Kamasi Washington I molti perché di un successo travolgente

 

Il 20 luglio Roma è stata l’ultima tappa del tour italiano del sassofonista afroamericano Kamasi Washington, dopo Bari (18) e Bologna (19, Botanique festival).

L’artista losangeleno con il suo gruppo è stato ospite del “Viteculture Festival” – rassegna musicale con spazi per intrattenimento, formazione ed animazione sociale – spostatosi dal parco del laghetto di Villa Ada all’ex Dogana. Il luogo comprende alcuni edifici ma è soprattutto una spianata d’asfalto sotto la tangenziale con vista sui treni che arrivano e partono dalla stazione Termini, posto frequentato soprattutto dai giovani, con il pubblico in piedi sotto al grande palco. Luogo, quindi, non connotato jazzisticamente: del resto Kamasi Washington dal 2015 sta sorprendendo la critica per la sua capacità di arrivare ben al di là dei circuiti jazzistici con una musica impregnata di spiritualità e psichedelia ed estimatori (nonché collaborazioni) come Kendrick Lamar, Snoop Dop e Lauryn Hill (di cui Washington è stato “special guest” al Summer Festival l’8 luglio scorso).

Il sassofonista oggi trentacinquenne si è affermato nel 2015 con il triplo Cd “The Epic”, prodotto dall’etichetta Brainfeeder del rapper Flying Lotus; il referendum della rivista americana <<Down Beat>> lo ha proclamato miglior album dell’anno, tributando a Kamasi Washington il doppio titolo di miglior artista jazz e miglior sassofonista emergente. Come ogni fenomeno di successo, il musicista di Los Angeles è stato guardato soprattutto in Europa (e in Italia) con sospetto, anche se il mensile <<Musica Jazz>> ne ha parlato a più riprese.

Il recital romano ha fornito qualche chiave di lettura per capire i motivi di “appeal” della musica di Washington. Intanto il gruppo si muove in una dimensione corale, diretto più che dominato dalla figura sciamanica del sassofonista con lunghi capelli, tunica, medaglione. Tutto, però, appare non artefatto, come la cantante Patrice Quinn che segue la musica con minime coreografie che tradiscono un’immersione totale nel suono. Il leader fa perno su una coppia di batteristi – disposti specularmente -, bassista-contrabbassista, il tastierista Brandom Coleman, il trombonista Ryan Porter ed il sopranista Ricky Washington.

La sezione ritmica usa, in prevalenza, una scansione molto energica ed evita timing jazzistici, oscillando tra funky, reggae e sequenze free. Tutto suona iterativo, poliritmico, “powerfull”. In questo senso i primi due brani del concerto soggiogano il pubblico: sono ipnotici, pervasi di spiritualità, screziati di elettronica, a tratti danzabili e cantati. Hanno un andamento che vede la trama sonora infittirsi con elementi tematici ripetuti ad libitum, quasi in un mantra. Kamasi Washington si ispira (lo ha sempre dichiarato) a John Coltrane e Pharoah Sanders ed ha citato “Lonely Woman” di Ornette Coleman; aggiungerei tra gli ispiratori Sonny Rollins perché nella costruzione degli assoli è molto ritmico (note ribattute, riferimenti tematici) e pur improvvisando con furia resta vicino all’idea di partenza. Nei soli Washington si dona integralmente mentre nelle parti d’assieme vengono sfruttati abilmente i tre fiati. Eccellente il tastierista che usa timbri e colori molto diversi come il trombonista, fantasioso ed elettroacustico.

Nel proseguire del recital si riconoscono un paio di titoli da “The Epic”: una particolare versione di “Cherokee”, a tempo lento e in un arrangiamento soul; “The Rhyhm Changes” tra reggae e raggamuffin’, con un testo che inneggia al mutamento, un solo travolgente del leader e la capacità di caricare un pubblico già entusiasta.

