciascuna intervista è stata effettuata), ma che proprio per questo possono essere compresi in modo più sfaccettato.

Il bel volume, pubblicato dalla casa editrice KappaVu di Udine e già arrivato alla seconda edizione, è completato da una prefazione di Paolo Fresu e da una postfazione di Fabio Turchini, collaboratore di Udin&Jazz che ne riassume lo spirito delle ventisei edizioni, ed è corredato dalle foto di Luca D’Agostino, fotografo storico della rassegna.

In questo volume Gerlando Gatto – catanese trapiantato a Roma, che di jazz si è occupato fin dai suoi esordi giornalistici risalenti ai primi anni Settanta e oggi una delle firme storiche del jazz italiano – raccoglie alcune delle sue numerosissime interviste con musicisti realizzate nel corso degli anni, selezionandole sulla base di un criterio solo in parte accidentale: la loro partecipazione a Udin&Jazz, festival che si tiene nella città friulana da oltre un quarto di secolo.

Le interviste, raccolte secondo l’ordine alfabetico degli interlocutori, hanno datazioni assai diverse tra loro: talune sono recentissime, molte risalgono agli anni Novanta, talaltre sono ancora precedenti. In alcuni casi -per esempio quelli Enrico Pieranunzi e Gonzalo Rubalcaba -le interviste sono più di una per musicista e permettono così di confrontare periodi diversi della loro carriera artistica.

Gli artisti intervistati sono sia italiani, sia stranieri, spesso di primissimo piano -come nel caso di Enrico RavaStefano BattagliaStefano BollaniPaolo FresuFranco D’AndreaGiancarlo SchiaffiniFrancesco Bearzatti -sia meno noti ma non per questo meno valenti -come Claudio CojanizDario Carnovale, Antonio Onorato, Massimo De MattiaEnzo Favata. Non mancano altri nomi storici del jazz italiano, come Claudio FasoliRoberto GattoRosario BonaccorsoMaurizio Giammarco, mentre tra gli stranieri si trovano alcune autentiche “chicche,” quali Mino CineluMcCoy TynerMartial SolalMichel Petrucciani e Joe Zawinul.

Lo stile delle interviste è estremamente semplice, diretto e colloquiale, frutto anche della modalità in cui sono state effettuate: spesso a margine dei concerti, con un approccio ai musicisti aperto ma anche di timido rispetto, talvolta addirittura a casa dell’intervistatore, a Roma, come nel caso di quelle di apertura -con Battaglia -e chiusura -con Zawinul, diventato quasi un amico di famiglia con un curioso rapporto con la madre di Gatto, pur nella totale incomunicabilità linguistica. Un tal tipo di approccio da un lato favorisce la stesura di pagine molto vive e per il lettore assai stimolanti, dall’altro è molto produttivo nella relazione con gli artisti, i più riflessivi e/o brillanti dei quali, infatti, offrono nel dialogo dei contributi decisamente interessanti.

Ciò accade per esempio nel caso di Battaglia, che parlando del suo passaggio da musicista classico a improvvisatore offre interessanti spunti sulla continuità e la differenza tra i due ambiti musicali; in quello di Bollani, che con le sue modalità schiette e paradossali si spinge anche oltre la musica e prende singolari e interessanti posizioni in campo sociale e, in un certo senso, anche politico; di D’Andrea, che con poche pennellate spiega da dove provenga il suo così rigoroso e al tempo stesso originalissimo mondo musicale; di Rava, che regala alcuni illuminanti aneddoti tratti dalla storia dell’ultimo mezzo secolo di questa musica; di Schiaffini, che condivide alcune lucide riflessioni, tra l’ironico e l’amaro, sullo stato del pubblico e delle istituzioni musicali, ma anche delle belle parole sul senso dell’improvvisazione.

Tutte le interviste sono godibili e interessanti, possibile strumento di comprensione di questa musica non solo per chi ne sia appassionato, ma anche per chi voglia avvicinarla -cosa, com’è noto, spesso per i più non semplicissima -grazie alla presenza di alcuni “fili rossi” che tornano spesso nelle conversazioni, quali lo sviluppo della musica jazz e i suoi rapporti con il pop e la classica, il senso dell’improvvisazione e le sue diverse forme, le ragioni della difficile diffusione di questa musica, le perversioni del mercato e delle istituzioni musicali. Temi, questi, toccati in modo spesso molto diverso (anche per la diversità dei momenti in cui ciascuna intervista è stata effettuata), ma che proprio per questo possono essere compresi in modo più sfaccettato.

Il bel volume, pubblicato dalla casa editrice KappaVu di Udine e già arrivato alla seconda edizione, è completato da una prefazione di Paolo Fresu e da una postfazione di Fabio Turchini, collaboratore di Udin&Jazz che ne riassume lo spirito delle ventisei edizioni, ed è corredato dalle foto di Luca D’Agostino, fotografo storico della rassegna. ”

courtesy: All About Jazz Italia – thanks to Neri Pollastri, author