Madame Guitar numero 10, a Tricesimo (Udine)

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Nelle piccole ed eleganti cittadine di provincia come Tricesimo, a Nord di Udine, il vivere scorre lento, a misura d’uomo.
E poi arriva “Madame Guitar”, il festival internazionale di chitarra acustica, alla sua decima edizione: 23 concerti in 3 giorni e 32 artisti da 4 continenti… e il tempo si trasforma dallo scorrere logico e sequenziale, che i greci chiamavano Kronos, in Kairos, “tutto ciò che c’è meglio di qualcosa” (Esìodo), un’opportunità, un tempo che consente di vivere esperienze, possibili solo in quel dato momento. Così è accaduto dal 25 al 27 settembre, dove solo chi c’era può comprendere di aver avuto un’incredibile opportunità: quella di sentir suonare artisti che con la loro creatività e idee hanno rivoluzionato un’epoca e che continuano tuttora ad influenzare le nuove generazioni di artisti. Insieme a loro, anzi, suonando con loro nelle jam session, i migliori musicisti di questo tempo, tutti “legati” dalle corde delle chitarre acustiche, sia che suonino il jazz, il folk, il rock, il fado, il blues, il flamenco, la world o la canzone d’autore…
Ma iniziamo dal principio.

Venerdì 25 settembre il sipario del Teatro Garzoni di Tricesimo si apre per una serata che vuole essere, in parte, un tributo al chitarrista inglese John Renbourn, fondatore degli inglesi Pentangle – la stella a cinque punte citata in un carme medievale – una tra le più amate band di folk-progressive, nata alla fine degli anni ’60 e attiva, nella formazione originale, fino al al 1973.
Renbourn avrebbe dovuto tenere un concerto a Madame Guitar, insieme a Wizz Jones, l’ultimo musicista ad aver suonato con lui, fino al momento della sua morte, avvenuta il 26 marzo di quest’anno. Fu lo stesso Wizz a dare l’allarme, quando John non si presentò nel locale scozzese dove avrebbero dovuto esibirsi.
Marco Miconi, direttore artistico del festival e presidente del Folk Club Buttrio, che lo organizza sin dalla sua prima edizione, non nasconde l’emozione per aver cresciuto un piccolo festival, facendolo diventare un avvenimento-cult, amato dai chitarristi di tutto il mondo e da un pubblico fedele e appassionato, proveniente anche da fuori regione.
Il maestro della chitarra lusitana Custodio Castélo, colui che viene riconosciuto come l’erede di Carlos Paredes, apre la serata. Lo accompagna la chitarra classica di Miguel Carvalhinho. Castélo suona uno strumento unico, costruito per lui dal liutaio Oscar Cardoso. Si tratta di due strumenti tradizionali del Fado portoghese uniti attraverso la cassa armonica: da un lato una chitarra di Coimbra e dall’altro una di Lisbona. Set di rara intensità, per le capacità tecniche dei due musicisti ma anche perché la saudade del Fado (Fatum, destino), arriva in profondità, accendendo passioni e sentimenti, con i suoi arpeggi virtuosi, l’alternanza degli accordi e i repentini cambi di tempo, la ritmica trascinante, il fraseggio melodico, che ricorda il mandolino delle canzoni napoletane di fine ‘800.
In fondo al palcoscenico, il pittore Franco Ori esegue un ritratto. Live painting. Ben presto capiremo che il volto che compare sul dipinto è quello di John Renbourn.
Il tributo al chitarrista inglese inizia con Reno Brandoni. Siciliano per nascita e sardo per scelta, Reno ha suonato con l’inglese Reinbourn e con l’americano Stefan Grossman; sicuramente, molti chitarristi si sono fatti i polpastrelli sui loro brani! Brandoni è una figura influente del fingerstyle nazionale e stasera è in vena di ricordi. Ogni brano trascina con sé una storia . Alcune song sono composizioni originali, come il primo blues che i suoi due mentori lo spronarono a scrivere. Anche “Woman from San Teodoro” è legato ad un simpatico aneddoto, nato da un equivoco sul titolo di un pezzo di Grossman, “Woman from Donori”. Altre sono suoi arrangiamenti, come “No potho reposare”, un classico della tradizione sarda o “Mississippi Blues”, versione Grossman, ineguagliabile nel fingerpicking, tecnica che anche Reno padroneggia.
Il terzo concerto della serata è quello di Ljubo Majstorovic, chitarrista croato residente in Svizzera, compositore di musica per il balletto e per il teatro.
Renbourn era un suo estimatore e fu lui stesso a consigliarlo al direttore artistico del festival, al quale partecipa per la seconda volta.
Ljubo suona una piccola chitarra in legno scuro, senza paletta, sembra l’abbia costruita egli stesso. Fa un uso massiccio di effettistica e sintetizzatori e riesce ad ottenere la spazialità del suono, che permette all’ascoltatore di vivere un’esperienza percettiva. La padronanza delle tecniche chitarristiche è notevole e Ljubo crea con il suo strumento suggestivi soundscape, ricchi di intrecci ritmici ed armonici. Molta sperimentazione.
Wizz Jones, pioniere del folk britannico, è l’ultimo musicista a salire sul palcoscenico del Garzoni. Imbraccia la sua Epiphone Texas del 1966… it sounds good… che ha un suono ricco e ibrido e propone un amalgama di ballad, di blues classico, di folk. Ha 76 anni ma non li dimostra. Nella musica come nell’aspetto. Porta ancora i capelli lunghi, come negli anni settanta e le sue mani conservano intatta la velocità di un tempo e danzano veloci sulle corde. Il suo stile ha influenzato, e continua a influenzare, parecchi grandi artisti, da Nick Drake a Rod Stewart ed anche Eric Clapton e Keith Richards. Il suo fingerpicking è frutto di una sconfinata abilità tecnica ma funziona principalmente perchè Wizz suona con l’anima…
Tra i brani che Jones sciorina nel corso del suo emozionante set riconosco “Strolling down the Highway” di Bert Jansch, “I’m sitting on the top of the world” (mi viene in mente la versione di Al Jolson), “You’ve changed/Glory of Love”, presente anche nel suo album “Huldenberg Blues” e “Cocaine blues”, della quale Keith Richards fece una cover, molto fedele all’originale.
Con Renbourn, avrebbe dovuto registrare un album e suonare a Madame Guitar. Così non è stato. (altro…)