Del resto Kamasi Washington non sembra voler fermare la sua musica. E’ stato annunciato l’ingresso nell’etichetta londinese Young Turks mentre dovrebbe uscire quest’estate l’EP “Harmony of Difference”. Il sesto movimento si intitola “Truth” ed è alla base di un video omonimo diretto da regista A.G.Rojas (presentato in marzo a New York e visibile su you tube). E’ incentrato su giovani personaggi dei quartieri South Central ed East L.A. per mettere in risalto la bellezza delle loro differenze nella “speranza che testimoniare la bellezza e al armonia creata dalla fusione di diverse melodie musicali aiuterà le persone a realizzare la bellezza nelle nostre differenze”, come ha dichiarato a sua tempo l’artista. Un messaggio di pace e di tolleranza che fa parte della spiritualità di un musicista da non sottovalutare.

SNARKY PUPPY La band del momento

 

Articolo di Luigi Viva

 

Erano anni che non si vedeva un gruppo jazz con una tale impatto, progettualità ed idee. Scomparse le grandi band stabili (Pat Metheny Group, Joe Zawinul, Chick Corea e ancor prima Miles Davis), il jazz elettrico e più contaminato stava attraversando una certa crisi, complice anche lo streaming e il download che hanno dimezzato gli introiti dalle vendite di cd e dvd.

Gli Snarky Puppy in tredici anni di duro lavoro (il  loro leader Micheal League ha 33 anni), si sono imposti all’attenzione mondiale come la band del momento. L’attuale tour (oltre quaranta concerti in Europa) sta registrando numerosi sold out come quello di Londra (5.000 biglietti venduti).

Nati nel 2004, dodici album all’attivo, un susseguirsi di tour (superata  quota 1300 concerti)  e l’investitura di ben tre Grammy  ( nel 2013 per l’esecuzione di Something con Lalah Hathaway, contenuto nel loro album Family Dinner– Volume One, nel 2015 per l’album SYLVA inciso con la Metropole Orkest e nel 2016 per CULCHA VULCHA che ha trionfato come Best Contemporary Instrumental Album). Non bastasse, anche il  prestigioso referendum di Down Beat  li vede vincitori dal 2015 nella categoria miglior gruppo jazz, scalzando grandi nomi quali Pat Metheny, Herbie Hancock e Chick Corea.

Quattro le date italiane: Torino, Trento, Pisa e Bologna anch’esse esaurite da giorni.

Moltissimi giovani presenti e molti musicisti accorsi per toccare con mano la bravura di questa band. . Questa la formazione: Michael League – basso, keybass, Larnell Lewis – batteria, Marcelo Woloski- percussioni ,Chris McQueen – chitarra, Bill Laurance – tastiere, Justin Stanton- tromba e tastiere, Mike Maher – tromba e flicorno, Chris Bullock e Bob Reynolds  Sax.

Aspettative non deluse. Finalmente ad un concerto ci si diverte, si ascolta musica di gran qualità, suonata da eccellenti musicisti, guidati da un leader come Micheal League che sa, come e quando, intervenire nelle improvvisazioni, modificando la scaletta (totalmente differente quella di Pisa dalla data precedente) senza alterare il risultato : gran musica e soddisfazione che unisce pubblico e musicisti.

Nei camerini, come nel palco, l’atmosfera è rilassata ed amichevole, nessun problema di ego, disponibilità con il pubblico al quale gli Snarky dedicano del tempo nel dopo concerto. Che dire, dopo anni di noia, di proposte musicali spocchiose, arrivano loro che con talento  si impongono suonando a livelli incredibili, riproducendo dal vivo in maniera ottimale anche i loro album più complessi senza utilizzare alcun tipo di sequenze, abusate e tanto da molti artisti, incluso Pat Metheny.

In scaletta brani dal loro ultimo brano CULCHA VULCHA (Palermo, Tarova, Gemini, Big Ugly  trascinante brano con League al Key bass. Dal vecchio repertorio solo pezzi  da  WE LIKE IT HERE uscito nel 2014 : Tio Macaco con un travolgente duello percussivo fra Marcelo Woloski e Larnell Lewis , Outlier con il sassofonista  Bob Reynolds in grande evidenza ,  What About Me?  e  Lingus  pezzo forte degli Snarky , brano tiratissimo e nel quale con grande sapienza Michael Leaugue ha collocato lo struggente  solo di Bill Laurance al piano.

Prossimo album degli Snarky Puppy previsto per il 2018, nel frattempo Michael League tornerà in Italia questa estate con la sua nuova produzione Bokantè con tre concerti italiani: il 21 luglio a Roma (da confermare), il 22 Locus festival  a Locorotondo ( Bari) e il  25  a Fano.

