Maria Pia De Vito profonda anche nelle parole / Sonia Spinello sorprende il pubblico romano

Ancora una bella serata martedì nell’ambito degli incontri tenuti alla Casa del Jazz dal nostro direttore Gerlando Gatto. Ospiti Maria Pia De Vito e Sonia Spinello.
Atmosfera molto distesa con le due artiste assolutamente a loro agio, pur affrontando tematiche tutt’altro che leggere, ed un pubblico quanto mai attento e recettivo tra cui, in sala, due figure di rilievo del jazz italiano: Cinzia Tedesco una delle voci più autorevoli del panorama vocale e Danilo Blaiotta sicuro talento del nuovo pianismo jazz.
Apre Maria Pia De Vito che canta accompagnandosi al pianoforte: il conduttore la invita a ripercorrere i primi passi della sua carriera, quando frequentava il “Music Inn” e appariva – queste le parole di Gatto – «affamata di Jazz».

La vocalist risponde con fervore e il quadro che ne deriva è quello di un ambiente musicale molto vivo, ricco di fermenti, di novità, di un pubblico che man mano si avvicina al jazz apprezzandone il nuovo linguaggio. In tale contesto si forma la personalità della De Vito che, a partire da quei giorni, mai si è fermata nella ricerca di un’espressione artistica che meglio la rappresenti. Di qui una sperimentazione sulla vocalità che attraversa vari terreni: dal free jazz all’elettronica, dal lavoro sulla forma canzone anglofona, senza limitazioni di genere, alle riletture su musiche rinascimentali e barocche, fino alla personale elaborazione della lingua e della cultura napoletana attraverso la musica di improvvisazione. E il primo “regalo” musicale lo offre riproponendo un brano di Joni Mitchell, per sua stessa ammissione una delle sue muse ispiratrici.
Trattandosi di una cantante che come nessun’altra ha saputo valorizzare la lingua napoletana in un ambito totalmente diverso, non poteva mancare un omaggio a questa particolare sperimentazione; ecco dunque la De Vito interpretare con sincera partecipazione “Il Paradiso Dei Cacciottielli “tratto da un album particolarmente significativo intitolato “Phoné” del 2018 in cui la De Vito si esibiva accanto a John Taylor, Gianluigi Trovesi, Enzo Pietropaoli, Federico Sanesi.
L’intervista si sposta poi sull’ultimo lavoro della vocalist campana, “This Woman’s work“ per la Parco della Musica Records, riflessione in musica sulla condizione femminile, particolarmente in sintonia con il secondo libro di Gatto dedicato all’universo femminile del jazz. Su questo particolarissimo tema la De Vito si è soffermata parecchio con riflessioni sempre assai puntuali.
Avviandosi alla conclusione Maria Pia ci ha offerto un breve saggio di improvvisazione a cappella suscitando l’entusiasmo del pubblico che l’ha salutata con calorosi applausi.

Atmosfere completamente diverse nella seconda parte della serata con la vocalist Sonia Spinello accompagnata al piano dall’ottima Eugenia Canale della quale, proprio in questi giorni, è uscito l’album “Risvegli” per la Barnum.
Tornando alla serata presso la Casa del Jazz, Gatto ha tenuto a precisare che l’invito alla Spinello era determinato dal fatto che questa artista praticamente non è conosciuta nel centro-sud Italia nonostante al Nord abbia già raggiunto una buona popolarità grazie ad alcune ottime produzioni discografiche.
Spronata dalle domande di Gatto, la Spinello ha parlato a lungo delle sue attività che vanno ben al di là del fatto squisitamente musicale, estendendosi a tutta una serie di implicazioni che riguardano l’utilizzo della voce in funzione terapeutica.
Sollecitata dal critico musicale, la Spinello ha poi rammentato le tappe fondamentali della sua carriera, ponendo un particolare accento su alcuni album da cui ha tratto due brani interpretati l’altra sera: “Visions”  tratto da “Wonderland”, un album dedicato a Stevie Wonder inciso con Roberto Olzer al piano, Yuri Goloubev al basso, Mauro Beggio alla batteria, Fabio Buonarota al flicorno, Bebo Ferra  chitarra, e “Inverni”, da “Sospesa”  registrato con  Fabio Buonarota flicorno e tromba, Lorenzo Cominoli chitarra, Roberto Olzer pianoforte, Ivan Segreto voce.
Anche in questo caso convinti applausi del pubblico.
E chiudiamo con una importante comunicazione di servizio: per problemi legati alle attività della Casa del Jazz, la prossima puntata de “L’altra metà del jazz” è stata spostata al 29 novembre. Quindi gli incontri con Gatto riprenderanno il 15 (non martedì 14) con Rita Marcotulli e Ottavia Rinaldi: insomma un altro appuntamento particolarmente stimolante (ingresso 5€ – biglietti online su TicketOne.

Redazione

ℹ️ INFO UTILI:
Casa del Jazz – Viale di Porta Ardeatina 55 – Roma
tel. 0680241281 –
La biglietteria è aperta al pubblico nei giorni di spettacolo dalle ore 19:00 fino a 40 minuti dopo l’inizio degli eventi

Alla Casa del Jazz la preghiera
di Sade Mangiaracina

Vulcanica come la sua terra, la siciliana Sade Magiaracina ha presentato l’altra sera alla Casa del Jazz di Roma il suo ultimo disco, “Prayers”… anzi, ad onor del vero, solo una parte dell’album. In effetti “Prayers” consta di due CD, in cui la pianista compositrice e arrangiatrice si avvale di due formazioni diverse: la prima con Marco Bardoscia al contrabbasso e Gianluca Brugnano alla batteria, supportati in tre pezzi dal Quartetto Alborada, la seconda con   con l’aggiunta in un solo brano del già citato Quartetto Alborada.

