I NOSTRI CD. Curiosando tra le etichette (parte 4)

CNI

La Compagnia Nuove Indye viene fondata all’inizio degli anni ’90 da Paolo Dossena, storico produttore musicale, paroliere e compositore italiano. Nel corso della sua attività la Compagnia Nuove Indye ha avuto una particolare attenzione verso la musica etnica e dialettale, lanciando artisti come gli Almamegretta o gli Agricantus, senza comunque trascurare altri artisti di assoluto rilievo come Sud Sound System, Enzo Avitabile, Nidi d’Arac, A3 Apulia Project, Maurizio Capone, Bandorkestra, Alessandro Gwis.

Agricantus – “Akoustikòs Vol.I”
Agrigantus è uno dei gruppi in assoluto più significativi che abbiano attraversato la storia della musica italiana negli ultimi decenni. Siamo alla fine degli anni settanta, quando un gruppo di ragazzini di grande talento sperimenta suoni nuovi che non somigliano a niente di conosciuto in quanto coniugano i canti e gli strumenti della tradizione siciliana con le tradizioni africane, dando corpo tangibile alla teoria della musica quale ‘linguaggio universale’. Linguaggio che viene man mano arricchito con riferimenti non solo alla tradizione mediterranea ma anche a quella sudamericana, asiatica e mediorientale. Da quest’inizio il gruppo con gradualità si fa conoscere ottenendo unanimi consensi di pubblico e di critica anche al di fuori dei confini nazionali. Pur vivendo numerose trasformazioni, Agricantus ha comunque conservato una propria precisa identità non scalfita neanche dal fatto che per alcuni periodi ha osservato un rigoroso silenzio da cui sono riemersi solo mesi fa con questo eccellente album. Identità che si sostanzia, come si accennava, nella grandissima capacità di convogliare in un unicum input provenienti dalle più diverse realtà. Non è quindi un caso che la storia discografica di Agricantus abbia oggi un nuovo inizio con la CNI, che, come si diceva, si è da sempre contraddistinta per dare spazio alle più importanti band di world music che il nostro paese abbia prodotto. Questo nuovo lavoro vede nel rinnovato gruppo la splendida voce di Anita Vitale, accanto a musicisti che abbiamo imparato a conoscere nel corso degli anni quali Mario Rivera al contrabbasso, Giovanni Lo Cascio batteria e percussioni e il sempre toccante contributo degli strumenti arcaici di Mario Crispi (a cui “A proposito di jazz” ha dedicato una lunga e illuminante intervista). Risultato: un album di assoluta originalità, modernità, degno di essere ascoltato con grande attenzione.

Bandorkestra – “Best Seller”
Ogni volta che mi accingo ad ascoltare un nuovo album di Bandorkestra mi sorge un dubbio: riuscirà anche questa volta la band di Marco Castelli a trasmettermi le stesse emozioni, la stessa straordinaria energia, la ventata di sano ottimismo dell’ultimo ascolto? Questa volta il dubbio era ancora più forte in quanto l’album è stato concepito e realizzato per celebrare i quindici anni di attività artistica del gruppo, una ricca antologia, quindi, in cui sono stati raccolti quindici brani – compresi alcuni inediti – che, nel loro insieme, compendiano efficacemente il percorso artistico di Castelli e soci. Percorso artistico declinato attraverso una concezione musicale assolutamente originale, in grado di transitare da un terreno all’altro senza la minima difficoltà sì da affrontare un repertorio quanto mai variegato: dal jazz allo swing, dallo ska al boogie-woogie, dal latin al reggae… e via di questo passo. Il tutto riuscendo a ben coniugare scrittura e improvvisazione, arrangiamenti istantanei e logica organizzazione. E se ascoltando gli album di Bandorkestra si riesce a mala pena a stare fermi, figuratevi qual è il clima che questa straordinaria band riesce ad instaurare nelle esecuzioni dal vivo. Quindi anche in questo “Best Seller” ritroviamo la solita possente sezione di fiati sorretta da una ritmica tritatutto, senza però tralasciare qualche residua finezza nell’esposizione dei temi e nel dipanarsi degli assoli. I brani, come avrete capito, sono tutti assai godibili anche se ci piace segnalarvi uno degli inediti, il medley “Lotta Love Medley” in cui “Whole Lotta Love” dei Led Zeppelin sfuma in “Come Togheter” dei Beatles e poi in “Happy” di Pharrel Willams. Dal punto di vista solistico, da ascoltare con attenzione l’assolo di Pietro Tonolo in “Anelli” che dimostra, se pur ce ne fosse bisogno, il perché Tonolo sia a ben ragione considerato uno dei migliori sassofonisti e non solo a livello nazionale.

Alessandro Gwis – “#2”
Alessandro Gwis è pianista completo nell’accezione più vera del termine in quanto coniuga una tecnica eccellente con uno stile personale determinato dalle influenze derivanti dalla musica classica, dal rock, dal tango, dal jazz fino alla musica elettronica. Si è fatto le ossa soprattutto con gli “Aires Tango” ma poi ha intrapreso una sua strada finora ricca di successi. Nel 2006 pubblica il suo primo album da leader intitolato semplicemente “Alessandro Gwis” con Luca Pirozzi al contrabbasso e basso elettrico e Andrea Sciommeri alla batteria e percussioni. Ed è con questa stessa formazione (con l’aggiunta di Luciano Biondini all’accordion) che il pianista romano si ripresenta al pubblico del jazz: “#2” propone tredici brani tutti a firma dello stesso Gwis (da solo o con gli altri componenti del trio) che testimonia in modo inequivocabile la raggiunta maturità del pianista anche come compositore. Le composizioni originali sono tutte ben scritte, equilibrate, ottimamente eseguite e soprattutto con un perfetto equilibrio tra parti scritte e parti improvvisate. Equilibrio talmente ben raggiunto che cinque brani (“The Blessed Sadness Of Fall”, “The Baloonatic”, “Ibo”, “The Flood”, “Wind Rose Glitches”) sono esplicitamente indicati come “free improvisations recorded in studio” ma nell’economia generale dell’album si fa fatica a distinguerle dalle altre. I tre si muovono all’insegna di un’empatia frutto di una intensa e fruttuosa collaborazione fra i tre. Così, anche quando il pianista introduce elementi “elettronici”, o al trio si aggiunge l’accordion di Luciano Biondini (“Don’t blame Gwis”) il clima generale non cambia e la musica scorre fluida, libera – se mi consentite l’espressione – sempre caratterizzata da una linea melodica perfettamente riconoscibile.

