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Il destino ha voluto che nella stessa giornata (13 ottobre 2016) si sia spento a novant’anni Dario Fo – premio Nobel per la letteratura nel 1997 – e che Bob Dylan sia stato insignito dello stesso titolo. Ora come allora sono fiorite polemiche in tutto il mondo, discussioni che spesso lasciano il tempo che trovano.
Già dal 1996 il nome del cantautore americano era apparso tra le candidature al Nobel ma, a parte questo dato, le polemiche nascono dalla concezione di letteratura che si ha: in questo caso Dario Fo e Bob Dylan – pur nelle innegabili e peculiari differenze – tornano ad essere accomunati.
Entrambi nella lunga carriera, Dylan scrive e canta da cinquantacinque anni, hanno praticato forme d’arte trasversale, unendo i linguaggi e facendoli esplodere nella loro reale potenzialità comunicativa. Teatro e pittura, liriche e musica hanno così, nelle rispettive poetiche, raggiunto vertici impensabili di diffusione e popolarità: il cantautore ha venduto 125 milioni di dischi in tutto il mondo e l’album “From Another World. A tribute to Bob Dylan” del 2014 vede artisti da Cuba, Bangladesh, Macedonia, Taiwan, Myanmar, Iran ed Egitto omaggiarlo.
Fortemente connesso a ciò ricorre in entrambi la capacità di fondere riferimenti e poetiche “alte” e “basse”: qui gli aggettivi riguardano non il valore ma solo la collocazione sociale dei soggetti che si esprimono. La tradizione giullaresca va a braccetto con la lezione brechtiana nel caso di Fo come i riferimenti al blues del Delta ed agli hobos (ed al loro cantore, Woody Guthrie) si nutrono di citazioni e suggestioni provenienti dalla letteratura nel caso di Dylan (il cui nome d’arte viene dall’amato poeta Dylan Thomas). Si tratta – ha scritto Alessandro Portelli su “il manifesto” del 14 ottobre – “di due artisti che cambiano il nostro rapporto con la parola anche intrecciandola con il suono, con la voce, con il corpo, con l’improvvisazione, con la performance e che per questo sembrano estranei all’istituzione letteraria. Più ancora, sia Bob Dylan sia Dario Fo affondano le radici della loro creatività nel mondo delle culture popolari: da “Mistero Buffo” a “A Hard Rain’s-a Gonna Fall”, sono le voci dei vagabondi e di saltimbanchi delle campagne italiane e le voci dei braccianti neri del Delta e dei vagabondi della depressione (…) che attraverso loro si impadroniscono del centro della scena e diventano nuovi linguaggi della modernità”.
Bob Dylan ha dato vita a due soli volumi letterari, secondo canoni “ristretti”: il romanzo sperimentale “Tarantula” scritto nel 1965-’66 e pubblicato nel 1971 (ultima versione in italiano nel 2007, per Feltrinelli); “Chronicles – vol. 1”, prima parte di un’autobiografia in tre volumi, uscita negli Usa nel 2004 (in Italia edita da Feltrinelli nel 2005 per la traduzione di Alessandro Carrera, il massimo studioso di Dylan nel nostro paese). Andrea Colombo (sempre su “il manifesto” del 14 ottobre scorso) ha definito “Chonicles” “un’antologia delle influenze letterarie e musicali della sua vita camuffata da autobiografia”. In realtà il “poema”, tra l’epico ed il surrealista, scritto dal cantautore statunitense sono le sue migliaia di canzoni, che hanno suggestioni e riferimenti letterari e musicali in senso ampio, dal primo album “Bob Dylan” (1961) a “The Tempest” (2012) ed oltre.

Woody Guthrie, Dylan Thomas, l’Apocalisse, Allen Ginsberg, Arthur Rimbaud, il Talmud, la Bibbia, Walt Whitman, Ezra Pound, i poeti americani degli anni ’30 e ‘40 – e si potrebbe continuare a lungo – sono alcuni dei suoi riferimenti ma il tutto è personalmente metabolizzato e ricreato in un processo che passa per il rock di Elvis Presley, il blues di Robert Johnson, il gospel e lo spiritual, il vaudevile, la canzone di protesta di Pete Seeger e Guthrie fino a giungere alle riletture del Great American Songbook, da Frank Sinatra a Cole Porter e Richard Rogers (“Shadows of the Night”, 2015, “Fallen Angels”, 2016).
Il Nobel a Bob Dylan (Robert Allen Zimmerman, nato a Duluth nel Minnesota nel 1941 da una famiglia ebraica di origine tedesche) è un premio ad una concezione ampia della letteratura ed anche un messaggio indiretto agli Stati Uniti che stanno per scegliere un nuovo presidente, un messaggio che premia un alfiere visionario dell’America controcorrente per (questa la motivazione) “aver creato una nuova espressione poetica nell’ambito della grande canzone americana”.
A proposito dei rapporti tra poesia e musica vale la pena di leggere quanto affermava Steve Lacy nel bel libro di sue interviste, da poco pubblicato dalle edizioni ETS (“Conversazioni con Steve Lacy a cura di Jason Weiss”, traduzione di Francesco Martinelli, pp. 310, euro 28, di cui troverete la recensione a cura di Gerlando Gatto in questo stesso spazio). Due brevi citazioni che non rendono l’enorme lavoro del sopranista per trovare una dimensione adatta all’incontro tra versi e suoni. “Beh, il jazz è i ritmi del parlato. E’ musica che si fa parlando, è solo un linguaggio. E comunque viene tutto dalla fraseologia” (p. 117); “Quando suoniamo quei brani basati sulle parole di Brion (Brion Gysin, poeta- pittore americano, 1916-1986, amico e collaboratore di Wiliam Burroughs, n.d.r.), tutta la musica viene fuori dalle parole. Sono stato fortunato ad avere la roba di Brion con cui lavorare” (p.119). Un Nobel per la letteratura, purtroppo postumo, andrebbe senz’altro a Steve Lacy che nel corso della sua carriera ha scandagliato i maggiori poeti mondiali soprattutto contemporanei, partendo dalle liriche millenarie del cinese Lao Tzu.

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