Prayers” è il terzo disco dell’artista e la formazione con cui ha suonato a Roma (Marco Bardoscia e Gianluca Brugnano) si è dimostrata particolarmente funzionale rispetto alla musica della leader che in questo album ha voluto convogliare un suo ben preciso pensiero: “Prayers” – afferma infatti Sade – è il modo per esprimere l’esigenza di ogni essere umano di rapportarsi, almeno una volta nella vita, per qualsiasi motivo, con il divino a ciò che è astratto e intangibile”.

Insomma un album che si inserisce nel solco di quella ‘spiritualità’ tanto presente nel mondo del jazz: come non citare al riguardo “A love Supreme” di John Coltrane, tanto per fare qualche esempio.

Obiettivo raggiunto? Come al solito quando si incidono album del genere, vale a dire con una progettualità ben precisa, è sempre difficile stabilire se la musica riesce a ben veicolare il messaggio dell’artista. In questo caso, più ascoltando il concerto che il disco, questo messaggio arriva specie nei momenti in cui la musica assume un andamento quasi circolare, con la ripetizione di brevi frammenti melodici in cui Sade fa sfoggio di grande tecnica anche nel controllare perfettamente le dinamiche. Così il pianoforte, sotto le sue mani, assume anche le vesti di uno strumento a percussione raggiungendo momenti di alta intensità che emozionano un pubblico molto attento e competente. È il caso ad esempio di “Journey to Haya Sophia”, ispirato da un viaggio in Turchia, o ancora di “My Prayer” e soprattutto di “Jerusalem”, frutto di un viaggio che Sade fece alcuni anni fa con il marito e il loro bimbo di pochi mesi. Bene: nessuno avrebbe immaginato che di lì a poco il pezzo sarebbe diventato di così drammatica attualità. Il tutto mantenendo un equilibrio costante ad evidenziare la bravura degli altri musicisti. Marco Badoscia è musicista a noi già ben noto che non a caso abbiamo altre volte segnalato all’attenzione degli ascoltatori per l’assoluta padronanza dello strumento e la capacità di ben adeguarsi alle indicazioni del leader, mentre Brugnano ha offerto un drumming sempre preciso, mai invadente. E ambedue sono stati in grado da un canto di dare risalto alle origini mediterranee della musica di Sade, dall’altro di confermare quello straordinario interplay che avevamo già ammirato in precedenti occasioni – nello specifico nei due suoi album precedenti “Le Mie Donne” e “Madiba”, dal quale tra l’altro è tratto il brano “Destroying Pass Book”, eseguito in serata – rendendo praticamente impossibile discernere tra parti scritte e parti improvvisate. Al riguardo mi sembra opportuno segnalare gli assolo dei musicisti in questione: è il caso ad esempio de “La Terra dei Ciclopi”, omaggio alle radici sicule della pianista e tratta dall’omonimo album, dove Brugnano prima dell’inizio vero e proprio del brano si esibisce in un lungo ed energico assolo di batteria, o della conclusione di “Dreamers”, caratterizzata da una struggente sezione di contrabbasso offerta da Badoscia.

E concludiamo questa breve disamina del concerto di Sade Mangiaracina, con alcune parole sul vol.2 dell’album quello in cui, lo ricordiamo, si ascoltano Salvatore Maltana voce e contrabbasso e Luca Aquino alla tromba. In questa sede la musica si fa ancora più introspettiva grazie soprattutto alla tromba di Luca Aquino eccellente interprete delle intenzioni della Leader.

In definitiva un gran be concerto e un album che merita tutta la nostra attenzione.

Gerlando Gatto

Ibrahim Maalouf incanta il pubblico nell’anteprima di Roma Jazz Festival

La 47° edizione del Roma Jazz Festival non poteva avere un’anteprima più riuscita: il concerto di giovedì 12 ottobre, sul palco della Sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone di Roma, è stato un successo clamoroso corroborato dalla standing ovation finale e da lunghi e convinti applausi da parte del numeroso pubblico. Ad esibirsi uno degli strumentisti più popolari della scena francese, il libanese nativo di Beirut ma naturalizzato francese Ibrahim Maalouf alla tromba e al pianoforte, accompagnato da François Delporte alla chitarra, mentre il giovane sassofonista rumeno Mihai Pirvan è stato presentato come una sorta d’ospite d’onore solo verso la fine della performance.

In occasione del concerto in Auditorium, Maalouf ha presentato alcune delle composizioni più celebri della sua carriera, a partire da quelle presenti nel suo ultimo album “40 Melodies”, un disco ricco di ospiti illustri come Sting, Marcus Miller, Matthieu Chedid, Alfredo Rodriguez, Richard Bona, Trilok Gurtu, Hüsnü Senlendrici, Jon Batiste, Arturo Sandoval e molti altri.

Ma nel caso del concerto romano non è stato tanto il repertorio che ha eseguito Maalouf, quanto il come lo ha eseguito. Sulla scia di altri straordinari performer tipo Jacob Collier nel campo del pop e Bobby McFerrin in quello del jazz, Ibrahim ha coinvolto il pubblico fin dalle primissime note del concerto. Entrato in scena con il fido chitarrista ha sollecitato il pubblico a battere le mani ed è stato immediatamente accompagnato dagli spettatori che, guarda caso, riuscivano a seguire il tempo. Poi ha spiegato il filo conduttore della sua esibizione: sciorinare in pubblico il filo rosso che lo ha accompagnato da bambino nell’amore per la musica. Di qui le prime lezioni di pianoforte, divenuto ben presto il suo primo strumento. Eccolo quindi seduto al pianoforte intonare i primi temi; così, in rapida successione, abbiamo ascoltato, tra gli altri, una cover del brano “Ama Fi Intizarak” eseguito originariamente dalla cantante egiziana Uum Kulthum, il suo più grande successo in termini di riproduzioni su Spotify (circa 22 milioni) “True Sorry”, “Lily Will Soon Be a Woman” dedicata alla crescita della sua primogenita, l’inno alla libertà “Red and Black Light”, “Happy Face”, tributo al grande Louis Armstrong…