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Emme Record Label

Il marchio nasce nel 2010 ma ha alle spalle oltre un decennio di esperienze professionali legate all’organizzazione, direzione artistica, Management & Booking. Emme Produzioni Musicali si caratterizza per il fatto di essere una delle pochissime realtà europee capaci di fornire tutti i servizi produttivi, discografici e manageriali, necessari a diffondere nel miglior modo un progetto artistico.

Bonora – “Enkidu”
“Enkidu” è l’album d’esordio di Bonora, un sestetto composto da giovani musicisti provenienti da Veneto, Toscana, Emilia Romagna e Marche: Francesco Giustini (tromba, flicorno), Leonardo Rosselli (sax tenore, sax soprano), Daniele Bartoli (chitarra elettrica), Alberto Lincetto (pianoforte, tastiere), Alberto Zuanon (contrabbasso), Stefano Cosi (batteria). Se dal punto di vista del repertorio (composto interamente da composizioni originali) il gruppo si muove su terreni non proprio nuovi, viceversa dal punto di vista esecutivo si nota una certa originalità. In effetti il sestetto evidenzia una buona conoscenza del mondo musicale riuscendo a enucleare elementi sia dal jazz più tradizionale, sia dal free, sia dal rock (soprattutto per quanto concerne la sezione ritmica), elementi che confluiscono in una visione unitaria andando così a costituire un linguaggio personale che costituisce l’elemento caratterizzante il gruppo. Così mentre i fiati sembrano rifarsi più esplicitamente al mondo del jazz, batteria e contrabbasso forniscono, come già sottolineato, un supporto che sottende una profonda conoscenza del rock. Il tutto si sposa tranquillamente, senza alcuna discrasia ad ulteriore dimostrazione che linguaggi diversi possono fondersi in un unicum di livello a patto che i musicisti siano all’altezza della situazione. E non c’è dubbio che questi giovani artisti, di cui sentiremo spesso parlare, all’altezza della situazione lo siano già.

The Sycamore – “Seamless”
Album d’esordio per il collettivo Sycamore, band nata nel 2015, dall’unione di sei musicisti di origine umbra, ovvero Andrea Angeloni al trombone, Leonardo Radicchi al sassofono, Alessio Capobianco e Ruggero Fornari alla chitarra, Pietro Paris al contrabbasso e Lorenzo Brilli alla batteria. Il loro primo EP, registrato nel novembre 2016 e ottimamente accolto dalla critica internazionale, ha consentito loro di partecipare al Conad Jazz Contest 2017, esibirsi a Umbria Jazz e vincere il primo premio della Giuria Popolare. Questo “Seamless” si lascia ascoltare per almeno due buoni motivi: la linea melodica che caratterizza tutti i brani e la bravura dei musicisti considerati sia singolarmente sia nel collettivo. In effetti, pur essendo al loro esordio discografico, i sei musicisti evidenziano un buon interplay che li porta a interagire con fluidità. Di qui un colloquio costante, una ripartizione degli spazi equa ed equilibrata. Intendo dire che non c’è un solista che svetta sugli altri, ma è un gioco collettivo in cui si inseriscono di volta in volta gli assolo dei sei musicisti. I quali si fanno apprezzare anche come autori dal momento che tutti gli otto brani in programma sono scritti dagli stessi componenti il sestetto, comunque legati da un idem sentire che contribuisce non poco all’omogeneità dell’album. Tra le varie composizioni degna di menzione l’apertura, “La spinara”, ottimo esempio di quell’interplay cui prima si faceva riferimento e “Dark Lights” una suggestiva ballad tutta giocata sul dialogo tra chitarra acustica e clarinetto basso.

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Green Corner

Ecco un’altra etichetta che si è imposta sul mercato grazie ad una scelta precisa: riproporre alcuni capolavori del passato con un catalogo assai vasto in cui figurano artisti di assoluto livello: da John Coltrane a Duke Ellington, da Miles Davis a Bill Evans… e via di questo passo.

Duke Ellington & John Coltrane
Questo doppio album contiene le registrazioni effettuate da Ellington e Coltrane a Englewood Cliffs il 26 settembre del 1962 nella duplice versione stereo e mono. Si tratta delle uniche incisioni realizzate assieme da Duke Ellington e John Coltrane. Per l’occasione, i due “giganti del jazz” sono accompagnati dal bassista e dal batterista dei rispettivi gruppi (che si sono alternati sulle tracce), Aaron Bell e Sam Woodyard (dalla sezione ritmica di Duke), e Jimmy Garrison e Elvin Jones (dalla sezione ritmica di Trane). A ciò si aggiungono, come bonus, quattro brani correlati a Ellington, eseguiti da piccoli gruppi guidati da Coltrane in diverse sessioni, cinque altre versioni di Ellington dei brani dell’album e una versione in quartetto di John Coltrane di “Big Nick”, la sua unica composizione originale dell’album. Ciò premesso, non credo ci sia molto da aggiungere sulla qualità della musica. Si tratta, come nel costume della Green Corner, di grande musica al di là di qualsivoglia etichetta, una musica che pone in evidenza non solo la grandezza esecutiva di due straordinari giganti, ma anche la qualità compositiva di Ellington, uno dei più grandi musicisti che il secolo scorso abbia annoverato. Dal canto suo Coltrane stupisce per la maturità con cui si confronta con un artista già grande: non dimentichiamo che nel 1962 Ellington è già un grande della musica mentre Coltrane solo nel 1960 ha costituito il suo primo gruppo da leader dopo aver militato nei gruppi di Thelonious Monk e Miles Davis. Insomma Coltrane è ancora considerato una promessa… ma che ha già al suo arco una quantità infinita di frecce che nell’arco di pochi anni lo condurranno nell’Olimpo del jazz.

