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Si è conclusa da poco “Umbria Jazz” che ha festeggiato i suoi primi quarant’anni. Com’era nelle logica delle previsioni, gli “aedi di corso Vannucchi” hanno fatto a gara per evidenziare la grandezza del Festival, la sua “straordinaria” importanza nell’ambito delle manifestazioni di questo genere, il contributo fondamentale che avrebbe portato alla diffusione del jazz nel nostro Paese. Abbiamo così letto articolesse di vario genere, sia sui quotidiani sia sulle riviste specializzate, inneggianti ad “Umbria Jazz”, una sorta di “coro bulgaro” sotto certi aspetti imbarazzante.
Ma è mai possibile che nessuno si ponga un sia pur minimo interrogativo sulla valenza del Festival, nell’attuale quadro complessivo?
Pur riconoscendo gli indubbi meriti che “Umbria Jazz” ha avuto nel passato, oramai da tempo ci pare che il Festival non risponda più ad alcuna esigenza particolare salvo quella di affastellare il maggior numero possibile di big da portare all’attenzione degli spettatori. Il tutto condito da un evento “particolare” che quest’anno era il duo Chick Corea / Herbie Hancock mentre negli anni scorsi si trattava di concerti che poco o nulla avevano a che fare con il jazz, programmati solo per fare cassetta.
Così quest’anno si sono ascoltati tanti ottimi musicisti quali, tanto per fare qualche nome, Branford Marsalis, Jan Garbarek, Paolo Fresu e Omar Sosa, Hiromi… ma qual è il filo logico che accomuna tutti questi artisti? Nessuno… salvo forse l’essere bravi! Ma non occorreva certo aspettare “Umbria Jazz” per ascoltarli dato che – eccezion fatta per il duo sopra citato – quasi tutti gli altri erano stati sentiti ampiamente negli scorsi mesi.
Per non parlare di alcuni veri e propri “errori” di programmazione: perché richiamare Jarrett quando è evidente che tra la città umbra e il bizzoso (seppur geniale) pianista si è oramai instaurato un clima di reciproca insopportabilità? Così quanti hanno sborsato una ingente cifra per ascoltare l’artista di Allentown, han dovuto sopportare l’ennesima “trovata” di un musicista che, avvicinandosi ai 70, diventa sempre più capriccioso e francamente insopportabile (questa volta ha preteso che il concerto si svolgesse nel buio più totale).
Il fatto è che oramai da tempo nel nostro Paese si è perso di vista qualsivoglia obiettivo culturale. Si predica bene e si razzola malissimo. Così, tanto per fare un esempio, si parla bene di certi artisti ma poi nei festival “importanti” mai vengono invitati; in momenti di crisi come questi, in cui i soldi pubblici e privati latitano, invece di chiamare i soliti noti si potrebbe cambiare priorità e cominciare ad investire sui giovani facendoli conoscere al grande pubblico, stimolando la curiosità di chi ascolta, facendo capire che l’universo jazzistico non si limita a quei venti, trenta nomi che ogni anno ritroviamo ad Umbria Jazz.
Ma sappiamo benissimo che, purtroppo, la nostra resterà voce inascoltata e che tutto proseguirà come prima, con l’ennesimo ritorno di Jarrett condito dall’ennesima scena madre.
Il Festival è da anni un montarozzo di eventi triti e ritriti in cui l’importanza data alla proposta artistica è sostanzialmente inesistente laddove si gestiscono contratti faraonici e fondi pubblici.Del resto la cultura musicale del “Direttore Artistico” lascia alquanto a desiderare,specialmente per ciò che concerne le nuove proposte italiane ed a maggior ragione quelle radicate sul territorio dove,aggiungo a malincuore,ci sono realtà semi-sconosciute di indubbio valore.Da anni musicisti come Daniele Mencarelli e Cristiano Arcelli stanno facendo benissimo.Ma se almeno loro sono stati a volte coinvolti dal Festival altri sono totalmente ignorati.Un nome per tutti è quello di Simone Gubbiotti che ha recentemente pubblicato il suo nuovo disco per Dot Time Records,New York,con la collaborazione di Peter Erskine e Darek Oles,un lavoro che ha una storia che è riduttivo definire toccante come unica è la storia dello steso musicista.Mi piacerebbe vedere sui plachi dei Festival qualcosa che trascenda la tecnica o la nomea,mi piacerebbe trovare un contenuto profondo nelle proposte,ma è la logica della vendita e dei numeri che sta uccidendo la cultura…e Umbria Jazz è la madre di questo atteggiamento.
Tutte critiche che condivido e di cui ho ampiamente scritto sul mio blog Mondo Jazz, praticamente ad ogni edizione da una diecina d’anni a questa parte. Ma i comunicati di Uj parlano solo di incassi, più biglietti venduti, più spettatori, in una logica oramai definitivamente solo commerciale in cui si spacciano rock star e cantautori come male necessario per allargare il giro e poi invitare anche jazzman meno famosi. Mah, sarà ma a me pare che l’ottica sia stata capovolta e non da ora: più spettatori faranno felici gli sponsor ma se la qualità complessiva peggiora, se gli ospiti importanti sono pescati da anni tra i soliti 15-20 nomi, se manca un filo conduttore, se mancano i nuovi protagonisti americani ed europei allora cosa rimane ? Con tutto il rispetto per le scelte di Pagnotta, mi sembra proprio strimizito qualitativamente e ben poco stimolante il bilancio artistico per il più importante festival italiano