Ma, indipendentemente dal brano, Ibrahim fa cantare il pubblico intero: lui stesso intona una melodia e poi la fa ripetere al pubblico, lo dirige con le mani per indicare la coda del motif, fa fare esercizi di vocal coaching per cercare di ottenere un effetto vocale simile a quello di Armstrong durante “Happy Face”, nel corso di “Red and Black Light” fa cantare al pubblico la melodia principale mentre lui e Delporte improvvisano alla chitarra e alla tromba, quasi si trattasse di un’enorme loopstation umana, per poi concludere facendo spegnere tutte le luci della sala, e affidando l’illuminazione alle torce degli smartphone degli spettatori, come le grandi popstar nei concerti agli stadi… e lui, al solito, pronto ad improvvisare sull’esperimento dirigendo con le mani il pubblico per dare gli accenti, le pause e quant’altro – il tutto condito da battute, aneddoti e spiegazioni sempre pertinenti. E questo esperimento, se si prendono come unità di misura gli applausi e le ovazioni ricevute da Maalouf dopo l’esecuzione di ogni singolo pezzo, può dirsi più che riuscito.

Un’ultima notazione: verso la fine, come accennato, entra in scena l’alto sassofonista rumeno Mihai Pirvan con cui Maalouf esegue gli ultimi due pezzi, “Feeling Good” (in origine eseguita con il rapper Dear Silas), e “Back to Baskinta”, comparsa nei film “In viaggio con Jacqueline” (2016) e “Regine del campo” (2020); il sassofonista evidenzia una tecnica prestigiosa mentre il timbro non ci ha del tutto convinti, un po’ troppo metallico, probabilmente anche per effetto dell’amplificazione.

Come bis un’altra trascinante composizione del leader, “All I Can’t Say”.

 

Gerlando Gatto

📷 Courtesy © Fondazione Musica per Roma / Musacchio, Ianniello, Pasqualini, Fucilla

I nostri cd: in forma di Duo

I NOSTRI DISCHI 
In forma di duo  

Che lingua l’italiano! Cambi la doppia consonante in una parola, per esempio duello, simbolo di lotta/contrasto ed eccola diventare duetto che, soprattutto in musica, significa il suo esatto contrario. Il duettare può infatti evocare interscambio, dialogo, accoppiata, rendez-vous, insomma comunicazione duale, frontale, collaterale, duplice, finanche effusiva o derivante da abbinamento, binomio, affiancamento… in musica può rappresentare incontro ravvicinato di tipo a sé stante, sintonizzazione di antenne sensibili non lontane fra due emittenti-riceventi messaggi sonori destinati ad incrociarsi ed a generarne uno nuovo, diverso a seconda di chi cosa dove come quando lo ha prodotto. A seguire ecco alcuni album “in forma di duo” (in qualche caso con ospiti) quale esempio delle tante opportunità che il jazz può offrire al riguardo.

Olivia Trummer-Nicola Angelucci, Dialogue’s Delight, Flying Spark.
I dialoghi, in quanto genere letterario, nascono con Platone. A livello musicale si potrebbe partire dal seicento quando il primo melodramma, offrendo nuovo spazio alla vocalità nell’azione teatrale, allarga la scena al “parlato” con musica. Nel jazz, sin dagli inizi, il dialogo (a due), anche quello strumentale, ha rappresentato una forma primigenia di interplay seppure con un certo grado di variabilità simbiotica. Rientra in quel novero il recente album, marchiato Flying Spark, della coppia formata dalla pianista-vocalist Olivia Trummer e dal batterista Nicola Angelucci, ambedue compositori. Il titolo Dialogue’s Delight è già di per sé una dichiarazione di principio, La gioia e il diletto del dialogo lo si avverte nella garbata apertura affidata ad una “When I Fall In Love” reinterpretata con una modifica del giro di accordi che cambia i connotati al famoso standard di Victor Young, con lo spirito innovativo replicato più avanti in “Lil’ Darlin” di Neal Hefti.  Al disco partecipa in qualità di ospite il fisarmonicista Luciano Biondini in quattro delle tredici tracce totali (French Puppets, Valerio, Inside The Rainbow, Portoferraio).  C’è altresì da sottolineare, della virtuosa tedesca, la bellezza delle liriche da lei scritte. I testi sono riportati nel booklet compreso quello “manifesto” che dà titolo al cd. Di Angelucci spiccano, oltre alle doti di scrittura, la saggia ponderazione delle bacchette, con un tempo che viene “enunciato” in base ai livelli espressivi della partner, “calato” pienamente nella parte che con accorto gioco di ruolo il musicista si è autoassegnato.

Baba Sissoko – Jean-Philippe Rykiel, Paris Bamako Jazz, Caligola
E’ un avventuroso rally sonoro in undici tappe l’album Paris Bamako Jazz,  un “percorso”, su colori Caligola Records, del percussionista Baba Sissoko copilota il pianista francese Jean-Philippe Rykiel (n.b.: i ruoli sono invertibili). La collaborazione artistica, già sperimentata in Griot Jazz, della stessa etichetta discografica, è divenuta liaison caratteriale cementata in amalgama fra percussioni e keyboards, sovrastate dalla voce cavernosa dell’italo/maliano. L’ideale maratona che congiunge Pirenei e Hombori Tondo, Senna e Niger è un itinerario costellato da “stazioni” su cui sono situate icone di familiari ed amici, luoghi e genti, in una visione condivisa che il meeting incornicia di note. E’ un jazz bluesato con spiragli world man mano sempre più accentuati ed accentati nel costruire un assetto d’insieme con substrato di ipnotiche iterazioni e vertiginose circolarità che attutiscono le possibili asprezze di un tracciato divenuto, strada facendo, liscio e fluente.