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Labirinti sonori

L’etichetta discografica Labirinti Sonori – Music for Heart and Mind – è stata creata nel 2006 da Stefano Maltese. L’intento è quello di gestire la propria musica con il maggior controllo possibile e allo stesso tempo dare spazio alle produzioni musicali di musicisti che si esprimono con linguaggi personali, lontani dai cliché che mortificano la creatività. A parte i dischi realizzati dallo stesso Maltese e dai musicisti a egli più vicini, il catalogo di Labirinti Sonori annovera anche John Tchicai, Keith Tippett, Steve Lacy.

Roberta Maci – “I’m On The Way”
La multistrumentista Roberta Maci (sax soprano, sax tenore, sax alto, flauti, percussioni, voce) nonostante la giovane età (classe 1992), ha già raggiunto notevoli risultati che si sostanziano in questo primo album da leader alla testa del NBS Quartet, con Stefano Maltese (sax, flauto e percussioni), Giovanni Arena (contrabbasso) e Antonio Moncada (batteria e percussioni)
cui si aggiunge il pianista inglese Alex Maguire conosciuto per le sue collaborazioni con alcuni musicisti attivi nell’ambito del free jazz quali Elton Dean, Sean Bergin et Michael Moore. In questo album d’esordio la Maci evidenzia anche le sue capacità compositive dal momento che sugli undici brani in programma ben sette sono suoi con accanto due composizioni di Stefano Maltese e una a testa per Alex Maguire e Roscoe Mitchell (la ben nota “Odwalla” a chiudere il CD). L’album è apprezzabile da diversi punti di vista. Innanzitutto come strumentista la Maci è artista matura, ben consapevole dei propri mezzi espressivi e perfettamente in grado di maneggiare l’enorme percorso musicale che ha condotto il jazz dalle origini fino alle più moderne espressioni dei nostri giorni, senza dimenticare le musiche della propria terra, la Sicilia. Anche dal punto di vista compositivo le valutazioni non possono che essere positive: le sue creature sono ben costruite, equilibrate, con un filo logico che risulta ben individuabile nella ricerca di un linea melodica a tratti suadente a tratti più sfuggente.

Stefano Maltese – “Redder Level”
Questo doppio album racchiude le registrazioni effettuate il 7 gennaio 2018 durante il “Labirinti Sonori Siracusa Jazz Festival”. Il multistrumentista siciliano è alla testa del suo “Sonic Mirror Quartet” completato da Roberta Maci di cui abbiamo parlato in precedenza, Fred Casadei al contrabbasso e il fido Antonio Moncada batteria e percussioni. In programma 12 pezzi tutti scaturiti dalla penna del leader. Conosciamo Stefano Maltese oramai da tanti anni e non abbiamo alcuna difficoltà ad affermare che si tratta di uno dei jazzisti più originali, genuini, consequenziali e coerenti che il mondo del jazz possa vantare. Da quanto è apparso sulle scene nazionali e internazionali è rimasto sempre fedele al suo modo di essere, alla sua musica che nulla a che fare né con il facile ascolto, né con le mode passeggere, né tanto meno con inutili sperimentazioni fini a sé stesse. Il suo linguaggio è rigoroso, frutto di studi intensi e di una concezione “corale” della musica per cui l’esecuzione è sì frutto di una straordinaria intesa e di uno sviluppo complessivo senza però trascurare le capacità dei singoli che vengono esaltate attraverso il giusto spazio dato ad ogni assolo; si ascolti ad esempio la Maci al sax soprano in “Endless Circless” e al sax alto in “Way To Nowhere” dedicato a John Tchicai con il quale Maltese ha avuto modo di collaborare (registrando tra l’altro in duo nel 2010 l’album “Men From Windy Land”) mentre la sezione ritmica si fa particolarmente apprezzare in “We Everywhere”. Dal canto suo Maltese è l’anima pulsante del gruppo, il leader che impronta di sé ogni brano sia con la sicura conduzione sia con assoli sempre particolarmente centrati.

I NOSTRI LIBRI:

Paolo Ceccarelli – “Roberto Nicolosi – Un grande maestro del jazz” – Zona Music Books – pgg.127 – € 17

Quando mi trovo a leggere un libro del genere, mi stupisco sempre di come l’autore sia riuscito a raccogliere una così grande massa di dati e soprattutto di come abbia fatto ad organizzarli in modo acconcio sì da rendere la narrazione gradevole.

Oggetto del volume in questione è la storia e la carriera di Roberto Nicolosi (Genova 1914 – Roma 1989), grande maestro del jazz, che ho avuto la fortuna e il piacere di conoscere quando lavoravo a RadioUno occupandomi sempre di jazz.

Nel mondo del jazz sono molti i musicisti che nel corso degli anni non hanno avuto i riconoscimenti che meritavano. A questa nutrita schiera appartiene sicuramente Roberto Nicolosi cui questo libro rende finalmente giustizia.