Dino Saluzzi, “Imágenes”

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Dino Saluzzi, bandoneonista e compositore argentino nato nel 1935, non appartiene in apparenza al mondo della cosiddetta musica classica e neppure a quella nicchia mondiale conosciuta sotto il nome di ‘musica contemporanea’, come se la contemporaneità fosse un genere, una tipologia precisa dell’oggetto e non l’agire nel proprio tempo; o saperlo travalicare che è dono di pochissimi. Saluzzi è un musicista del popolo, uno Stregone, uno che insegue, direbbe Borges “l’altra tigre, quella che non è nei versi”.

In un’intervista di molti anni fa si chiedeva ad Astor Piazzolla di enumerare i colleghi secondo lui più significativi nell’esprimere la famosa poetica del ‘tango’ argentino. Piazzolla, che non ebbe in quel frangente parole particolarmente benevole per nessuno, nominò Dino Saluzzi esprimendo ammirazione ma anche la propria distanza nei confronti di una ricerca astratta, lontana dal recupero e dal rinnovamento di quella tradizione popolare che lui aveva inaugurato.
Non saprei davvero collocare Saluzzi nel tormentato quadrante della musica latinoamericana, e il problema, da ascoltatore, confesso che non mi tocca per nulla. A me personalmente pare che l’opera sua sia non meno, e forse anche più importante di quella del più celebre Piazzolla: ammesso poi che simili paragoni abbiano senso.
Dino Saluzzi abita la propria Argentina in un palazzo mentale, labirintico, un sancta sanctorum. Quel canto ancestrale si sente risuonare qui tra gli alabastri, riverberato da marmi lucidi e impenetrabili.
Non sembra esserci in Saluzzi il desiderio di piacere, che affiora invece, sincero, in alcuni ’Libertango’; c’è semmai quello di sedurre mediante l’affabulazione. Il suo è un versificare ermetico: un pò scrittore, un pò pittore di suoni, ci fissa negli occhi parlando in una lingua magica.
I suoi dischi, che segnano una collaborazione di lunga data con l’etichetta ECM, sono viaggi misteriosi che lambiscono le coste del jazz come della musica classica, le foreste amazzoniche come gli alti palazzi di New York. Sono tutti interessanti, complessi, romantici, col falsetto del suo strumento a coronare, quale luce stellare, mossi paesaggi notturni.
Qui, con “Imágenes” (sempre ECM) siamo di fronte a una nuova pubblicazione del tutto singolare: musica pianistica (apparentemente) scritta fino all’ultima nota. Non già il suono del bandoneon, che è il colore del tango, ma il pianoforte da concerto.
Confesso di aver preso il disco a scatola chiusa. Come suonerà, mi chiedevo, la musica di Saluzzi sul mio strumento? E già mi immaginavo programmi concertistici pazzi, tipo: Mozart, Prokofiev, Saluzzi, oppure: Bach, Saluzzi… cose così; chi è pianista forse mi può capire.
Ho ascoltato poi tutto d’un fiato e l’ho trovato, per fortuna, bellissimo.
E’ musica pensosa che, come per un mesmerismo, calamita, incanta… esteticamente è bella, ti cattura però per le idee.
Non c’è virtuosismo, non di rado il cantare è persino monodico; talvolta, appaiono fascinose stratificazioni sonore che però si configurano come sovrapposizioni di timbri più che linee di contrappunto.
Come sempre, con questo musicista, le melodie sono liriche e contorte e proprio in questo rovello risiede grande parte del loro fascino.Il pianista Horacio Lavandera compare anche fotografato nel booklet accanto al compositore, che deve aver seguito personalmente le sessioni di registrazione. Forse un pò intimidito dalla sua presenza, suona però correttamente e restituisce bene queste strutture libere all’ascolto: si desidererebbe ora avere accesso alle partiture, chissà se pubblicate, e da chi.
La registrazione, secondo i tipici canoni estetici dell’etichetta monacense, è calda, riverberante, assai ravvicinata. Disco nel quale immergersi lentamente.Un’interessante acquisizione di repertorio che mi auguro si faccia strada anche sul piano concertistico, anche se dubito che ciò avverrà in Italia, dove si ascoltano quasi sempre gli stessi programmi e autori, per ogni dove.