Greg Lamy- Flavio Boltro, Letting Go, Igloo Records

Difficile prevedere a monte il risultato musicale dell’accostamento fra la tromba di Flavio Boltro e la chitarra dell’americano Greg Lamy. Per riscontrarlo la “prova regina” sta nell’album Letting Go edito da Igloo Records a nome dei due jazzisti a loro volta affiancati dal bassista Gautier Laurent e dal batterista Jean-Marc Robin.  Ne vien fuori un mix che esalta le qualità dei leaders, in particolare la fluidità armonica di Lamy, quasi pianistica nell’accompagnamento, e la abilità nel tirar fuori dal cappello umori rock e dis/sapori jazz “lasciati andare” con una sorta di understatement che ben si amalgama con quel certo senso cool (inteso anche come “di tendenza”) del trombettista. Quest’ultimo, lo diciamo per quanti sono abituati alle ricerche genetiche del Dna artistico, potrebbe far pensare a tratti a Wheeler o Baker per la pensosità che riesce ad imprimere, tramite il movimento delle labbra e delle dita, al proprio strumento. Ma Boltro è Boltro ed è una riconosciuta autorità del nostro trombettismo con colleghi di generazione che si contano sul palmo di una mano. La sua unicità si sposa felicemente con la forte personalità di Lamy nelle dieci tracce del cd in parte a sua firma, in parte di Boltro con la chiusura affidata a Chi tene ‘O mare di Pino Daniele. Un omaggio che consegna e riconferma ancora una volta il cantautore partenopeo al songbook jazzistico.

Duo Improprium, Incontro, Dodicilune Records.
La coppia di musicisti siciliani formata dal flautista Domenico Testai e dal fisarmonicista Maurizio Burzillà, in arte Duo Improprium, presenta l’album Incontro edito da Dodicilune Records. Il lavoro intende dar corpo ad un progetto che vede allineati due strumenti che non ricorrono né si rincorrono spesso nel jazz. I quali, a dire il vero, non si dimostrano affatto “impropri” se messi assieme in quanto uniscono la capacità lirico-tematica del flauto a quella di strutturazione armonica e ritmica della fisa. Già nell’incipit del disco, “Tango for Cinzia”, appaiono più che “consoni” nella “proprietà” di linguaggio musicale sia melodica che improvvisativa (un’altra figura femminile affiora nell’altro brano “Luiza”). Il loro approccio classico si evidenzia appieno in “Suite n. 1” e in “Allegretto Fugato” così come il loro “spanish tinge” si rivela senza veli nell’andante “Badambò”. Nel tarantellato “Improprium” è la vena popolare a rigonfiarsi di echi etnici ed è forse questo il momento più “proprium” che caratterizza la particolarità del duo in questione.

B.I.T., Equilibrismi, Filibusta Records.
Il duo B.I.T. al secolo la sassofonista Danielle Di Majo e la pianista Manuela Pasqui  licenzia, per i tipi di Filibusta Records, Equilibrismi, album che segue di un biennio Come Again, della stessa label. In effetti trattasi di un “duo plus…” poiché in alcune tracce sono presenti la vocalist Antonella Vitale e il sassofonista Giancarlo Maurino di cui sono eseguiti due brani, “Meteo” e “Um Abraço”.  Si tratta di un lavoro estremamente lirico e bilanciato, nel solco del precedente. Qui la Pasqui sigla cinque composizioni su otto a partire dalla prima, “Green Tara”, su ritmo “(s)latin” fino a “For Kenny” presente anche sulla rete per chi volesse “visionarla”. Un pianismo colto e sensibile, il suo, che stimola la Di Majo nel lib(e)rare il suono, oltre che a soprano ed alto, anche al flauto, come in “Jeanne del Belleville”. La musica del duo, avvinta come in “Edera”,  in “L’equilibrista” pare camminare su fibre filiformi, in bilico su un centro di gravità che le consente di procedere sulla corda armonica tesa ancora per più “nodi”,  fino a quello conclusivo, “Hand Luggage”, autrice la Di Majo.

Francesca Leone- Guido Di Leone, Historia do samba, Abeat Records
Si vabbè la festa il carnevale ma il samba ha significato in Brasile storicamente “la voce di chi era stato sempre zittito dal suo status sociale, un modo per affermarsi nella società” come scrive Lisa Shaw.  C’è dunque un aspetto politico e sociale in tale forma musicale che ha radicata origine nella stessa origine africana e che non va sottaciuto.  Ed è un fatto che il samba, a livello musicale, con la sua speciale divisione ritmica che spinge alla danza, sia stato ispiratore di musiche di grande suggestione.  Ce ne danno un saggio, in un prezioso Cirannino formato cd edito da Abeat Recors, la vocalist Francesca Leone e il chitarrista Guido Di Leone. Historia do Samba è una “summa” di samba e musica carioca allargata cioè fino a choro e bossa, scritta da autori prestigiosi come Lyra, Bonfa, Jobim, Gil, Madi, Hernàndez, Menescal, Valle compresi i nostri Rota, Calvi, i medesimi due interpreti in veste di compositori.  Il disco, che vanta come ospite l’Oneiros String Quartet, annovera anche dei “trapianti” in chiave “sambista” di hits quali “La vie en rose”, “Cerasella”, “Everything happens to me”, in quanto, volere o volare, tutto si può sambare quando il samba si innesta nel jazz.