Dotato di una solidissima preparazione di base, Nicolosi, laureato in medicina e diplomato al conservatorio, ha attraversato alcuni decenni della storia musicale italiana lasciando segni indelebili a testimonianza di un talento genuino. Il suo eclettismo gli ha permesso di spaziare tra diverse attività: da arrangiatore e compositore a conduttore di trasmissioni radiofoniche, da autore in riviste specializzate a giudice in concorsi jazzistici. Per non parlare del fatto che dal 1956 al 1972 ha scritto straordinarie colonne sonore, la cui fama ha valicato i confini nazionali per approdare negli Stati Uniti.

A tutto ciò si aggiunga il fatto che ha suonato con molti dei grandi del panorama musicale internazionale quali, tanto per fare qualche nome, Frank Rosolino, Conte Candoli, Tony Scott.

Dopo un breve excursus sulle origini famigliari, il lavoro si sviluppa su tre direttrici principali che corrispondono ai tre principali momenti della vita di Nicolosi, legati ad altrettante città: Genova, dove passa l’infanzia e l’adolescenza e coltiva la prima passione per il jazz; Milano, dove emerge come musicista, critico, arrangiatore e compositore; Roma, dove inizia l’attività di compositore di colonne sonore e trascorre il resto della vita.

Ad ognuno di questi periodi l‘autore dedica grande attenzione cercando di storicizzare ogni avvenimento e di collocarlo nella giusta cornice storico-sociale. Ecco quindi che, parallelamente alla carriera di Nicolosi, il lettore attento può crearsi un’idea di quel che accadeva nel mondo musicale… e non solo.

Particolarmente interessante la parte in cui viene lumeggiata l’attività di Nicolosi quale autore di colonne sonore, aspetto che, ne siamo sicuri, era rimasto finora misconosciuto alla gran parte degli appassionati seppur attenti.

Il volume è completato dall’analisi tecnica di due brani del jazz italiano d’avanguardia negli anni cinquanta; dalla trascrizione di due interventi dello stesso Nicolosi e di Renzo Nissim, tratti dal programma radiofonico “50: mezzo secolo della Radio italiana” 19° puntata; da affettuose testimonianze di altri musicisti; dall’elenco delle incisioni discografiche delle colonne sonore ovviamente di Nicolosi; da una esauriente bibliografia; pertinente il corredo iconografico.


Guido Michelone – “Il jazz e le arti” – arcana – gg.350 – €23,50

Guido Michelone, studioso ben noto ai cultori della musica afro-americana, ha da poco dato alle stampe un suo nuovo volume dal titolo quanto mai esplicativo: “Il jazz e le arti”.

L’argomento è di quelli che intrigano solo a parlarne: in effetti il jazz, già per sua natura costitutiva, è musica “meticcia” essendo nata dall’incontro tra diverse culture anche geograficamente assai lontane; nel corso degli anni si è poi caratterizzato per la capacità di intrattenere stretti rapporti con le altre espressioni artistiche anche al di fuori degli ambiti strettamente musicali.

Michelone esamina tutti questi ambiti “altri” in una carrellata a tratti entusiasmante di paragoni, raffronti, esempi, consequenzialità.

In particolare il volume si divide in 20 capitoli, ognuno dedicato ad un’arte diversa con cui il jazz è venuto a contatto dando e ricevendone linfa vitale. Ed eccole, una per una, le venti “arti” esaminate dall’autore: si parte con l’abbigliamento, per passare alle “pitture fra astratto e avanguardia” e quindi, in successione, l’architettura, i cartoon, il cover design, la danza, il documentario, il dvd, la fiction, la fotografia, il fumetto, la graphic novel, la jazz-poetry, la musicazione, la pittura, il rito, i soundies, il soundtrack, il teatro, la televisione.

Ora se i rapporti tra jazz e ad esempio la danza, il cinema, la televisione appaiono chiari e ben documentati, il lettore si chiederà sicuramente quali possano essere le connessioni tra jazz e altre arti ad esempio l’architettura. Ebbene, nella sua accurata analisi Michelone evidenzia come i linguaggi musicali non solo possiedano i propri luoghi di appartenenza, ma giungono persino a stabilire un parallelo tra suono e architettura intesa nel senso più ampio del termine (dall’arredamento all’urbanistica). Ebbene anche in quest’ambito il jazz conserva una sua precisa identità, peculiarità dal momento che occupa ambienti diversi rispetto sia alla musica classica sia al rock. Si parte così dai grandi spazi all’aperto in cui nascono e si sviluppano spiritual e blues, per passare alle case chiuse di Storyville, ai night club…fino ai grandi teatri, alle sale da concerto. E questo è solo un esempio dell’accuratezza, dell’acume con cui Michelone affronta ogni singolo argomento sì da condurre per mano il lettore in questo viaggio straordinario alla scoperta dei tanti, tantissimi legami che uniscono il jazz al mondo delle arti globalmente inteso.

Insomma un volume ricco di sorprese la cui lettura consigliamo anche a chi non si occupa prioritariamente di jazz.

Gerlando Gatto

 

Mirabassi/Galante/Zanisi al TrentinoInJazz 2019

TRENTINOINJAZZ 2019
e
Società Filarmonica

presentano:

Giovedì 17 ottobre 2019
ore 20.30
Sala Filarmonica
Via Giuseppe Verdi, 30
Trento

TST – Third Stream Trio

Ingresso: euro 5

https://www.filarmonica-trento.it/jazz-2.html

Nuovo appuntamento con Ai Confini e oltre, il nuovo segmento del TrentinoInJazz 2019 dedicato alla “terza corrente”, la Third Stream nata negli anni ’50 negli Stati Uniti allo scopo di creare un terreno di incontro fra musica classica e jazz, evidenziando la valenza del jazz come “musica d’arte” e non solo ‘leggera’ o ‘da ballo’ come era considerato lo swing.
Giovedì 17 ottobre lo splendido trio composto da Gabriele Mirabassi (clarinetto), Emilio Galante (flauto) e Enrico Zanisi (pianoforte) presenterà un programma importante, nel quale figurano alcune riletture, attraverso la pratica improvvisativa, di musiche della tradizione sette-ottocentesca: alcuni Lieder di Schumann, un’opera giovanile di Mozart, il Quartetto KV 158, scritto durante il viaggio in Italia fra Rovereto e Milano, Busoni che rilegge Mozart (il Duettino Concertante nach Mozart), la Siciliana in sol minore di Bach trascritta dalla versione di Bill Evans, che la fa diventare un Valse in 3/4, Charlie’s Prelude (reso noto nelle versioni di Duke Ellington e Don Byron), una sorta di lettura-ragtime del quarto Preludio di Chopin, e, sempre di Chopin rivisitato, il Valse n. 2 op. 34, sorprendentemente in 2/4.

Sia nel caso di Busoni che di Bill Evans o di Chopin, si tratta di riletture, in un percorso che svela uno dei caratteri tipici della nostra cultura, dove l’originalità si appoggia sempre su una sovrapposizione continua di testi del passato. In programma anche due composizioni originali senza riscrittura improvvisativa, il Trio in mi minore di Busoni e il Choro n. 2 di Villa Lobos. La Società Filarmonica ha dedicato nella Stagione 2019 un spazio privilegiato al clarinetto invitando alcuni dei solisti più noti del panorama nazionale. Ne è perfetto complemento la figura di Gabriele Mirabassi, il clarinettista jazz più importante della scena odierna, con una fisionomia musicale molto articolata, che lo ha portato ad eccellere anche nella musica cameristica e nella musica brasiliana, della quale è diventato un interprete ricercatissimo, anche in Brasile.

Luigi Onori: “Il Jazz che spezza le catene”

Il nostro collaboratore Luigi Onori terrà quattro seminari presso la Casa del Jazz sul tema “Il jazz che spezza le catene”. Domenica 13 ottobre il primo appuntamento cui faranno seguito le date del 27 ottobre, domenica, 19 e 24 novembre, ore 11-12,30, biglietto 8 euro (4 per studenti).

Quattro incontri per rileggere la storia afroamericana in musica: dalla rappresentazione della schiavitù alla “centralità africana”.

In particolare domenica 13 sarà esaminata la celeberrima la “Freedom Now Suite” di Max Roach

Il 27 sarà la volta dei “Castles of Ghana” di John Carter

Giovedì 19 novembre sotto la lente di Luigi Onori ci saranno Wynton Marsalis e il suo oratorio: “Blood on the Fields”.

Domenica 24 novembre chiusura con Randy Weston, “The Spirit of our Ancestors”

Carlo Rebeschini: le lezioni del Maestro

di Enrica Bacchia

Valdobbiadene 6 agosto 2019. Il tempo uggioso non promette certo bene quando sale sul palco accompagnato per l’occasione dai suoi amici: Gianni Fantuz alla batteria e Massimo Vanzan al basso. Visibilmente debilitato, ma nulla lo può trattenere e per oltre due ore e mezza manda in visibilio il suo pubblico giunto per l’occasione da mezza Italia. Ha regalato una ricca panoramica di brani jazz, rock, prog, funk, blues, quasi estraendo il succo vitale di ogni fraseggio e di ogni accordo, mischiando passione, padronanza della tecnica, cuore e anni di esperienza per farci gustare cocktail di ritmi e di note sapientemente filtrati dalla forte personalità artistica e umana.

È stata l’ultima esibizione del grande Artista Maestro Carlo Rebeschini deceduto il 25 settembre 2019.

Dicembre. Fine anni ’70. Ospitata dai fasci di luce puntati sui musicisti, la densa foschia fluttua con un ritmo decisamente opposto allo swing che ad ogni brano ti sta penetrando sempre più sotto pelle. Un impulso impossibile da tenere a freno: file di scarpe più o meno sincronizzate scandiscono il due e il quattro alternandosi allo snap delle dita. Stasera sembra che anche la fitta nebbia di questo gelido dicembre stia cercando un posto a sedere nel locale gremito di gente che assiste al concerto. Ma gli strati di nebbia che ti arrivano alle narici, trasformati in piccoli vortici danzanti ad ogni passaggio delle cameriere, odorano solo di sigarette. Un odoraccio di fumo che graffia gli abiti, gli spartiti, perfino il mio nuovo microfono, mischiandosi incontrollato ai gin tonic che scorrono nelle vene.

Questa sera, oltre al chitarrista Alberto Negroni, proprietario del primo mitico jazz club in provincia di Treviso, mi sto esibendo con un giovane pianista che incontro per la prima volta, un ragazzo che ad occhio e croce dovrebbe avere più o meno la mia stessa età. Lo sto studiando dall’inizio del concerto: le dita affusolate sanno come ottenere dalla tastiera le sonorità volute con una maestria che, quasi in contrasto con la giovane età, già sottintende una conoscenza rigorosa della tecnica musicale. Riesce a passare dal sound del jazz più tradizionale alla fusion e al rock con grande scioltezza. Senso del ritmo impeccabile, sostituzioni spinte, idee originali. L’assolo che sta eseguendo in “La Fiesta” di Chick Corea apre un portale che, per qualche istante, mi concede di accedere a quel suo fare (o almeno così immagino).

L’impressione è paragonabile a un’arrampicata in solitaria che libera il piacere di tastare appigli e appoggi, osa e al contempo scopre istante dopo istante il passaggio che porta, musicisti e pubblico, sempre più in alto, sempre più nell’emozione liberando la magia della musica… su, su fino alla vetta.