Stefano Onorati & Marco Tamburini, East of the Moon,   Caligola Records
L’album East of the Moon, è firmato da Stefano Onorati e Marco Tamburini. Il che già di per sé, essendo il disco – marchiato ancora e meritoriamente da Caligola Records – cofirmato dal compianto trombettista cesenate, rappresenta un evento a livello discografico. Vede la luce un lavoro “notturno” a suo tempo registrato durante le ore del buio quasi a voler iperscrutare la luna ed a riceverne inflessioni da riflettere nel suono. La registrazione risale a quando il trio elettrico Three Lover Colours stava lavorando alla sonorizzazione di “Le voyage dans la Lune”,- episodio inserito in “La magia del cinema” – sia in “Sangue e Arena”, dvd usciti in edicola per “L’Espresso” nella primavera del 2010. In quell’occasione peraltro non era presente il batterista del trio Stefano Paolini. Oggi quella musica si riconferma di lunare astralità nel descrivere il lato orientale di quel pianeta. Pare a volte eclissarsi quindi riemergere per successivamente rituffarsi nell’oscurità. Sono cinque le tracce – “Cantico”, “Lunar Eclipse”, “Black and White”, “East of the Moon”, “As It Was”, in cui la coppia tastiere-tromba è libera di improvvisare, trascinando e lasciandosi trascinare da quei chiarori che ispirarono Beethoven e Glenn Miller e dalla Moon che vari musicisti hanno visto blue o dark a seconda della prospettiva, anzitutto stilistica. Quella di Onorati e Tamburini avvolge e coinvolge chi alla loro musica si rivolge.

Dario Savino Doronzo- Pietro Gallo, Reimagining Aria, Digressione Music
Aprire l’opera come una scatoletta di tonno per estrarne il cuore melodico
principale, l’aria. Nell’album “Reimagining Aria” (Digressione Music) il flicorno soprano di Dario Savino Doronzo e il pianoforte di Pietro Gallo puntano la traiettoria su temi melodici espurgandoli di orpelli retorici, quelli ritenuti inutili, tenendoli peraltro ancorati alle rispettive basi armoniche. Felice la scelta per il repertorio   di   arie   di   compositori   sei/settecenteschi   meno   frequentati   dai concertisti come Antonio Cesti, Antonio Caldara, Francesco Cavalli unitamente ad   altri   più   gettonati   dai   concertisti   come   Alessandro   Scarlatti,   Benedetto Marcello,   Nicola   Porpora,   Giulio   Caccini,   per   un   totale   di   otto   arie   totali contenute   nell’album   arricchito   dalla   presenza   del   clarinettista  Gabriele Mirabassi in “Sebben Crudele” (Caldara) , “O cessate di piagarmi” (Scarlatti), “Dall’amor più sventurato” (Porpora). Lo stampo antico delle atmosfere viene velato dal piglio esecutivo antibarocco e da ricorrenti sonorità jazz. Ne vien fuori, ancora una volta dopo “Reimagining Opera” del 2020 (quando l’ospite era Michel Godard al serpentone), un lavoro originale, audace in “Quella fiamma che m’accende” di Benedetto Marcello che ritrae “una habanera che riecheggia   paesaggi   e   culture   lontane   attraverso   calde   melodie impressionistiche” e dall’afflato romantico in “Tu c’hai le penne, amor” di Giulio   Caccini.   Al   cui “recitativo accompagnato” si   potrebbe   associare idealmente lo   stile  del  duo   (plus   guest)   che   reimmagina   l’aria   d’opera   in quanto   intensa   esposizione   lirico-strumentale   su   una   solida   struttura   di accordi, ma con aggiunta di elementi reinterpretativi che ripensano spunti tratti da mezzo millennio di storia della musica.

Amedeo Furfaro

DA MARTEDÌ 5 SETTEMBRE A DOMENICA 10 SETTEMBRE, LA DECIMA EDIZIONE DI FRANCAVILLA È JAZZ

Quest’anno Francavilla è Jazz (Francavilla Fontana, provincia di Brindisi) festeggia il decennale. Un traguardo importantissimo quello raggiunto dal festival, grazie al suo deus ex machina Alfredo Iaia, direttore artistico della rassegna, al costante ed encomiabile impegno culturale ed economico dell’Amministrazione Comunale di Francavilla Fontana, che investe sempre più risorse per questo fiore all’occhiello dell’estate francavillese, e al prezioso contributo degli sponsor privati che crescono numericamente di anno in anno per sostenere la kermesse. Anche la decima edizione di Francavilla è Jazz sarà all’insegna di protagonisti assoluti del circuito jazzistico nazionale e mondiale.

Piazza Giovanni XXIII, Largo San Marco e Corso Umberto I saranno le location dei sei concerti, tutti a ingresso gratuito come da tradizione, in calendario per il decennale.

Martedì 5 settembre alle 21:00 (orario d’inizio di tutti i concerti) sarà Richard Galliano New York Tango Trio, in Piazza Giovanni XXIII, ad aprire i battenti del festival. Galliano, uno fra i più grandi fisarmonicisti jazz degli ultimi cinquant’anni, calcherà il palco insieme ai formidabili Adrien Moignard (chitarra) e Diego Imbert (contrabbasso). Il trio alla testa del musicista francese presenterà Cully 2022, suo nuovo disco in cui sono presenti composizioni originali e tributi ad Astor Piazzolla. Un connubio, dunque, fra jazz e tango, ad alta intensità emozionale.

Si proseguirà il 6, a Largo San Marco, con Lisa Manosperti – “Omaggio a Mia Martini”, un caloroso tributo in chiave jazz della raffinata cantante pugliese a una fra le interpreti italiane più amate di sempre. Con lei, i talentuosi Aldo Di Caterino (flauto) e Andrea Gargiulo (pianoforte).

Il 7, in Corso Umberto I, D.U.O. Francesca Tandoi (voce e pianoforte) & Eleonora Strino (voce e chitarra), due giovani e brillanti musiciste che renderanno omaggio alla tradizione jazzistica, segnatamente al bebop, fra standard e proprie composizioni originali.

Venerdì 8, in Piazza Giovanni XXIII, sarà la volta di Enrico Pieranunzi Trio. Questa formazione diretta da uno fra i più conosciuti e acclamati pianisti jazz presenti sulla scena mondiale, completata da due eccezionali partner del calibro di Thomas Fonnesbaek (contrabbasso) e Roberto Gatto (batteria), proporrà un repertorio di sue composizioni originali unitamente ad alcuni standard della tradizione jazzistica, per un live garanzia di eccelsa qualità.

Sabato, ancora in Piazza Giovanni XXIII, Chico Freeman & Antonio Faraò Quartet: il primo, una leggenda vivente del sassofono jazz, il secondo una punta di diamante del piano jazz particolarmente osannato all’estero. A completare la sezione ritmica, due eccellenti compagni di viaggio come Makar Novikov (contrabbasso) e Pasquale Fiore (batteria). Pietre miliari (ri)arrangiate dell’immenso John Coltrane e brani originali autografati da Freeman e Faraò coinvolgeranno il pubblico in un concerto sinonimo di travolgente energia comunicativa e pura adrenalina.

Domenica 10 settembre, sempre in Piazza Giovanni XXIII, i riflettori si spegneranno con Gegè Telesforo – “Big Mama Legacy”, nuovo progetto di uno fra i più famosi cantanti jazz italiani degli ultimi quarant’anni. Accompagnato da un quintetto di giovani talenti della scena jazzistica italiana formato da Matteo Cutello (tromba), Giovanni Cutello (sax alto), Christian Mascetta (chitarra), Vittorio Solimene (organo Hammond e tastiere) e Michele Santoleri (batteria), il noto artista di origine foggiana presenterà un repertorio incentrato su un personale tributo al blues e al sound delle formazioni jazz della fine degli anni Cinquanta.

Gerlando Gatto

Udin&Jazz 2023: all’insegna del Jazz d’autore

Dopo aver assistito alle ultime giornate di Udine Jazz 2023 mi sono vieppiù radicato nel convincimento che il Festival friulano, che vede da 33 anni alla direzione artistica Giancarlo Velliscig, sia oggi uno dei pochi ad aver veramente diritto di cittadinanza nell’universo festivaliero che oramai da anni accompagna l’estate degli italiani dalle Alpi alla Sicilia.
I perché sono molteplici: innanzitutto il giusto peso dato ai musicisti italiani e friulani in particolare; in secondo luogo, il tentativo, spesso riuscito, di allargare i confini del discorso oltre i limiti strettamente musicali per approdare a tematiche di carattere sociale che interessano anche chi di musica poco si occupa. E’ stato questo, ad esempio, il caso della mattinata dedicata al problema del rapporto tra jazz e donna approdato rapidamente alla più larga tematica del rapporto tra donna e mondo del lavoro.
Ciò, ovviamente, senza alcunché togliere alla qualità della musica che si è mantenuta su livelli più che buoni con punte di assoluta eccellenza. Tra queste punte va annoverato senza dubbio alcuno il concerto del quintetto ‘Eternal Love’ di Roberto Ottaviano al sax soprano con Marco Colonna ai clarinetti, Alexander Hawkins al pianoforte, Giovanni Majer al contrabbasso e Zeno De Rossi alla batteria. L’occasione mi è particolarmente gradita per ribadire un concetto che porto avanti oramai da tanti anni: Ottaviano è uno dei più grandi musicisti che il panorama jazzistico internazionale possa oggi vantare e che quindi non ha raccolto tutto ciò che effettivamente merita.

Quest’ultimo lavoro, presentato anche a Udine, lo conferma appieno: Ottaviano, prendendo spunto dalla spaventosa realtà che ci circonda, caratterizzata da intolleranza, flussi migratori che non si fermano, guerre assurde si rivolge alla musica e alla sua capacità di accomunare anziché dividere, per innalzare un sentito omaggio alla spiritualità africana e lo fa rileggendo con autentica passione le musiche di Don Cherry, Charlie Haden, John Coltrane e Dewey Redman. Ma attenzione, nelle interpretazioni di Ottaviano, nulla c’è di calligrafico: il musicista pugliese è in grado di rileggere queste storiche partiture facendole proprie e quindi rivitalizzandole alla luce di un’esperienza di molti, molti anni, in ciò perfettamente coadiuvato da un gruppo che funziona magnificamente, in cui ogni segmento sonoro si incastra alla perfezione nel puzzle magnificamente ideato dal leader.

Le positive sensazioni lasciatemi dal concerto di Ottaviano sono state ribadite, ma con alcuni distinguo, poche ore più tardi dal concerto di Matteo Mancuso in trio con Stefano India al basso elettrico e Giuseppe Bruno alla batteria. Siciliano, classe 1996, figlio d’arte, Matteo è considerato l’enfant prodige della chitarra jazz italiana ed in effetti presenta una tecnica davvero straordinaria. Ma ovviamente ciò non basta per fare di un buon musicista, un vero artista: ci vuole ben altro. Ed in effetti l’inizio del concerto non mi aveva convinto dato l’impianto sonoro più vicino ai concerti pop-rock che non a quelli jazz. Poi il giovane chitarrista ha rotto gli indugi ed ha presentato una bellissima versione di ‘Black Market’ che ha spinto gli astanti a tributargli una vera e propria ovazione.