I lunghi capelli sciolti alle spalle, lo sguardo proiettato in una dimensione quasi onirica che osserva senza mettere nulla a fuoco, la presenza totale nella consapevolezza di ogni passaggio mai lasciato al caso e il perfetto interplay che intercorre tra i musicisti: con estrema naturalezza, il pianista sembra lasciarsi trasformare in un tramite e quindi permettere che sia lo stesso standard ad interpretare se stesso. È il primo pianista con cui collaboro che non si sta limitando alla perfetta – e troppo spesso arida – esecuzione tecnica della song. Sa come mantenersi bambino ispirato che scopre con meraviglia ciò che si fa da sé. Ne sono entusiasta: ecco un sognatore, un co-creatore di questo mondo.

Mi sto quasi innamorando del personaggio quando sulle note rarefatte dell’assolo del bassista – le dita sempre saggiamente piantate sulla tastiera – lo vedo chinarsi e bisbigliare qualcosa all’orecchio di un suo vecchio amico pigiato in prima fila, quasi di fianco al palco. Non ci posso credere: gli sta chiedendo i risultati della finale di calcio!

Dopo l’ultima jam, prendo tutto il coraggio che mi ritrovo e mi avvicino a questo sorprendente pianista. Desidero congratularmi per le emozioni di cui ci ha resi partecipi ma allo stesso tempo voglio chiedergli – con un briciolo di presuntuosa sorpresa – come abbia potuto far coesistere così spudoratamente la dimensione tanto coinvolgente dell’Arte con quella più ordinaria del calcio in uno spettacolo tanto coinvolgente come quello di stasera. …E quella sera ricevetti la mia prima lezione dal Maestro.

Con una semplicità quasi confidenziale Carlo iniziò a limare la presunzione tipica di chi, come la sottoscritta, pensava che il solo fatto di ritenersi creativo, bastasse a conferirgli uno status di distacco verso le piccolezze del mondo reale. La mia visione del mondo, a differenza della sua, mi autorizzava a ritenermi una vera Artista (si badi bene, di quelle con la A maiuscola). Un ideale avvalorato dal fatto che allora subivo il fascino, seguendoli sul campo mentre erano intenti alla preparazione del “Prometeo”, di personaggi del calibro di Luigi Nono ed Emilio Vedova (uno dei miei insegnanti all’Accademia di Belle Arti di Venezia); oppure duettavo con Bob Stoloff o Mark Murphy nei locali di mezza Italia ed ero ospite di Giorgio Gaslini e Renato Sellani: insomma, una botta di ego da paura!

Le parole scambiate con Carlo dopo quell’assolo connesso alla partita del campionato di calcio, parole che ricordo ancora a distanza di quarant’anni e che hanno marcato tanto profondamente il mio canto, rimangono quale testimonianza della profondità del suo stile consolidatosi nel tempo: come se si limitasse ad essere un semplice testimone del gioco, nella bilancia della vita aveva contrapposto il peso della musica a quello del calcio facendo rimanere i piatti in perfetto equilibrio. Per usare le parole toccanti di Padre Francesco Rigobello nel rendergli l’ultimo saluto nella splendida Abbazia di Follina gremita di persone fino all’inverosimile, per il Maestro “il valore di ogni singolo aspetto della vita era ed è rimasto sempre grande: sapeva vivere la perfezione dell’Universo” con uno stile empatico, inclusivo, incantato davanti a tutte le forme dell’esistenza.

Settembre 2019. WhatsApp. “È Carlo Rebeschini – dico a mio marito nell’altra stanza – Ha pronto il brano. Ti ricordi… quello che aveva promesso di scrivere per me la sera del Pan e Vin in cui è venuto a cena da noi. Ah… Però mi dice che dobbiamo andare noi da luiCi vieni anche tu?

Il suo bel appartamento di Follina che odora sempre di una fragranza antica, fresca e pulita. Nel tardo pomeriggio settembrino il salone vive di una luce solare brillante. Siamo accolti dal dolce sorriso della moglie Carla ma allo stesso tempo avverto un po’ di sommessa animazione data da una singolare complicità amorevole di tutte le donne di casa.

Ciao Carlo… Eccoci finalmente! – gli dico porgendogli una rosa rossa colta in giardino – Glauco ti ha portato una bottiglia di vino speciale” Un istante di imbarazzo: mi rendo subito conto che vino e morfina non possono andare certo d’accordo.

Il suo solito sguardo presente e solamente un paio di frasi quasi a giustificare la malattia, ancora una volta buttate lì come una confidenza che avesse poco a che fare con il motivo della nostra visita. Non una parola di autocommiserazione. Poi subito la carrozzella si sposta alle tastiere già accese per farmi ascoltare il brano affrescando, con grande trasporto, il significato del titolo abbozzato a matita sullo spartito: “Abbraccio l’Albero”.

Ci stavamo confrontando discorrendo beatamente su tonalità, ritmo, sound, testo della canzone e per una frazione di secondo vidi il personaggio con cui avevo la fortuna di parlare: avevo di fronte colui che era stato docente al Conservatorio di Castelfranco, pianista e clavicembalista dell’Orchestra del Teatro La Fenice di Venezia per 36 anni, direttore dell’Orchestra di Padova e del Veneto, dell’Orchestra del Teatro Olimpico di Vicenza e di altre da lui stesso formate, il prezioso collaboratore e arrangiatore a fianco dei grandi come Eddy Busnello, Vinicio Capossela, Marco Paolini, Mango, Ruggeri, Boris Christoff, Sting – solo per citarne alcuni – e ancora l’amico del grande musicista Don Mansueto Viezzer, di cui era stato esecutore e direttore d’orchestra delle principali opere. Riprovavo gli stessi brividi di emozione vissuti nelle cattedrali gremite di pubblico quando le voci dei numerosi coristi che ha diretto centinaia di volte, si facevano trasportare quasi ipnotizzate da quella sua direzione paradossalmente ricca di un’umile autorevolezza.