Ora, come si diceva, Mancuso è sostanzialmente agli inizi ma le premesse sono più che buone: adesso dovrà dimostrare non solo di avere una digitazione velocissima, ma soprattutto di far muovere quelle dite secondo idee ben precise (come in “Black Market”) e di essere capace di scrivere e arrangiare in maniera acconcia. Insomma, lo aspettiamo con curiosità a prove più impegnative.

Il giorno dopo di scena un altro artista siciliano ma oramai udinese d’azione: il pianista Dario Carnovale con Lorenzo Conte al contrabbasso, Sasha Mashin alla batteria e Flavio Boltro alla tromba. L’incontro tra uno dei migliori trombettisti italiani ed un pianista eclettico, talentuoso, prorompente come Carnovale prometteva scintille… e così è stato. Alternando pezzi originali a brani ben conosciuti il gruppo ha entusiasmato il numeroso pubblico presente.

Definire il loro stile non è impresa facile, ammesso poi che sia così importante. Comunque, per dare solo un’idea anche a chi non ha visto il concerto, si potrebbe dire che la loro musica si inserisce nell’alveo di un moderno main stream ora ricco di lirismo ora carico di coinvolgente energia. Ovviamente merito della bella riuscita del concerto è sicuramente dei due leader…ma anche della sezione ritmica con un Conte cha ha fatto capire a tutti perché ha suonato accanto a mostri sacri quali Art Farmer, Bob Sheppard e Enrico Rava mentre il batterista russo Sasha Mashin si è confermato uno dei musicisti più interessanti a livello europeo.

In serata tutti al Castello per la serata brasiliana accolta, more solito, con favore dal numeroso pubblico e preceduta in mattinata da una dotta conversazione sulla musica brasiliana guidata da Max De Tomassi, conduttore di Radio1RAi e vero esperto della materia. Due gli appuntamenti in programma. Dapprima si presenta sul palco per l’atteso solo-piano Amaro Freitas indossando un improbabile completino da spiaggia che avrebbe fatto invidia ai miei amici di Capalbio. Comunque, abbigliamento a parte, Freitas ha confermato le attese di quanti vedono in lui il nuovo esponente dell’odierno jazz brasiliano. Dotato di un’energia prorompente, che comunque riesce a dosare grazie ad un approfondito studio sullo strumento, Freitas si lascia andare ad una serie di improvvisazioni, molto giocate sul lato percussivo, che catturano l’attenzione dell’ascoltatore, preso per mano e condotto alla scoperta della storia e della filosofia della gente brasiliana attraverso la musica. In effetti obiettivo del nuovo lavoro del pianista – “Sankofa” – presentato a Udine è proprio quello – per esplicita ammissione dello stesso Freitas – di “capire i miei antenati, il mio posto, la mia storia come uomo di colore”.

C’è riuscito? Onestamente non posso dirlo in questa sede ma se avremo occasione di intervistarlo glielo chiederò; quel che è certo è che Freitas continua ad evolversi stilisticamente parlando e a rendere il suo discorso sempre più convincente e coinvolgente. A quest’ultimo proposito bella la conclusione del concerto con un brano dolce dedicato alla mamma che è stato supportato dal coro di tutto il pubblico.

Completamente diverso il discorso sul secondo concerto che vedeva sul palco una vera e propria icona non solo della musica brasiliana ma della musica in generale: Eliane Elias pianoforte e voce con accanto il compagno di vita nonché personaggio di assoluto rilievo nel mondo del jazz, Marc Johnson al contrabbasso, Leandro Pellegrino alla chitarra e Rafael Barata alla batteria. Per introdurre la Elias a quei pochi che ancora non la conoscessero, basti dire che nel 2022 ha vinto il Grammy come Miglior Album Latin Jazz con “Mirror Mirror” straordinario album di duetti con Chick Corea e Chucho Valdes. A Udine la Elias ha sciorinato solo una piccolissima parte del suo vastissimo repertorio facendo intendere come l’appellativo di “The Bossa Queen” sia ancora oggi più che meritato.

La classe esecutiva rimane cristallina mentre il vocale denuncia qualche piccola crepa che non inficia la bontà della performance impreziosita anche dall’altissimo livello degli altri componenti il quartetto. Tra questi assolutamente strabiliante il batterista Rafael Barata con la Elias da oltre dieci anni ma anche con Dianne Reeves e Jaques Morelenbaum. Barata è davvero fenomenale per come riesce a tenere in mano le redini del flusso ritmico che rimane costante per tutta la durata del concerto senza un attimo di stanca, senza che mai si avverta una qualche sensazione di vuoto o di scansione men che perfetta. Risultato: alla fine del concerto pubblico in piedi e meritatissima ovazione.

Il 16 al Giangio Garden Parco Brun esibizione del “Green Tea in Fusion” al secolo Franco Fabris Fender Rhodes e synth, Gianni Iardino sax alto e soprano, flauto, synth, Maurizio Fabris percussioni e vocale e Pietro Liut basso elettrico. Il quartetto, costituito nel 2022, ha già al suo attivo ben due CD e a quanto ci risulta è già in lavorazione il terzo. Il gruppo sta assumendo sempre più visibilità e consensi grazie ad una proposta musicale di livello caratterizzata da una raffinata ricerca melodica e da un impianto ritmico tutt’altro che banale.

Questi elementi assumono ancora maggior forza ove si tenga conto che il repertorio è composto unicamente da pezzi originali che ben arrangiati danno la possibilità ai singoli (tutti musicisti esperti eccezion fatta per il giovane ma bravissimo bassista) di evidenziare le proprie potenzialità. Con specifico riferimento al concerto di Udine, la musica è entrata in connessione con la performance di action painting dell’artista Massimiliano Gosparini che ha prodotto una bella tela donata al gruppo alla fine del concerto.