Avvertivo come in quel paio d’ore stesse scrivendo per noi, nel copione dell’esistenza, una nuova improvvisazione, libera ma connessa al tutto, in un intimo dialogo col mistero stesso della vita e della morte. Ancora una volta lo stavo studiando: sembrava non temesse di accogliere come naturale il semplice pensiero della fine dell’esistenza terrena. A testimonianza di questo avevo notato che, come spesso accade quando l’umano si lascia trasportare dal grande dolore, non aveva permesso che l’essenza negativa dell’infermità intaccasse le stanze, gli oggetti e perfino i suoi cari. La sua volontà appariva così forte che il pensiero della morte (tabù per la nostra cultura) si stava traducendo in una vitalità quasi affrettata che si esprimeva con la mobilità particolare degli occhi o con il massimo disappunto verso la tecnologia che non gli permetteva di trovare il file corretto da passarmi in chiavetta, ma anche con la voglia di suonare ancora e ancora quasi a trovare una sorta di solidarietà benigna con l’ignoto.

Nel viaggio di ritorno verso casa, per parecchi minuti tra me e mio marito non ci fu dialogo. Era evidente che ci sentivamo toccati nel profondo e, tacitamente, non volevamo cedere alla tentazione di esternare qualsivoglia banale commento su ciò che avevamo percepito. Nonostante la gravità della malattia dalle sue labbra non era uscita una sola parola di rammarico, neanche la più piccola lamentela, dimostrando come in questo inevitabile frangente fosse consapevole di trovarsi sul ciglio della scoperta suprema. Per dirottare lo spauracchio del dolore, mi misi a verificare la qualità delle foto dello spartito che avevamo scattato col cellulare, apprezzando la fiducia che Carlo mi aveva dimostrato lasciandomi libera di re-interpretarne sia il testo che la melodia con la promessa che l’avremmo incisa quanto prima.

A distanza di pochi giorni risalivo la bella gradinata di marmo che portava al piano superiore del suo appartamento. I contorni grigi degli amici e parenti più stretti, in attesa di assistere alla cerimonia funebre che si sarebbe tenuta di lì a poco contrastava con l’energia leggera e ancora una volta ricca di luce che si diffondeva in quello che era stato il salone/studio di Carlo Rebeschini, stranamente libero da persone. Rimasi da sola per qualche minuto e respirai a fondo quell’essenza brillante fatta di tutto l’amore di quella famiglia, di musica e soprattutto del grande Maestro.

Enrica Bacchia

Sarah-Jane Morris e Antonio Forcione a Madame Guitar: una Musica senza compromessi per riscoprirsi comunità…

A Madame Guitar, Festival della chitarra acustica che si svolge a Tricesimo (Ud), c’ero stata nel 2015, per seguire e raccontare i concerti della decima edizione; ci sono ritornata nel 2019 e ho ritrovato gli stessi, incantevoli elementi “scenici”: tanta musica di qualità – 24 concerti in tre giorni – e un borgo dalla storia antica, con un importante patrimonio di chiese, castelli e case contadine dal fascino sempiterno, tracce di un passato che racconta di insediamenti risalenti niente meno che all’epoca preistorica.

In mezzo a tante perle, ho scelto di recensire il concerto che più mi ha coinvolta, dal punto di vista musicale ma anche emotivo e, se vogliamo, sociale.

Sto parlando del duo composto dal chitarrista Antonio Forcione, molisano d’origine che vive a Londra da quasi quarant’anni e che il Guardian inserisce nel gotha dei chitarristi acustici, e da Sarah-Jane Morris, una voce multi-ottave sbalorditiva, in grado di esprimere uno spettro infinito di colori primari, secondari, terziari… e di contrasti policromi che neppure il cerchio cromatico di Johannes Itten riuscirebbe a circoscrivere!

ph: Angelo Salvin ©

Sul palco del Teatro Garzoni, nella giornata di apertura del festival (venerdì 20 settembre) Morris e Forcione sono stati preceduti da un talentuoso duo di chitarristi provenienti dall’Umbria, i Fingerprint Project, ovvero Michele Rosati e Rachele Fogu, che hanno fatto vibrare la platea con virtuosismi, eseguiti sempre in souplesse, così come il fingerstyle, il tapping, gli arpeggi, con ottimi arrangiamenti e, soprattutto, con un’impronta stilistica un po’ fuori dai canoni.

Il secondo set ci ha riservato una sorpresa inaspettata: l’americano Trevor Gordon Hall e il suono trascendente della sua ‘kalimbatar’, uno strumento da lui stesso inventato che riunisce chitarra e kalimba, corde e denti metallici, in un’unica cassa armonica. I suoi pezzi sono vere e proprie sculture sonore che regalano nuove prospettive di ascolto e arcane sensazioni uditive… Non ci credete? Provate a cercare su Youtube la sua versione di “Clair de Lune” di Claude Debussy, arrangiata per kalimbatar…

Il penultimo concerto della lunga serata è stato quello del  maestro sardo Marino De Rosas, che ha da poco pubblicato un album prezioso «Intrinada» (anche perché ne pubblica uno ogni dieci anni!).

Un set dal forte carattere stilistico, intenso: chitarra con accordatura alternativa, scale arabe, stratificazioni sonore, mood che mutano dal malinconico crepuscolare alle solari melodie mediterranee e ibridazioni culturali tra la penisola iberica e la Sardegna. Tutto ciò senza dimenticare che la sua anima, un tempo, era decisamente più orientata verso il rock… da qui lo splendido medley finale con, in sequenza, “Eleanor Rigby”, “Paint it Black” e “Jump”.

Marco Miconi, patron di Madame Guitar, fatica non poco a quietare l’entusiasmo del pubblico che lo reclama per un altro bis, “Cannonau”, dall’album «Meridies».

In questa notte infinita – ma che sta per finire – manca solo l’ultimo set, il più atteso: il palco è tutto per Sarah-Jane Morris e Antonio Forcione.

Sarah-Jane sembra uscita da un quadro preraffaelita di Dante Gabriel Rossetti, la “Ghirlandata”, con i suoi capelli rossi e l’elegante l’abito a fiori dalle sfumature autunnali, verde cinabro, ardesia e borgogna; Antonio con il suo cappellino nero pare un filibustiere, un freeboter, libero predatore di note.

Il primo brano, “Awestruck”, parla di una donna dagli amori compulsivi e ci proietta subito in una dimensione alta, dove ritrovi Billie Holiday, Nina Simone, Sarah Vaughn e Janis Joplin, timbri sabbiati e graffianti, ironia e un raffinato latin sound, con un ritornello immediatamente cantabile anche da chi non conosce la canzone.

Un sottile fraseggio di Antonio apre “Comfort zone”, un ricamo delicato che si contrappone alla drammaticità del testo che è pura poesia, pur parlando di violenza sulle donne, ed è dedicata alle 5 prostitute inglesi di Ipswich che nel 2006 vennero trucidate da un serial killer. Sarah la propone in una sorta di Sprechgesang, una forma di recitazione cantata. Molto toccante.

“All I want is you” è un pezzo, come i primi due, scritto dalla Morrris e da Forcione e tratto dal loro più recente album «Compared to what» (senza il punto interrogativo perché – dicono i due artisti – “non è una domanda, non cerchiamo confronti. È il nostro modo di affermare che noi siamo noi!”). Lo ascolto con pensosa leggerezza, immaginando, senza nulla togliere alla splendida interpretazione di Sarah-Jane, che il brano si attaglierebbe perfettamente alla vocalità dell’indimenticato Al Jarreau, inarrivabile, a volte, come in “Roof Garden”, che sento affine a “All I want is you”. E ne rimango affascinata.

Sul fronte delle cover, una “Superstition” di Stevie Wonder versione stripped down che, spoglia della sezione fiati, poteva anche non funzionare e invece è pazzesca! La quintessenza del funk in una chitarra e in una voce… che qui sprigiona tutta la sua energia e potenza soul mentre Antonio, con la sua chitarra acustica, riempie il suono come se sul palco ci fosse un’intera band. “Message in a bottle”, capolavoro dei Police, viene presentato da Sarah usando un ossimoro: loneliness together, solitudine insieme… e la metafora del naufrago è un messaggio che arriva forte attraverso la voce della vocalist inglese, che riesce ad esprimere pienamente il senso di disagio e di emarginazione dell’essere umano nella società moderna. L’ultima cover (il bis), un’evocativa e ieratica “Blowin’ in the wind” di Bob Dylan, inizia con una intro di Antonio dal languore malinconico… suoni delicati e un graffiare le corde che ricorda, grazie all’effetto delay, il soffiare del vento. La voce di Sarah-Jane, in certi momenti sussurrata, ha la dolcezza di una ninna nanna… e suona meravigliosamente strana, perché da lei ti aspetteresti sempre un approccio più “muscolare”… alla fine lei emette un suono che simula una folata improvvisa e noi ci chiediamo se prima o poi le risposte ai tanti interrogativi delle nostre anime inquiete arriveranno portate da un alito di vento.

In una scaletta che affronta con profondità e partecipazione temi sociali di attualità non poteva mancare l’immane tragedia dei migranti nel mar Mediterraneo, raccontata in “The Sea”, un blues che inizia con un recitativo e una frase ripetuta in loop : “not in my name, not in my name…” che ci fa ricordare come, dopo anni e anni di lotte, ci sia ancora molto da lavorare sul fronte dei diritti civili. Purtroppo…

Nell’ultima parte di questa viscerale performance ascoltiamo anche “All of My Life”, in cui la cantante racconta l’esperienza del divorzio (è stata lungo sposata con David Coulter dei Pogues N.d.R) e “Compared to what”, un brano scritto nel 1966 da Gene McDaniels come denuncia contro la guerra nel Vietnam e reso famoso da Roberta Flack, sebbene per noi jazzofili rimanga memorabile la versione del pianista Les McCann e del sassofonista Eddie Harris al Montreux Jazz Festival del 1969.

Antonio lo ripropone con un incisivo stile slap funk, scelta perfetta per la splendida voce di Sarah-Jane che ti sconquassa l’anima con una tempesta emotiva e passionale.

“Tryin’ to make it real — compared to what?” – recita un efficace ed ossessivo riff –   e alla fine la vocalist sciorina una sequela di personaggi che, ognuno nel proprio campo, per il coraggio e l’unicità delle azioni compiute, che sembravano utopie, hanno reso possibile l’impossibile: Marthin Luther King, Madiba (Nelson Mandela), Stephen Biko, Carl Marx, Leyla Hussein, il Dalai Lama, Indira Gandhi ma anche Oscar Wilde, John Lennon, Woody Guthrie, James Brown, Robert Wyatt e molti altri… tutti mossi dalla stessa enorme passione e dalla voglia di rendere il mondo un posto migliore.

Io esco dal teatro, dopo aver parlato un po’ con Sarah e Antonio, con l’idea che dobbiamo riscoprire una nuova dimensione sociale, un nuovo èthos, un tempo di bellezza, di passione, di impegno, ritrovando il senso della comunità…

Marina Tuni

Si ringrazia Angelo Salvin per le immagini e il direttore artistico, assieme allo staff di Madame Guitar.