In serata, in piazza della Libertà, quella che io considero la più bella sorpresa del Festival: organizzata da Cinemazero, la proiezione del film muto “The Freshman – Viva lo sport” diretto da Sam Taylor e Fred Newmeyer, con Harold Lloyd e la colonna sonora eseguita dal vivo dalla Zerorchestra. Per quanto mi riguarda è stato sinceramente emozionante vedere scorrere sullo schermo le immagini di un bel film magnificamente commentate da una splendida orchestra tutta costituita da musicisti del Triveneto, tra cui Mirko Cisilino tromba e trombone, Francesco Bearzatti sax tenore, Luca Colussi batteria, Juri Dal Dan piano, Luca Grizzo percussioni.

La Zerorchestra nasce su iniziativa di Cinamezero, in occasione del centenario della nascita del cinema, come laboratorio per la scrittura di nuove partiture musicali per quelle pellicole che rappresentano il repertorio del cinema muto spesso ignorate dal grande pubblico. Io non so se il risultato è sempre pari a questo di Udine, non so se sia meglio l’orchestra nascosta agli occhi del pubblico o viceversa…quel che so è che a Udine la serata è stata davvero unica, magnifica, merito, a mio avviso, soprattutto dell’orchestra che ha saputo cogliere come meglio non si potrebbe gli stati d’animo dei personaggi. Di qui interventi solistici sempre acconci, misurati, pertinenti mentre i pieni orchestrali suggellano alcuni dei passaggi più significativi del film.

Il 17 luglio si apre, a Casa Cavazzini Museo di Arte Moderna, con un duo di improvvisazione totale costituito da Massimo De Mattia al flauto e Giorgio Pacorig al pianoforte. Devo confessare che la musica totalmente improvvisata non è di certo in cima ai miei gusti ma, ciononostante, Massimo De Mattia rientra tra i miei musicisti preferiti. Il perché non è facilissimo da spiegare: la sua musica mi soddisfa, ogni volta che la ascolto sento come se il flusso della vita moderna con le sue insidie, le sue mille sfaccettature, i suoi dolori, le sue gioie fossero racchiuse nelle note emesse dal suo flauto il cui discorso rimane sempre intellegibile a chi sappia ascoltare.

Ricordo qualche anno fa, sempre a Udine, che, mentre De Mattia stava suonando all’aperto, cominciarono a sentirsi distintamente il suono di campane e il cinguettio di uccelli. Bene, il flautista fu talmente bravo da inserire questi elementi nella sua musica ottenendo degli effetti semplicemente straordinari a dimostrare che la musica può essere fatta di moltissimi elementi. A Udine, in quest’ultimo concerto, ha dimostrato ancora una volta tutte le sue potenzialità duettando egregiamente con Pacorig, altro esponente di rilievo dell’area improvvisativa. Non a caso flauto e pianoforte si sono integrati alla perfezione con un gioco di rimandi, suggestioni, tensioni e distensioni che denotano quanto profonda sia la conoscenza della musica da parte di questi due artisti.

In serata altro evento clou del Festival: il concerto della sassofonista Lakecia Benjamin. Devo dire immediatamente che l’artista ha entusiasmato i numerosi spettatori grazie ad una performance caratterizzata da straordinaria energia, da un sound alle volte “sporco” a richiamare i più grandi esponenti del soul, e da un repertorio che ha toccato da molto vicino i grandi nomi del jazz. Ecco, quindi, l’immortale “A Love Supreme” riproposto con sincera partecipazione anche se, ovviamente, nessuna interpretazione può raggiungere il pathos, la drammatizzazione, l’aspirazione verso il divino così ben rappresentata da Coltrane. A Udine l’alto sassofonista ha presentato il suo ultimo lavoro – “Phoenix” – che racchiude una doppia metafora: da un lato racconta le cadute e le risalite di New York città in cui è cresciuta, dall’altro si riferisce ad una sua esperienza personale vissuta nel 2021 quando sfuggì miracolosamente alla morte dopo un grave incidente stradale.

A proposito del concerto, qualche commentatore ha posto l’accento sulla mise dell’artista lodandone l’indubbia eleganza. Apriti cielo! Sui social si è scatenata una dura polemica e qualche musicista (o forse pseudo tale) si è spinta fino ad ipotizzare che la scelta di presentarsi sul palco ben vestiti sia vetero borghese se non addirittura “fascio” (questa la parola usata). E poi ci meravigliamo perché tanti giovani che nulla capiscono di musica, che non sanno intonare neppure due note di seguito riescono ad avere un vasto pubblico: basta vestirsi da straccioni, parlare un italiano approssimato e il gioco è fatto.

Martedì 18 luglio ultima giornata funestata da una breve tempesta di vento sufficiente, comunque, a mandare per aria tutte le sedie già approntate nello spiazzale del Castello per il concerto finale di Pat Metheny. Fortunatamente il tempo è volto al meglio e quindi il concerto si è potuto svolgere regolarmente seppure iniziato con un’oretta di ritardo. E personalmente ho ritrovato il Metheny che negli ultimi anni avevo smesso di seguire data l’involuzione stilistica che a mio avviso aveva caratterizzato le ultime produzioni del chitarrista.

A Udine Pat è tornato sui suoi passi e perfettamente coadiuvato da giovani musicisti, quali Chris Fishman al pianoforte e Joe Dyson alla batteria a costituire il “Side-Eye Trio”, ha riproposto alcuni dei suoi pezzi storici quali “Bright Size Life”, “Better Days Ahead” e “Timeline” lasciando perdere complicati meccanismi e riproponendo quel sound nutrito da tanta tecnica, tanto studio ma anche tanta sincerità d’ispirazione, che l’aveva contraddistinto negli anni scorsi. Entusiasta la reazione del pubblico che ha calorosamente applaudito ogni brano e che dopo l’ultimo bis ha regalato all’artista una più che meritata standing ovation.

Gerlando Gatto