 

I NOSTRI CD. Una sventagliata di nuovi album dal blues alla musica contemporanea

a proposito di jazz - i nostri cd

John Abercrombie Quartet – “Up and Coming” – ECM 2528

In questo album, che apre la stagione 2017 della ECM, ritroviamo il chitarrista John Abercrombie alla testa di un quartetto composto da “vecchi amici”, se ci passate il termine, vale a dire Marc Copland al piano , Drew Gress al contrabbasso e Joey Baron alla batteria. In un modo o nell’altro Abercrombie, anche nel recente passato, ha avuto modo di collaborare con i musicisti su citati : basti ricordare, al riguardo, l’album “39 Steps” del 2013 che tanti consensi ottenne da pubblico e critica. Ciò per sottolineare come il quartetto già prima di entrare in sala di registrazione per quest’ultimo album fosse ben rodato e pronto a seguire le linee direttrici tracciate dal leader. Linee che si sostanziano innanzitutto nella ricerca di una bella linea melodica supportata da raffinate armonizzazioni e quindi nello splendido suono della chitarra di Abercrombie che dialoga magnificamente con il sound più robusto del pianoforte; l’intesa tra i due è a tratti sorprendente: John e Marc sanno ascoltarsi, comprendersi e mai accade che una intuizione, un input lanciato da uno dei due non venga prontamente captato e sviluppato dall’altro. Così il fraseggio liquido, scorrevole di Abercrombie, a fronte del pianismo più articolato e dinamico di Copland, crea spesso una tensione che affascina l’ascoltatore attento. Ovviamente questo continuo gioco di rimandi non sarebbe stato possibile se i due non fossero stati accompagnati da una eccellente sezione ritmica in grado di fornire un supporto di grande flessibilità ed eleganza. Caratteristiche queste che si riscontrano per tutta la durata dell’album, sia che il gruppo interpreti le cinque composizioni di Abercrombie, sia che ad assumere il ruolo del compositore per due volte sia Marc Copland, sia, infine, che si faccia rivivere un capolavoro assoluto quale “Nardis” di Miles Davis.

Theo Bleckmann – “Elegy” – ECM 2512

In perfetta sintonia con il titolo, atmosfere sognanti, oniriche quella disegnate dal vocalist e compositore tedesco Theo Bleckmann al suo esordio da leader nell’ambito della prestigiosa etichetta ECM. Ad onor del vero Theo aveva già registrato per la casa tedesca ma come sideman: lo ritroviamo, infatti, accanto a Julia Hulsmann in “ A Clear Midnight—Weill and America” (ECM, 2015) e ancora con Meredith Monk ‎in “Mercy” (ECM, 2002) e “Impermanence” (ECM, 2008) album, questi ultimi due, in cui suona anche lo stesso batterista di “Elegy”, John Hollenbeck. Ma soffermiamoci adesso su quest’ultima produzione di Theo che ha scelto di guidare un quintetto completato da Ben Monder chitarra, Shai Maestro piano, Chris Tordini, contrabbasso e, come si accennava, John Hollenbeck batteria. Il gruppo appare perfettamente funzionale alle idee del leader vale a dire una musica semplice ma non banale, un organico che si esprime quasi per sottrazione, la precisa volontà di non prediligere il lato virtuosistico della performance ma di affidarsi all’espressività, ad una concezione che in qualche modo potremmo avvicinare al cosiddetto minimalismo. Ovviamente per raggiungere in pieno tali obiettivi occorreva un repertorio acconcio: di qui i dodici brani presenti nell’album, tutti a firma del leader eccezion fatta per “Comedy Tonight” tratto da “A Funny Thing Happened on the Way to the Forum” , musical andato in scena per la prima volta a Broadway nel 1962, con musiche e versi di Stephen Sondheim. I brani sono tutti interessanti anche se una menzione particolare la merita “The Mission” un vero e proprio esercizio di bravura per Theo Bleckmann che dimostra ancora una volta, se pur ce ne fosse bisogno, quanto sia meritata la stima di cui gode nell’ambiente musicale di tutto il mondo.

Dave Brubeck – At The Sunset Center – Solar 4569973

Questo album riporta, per la prima volta integralmente, il concerto tenuto dal quartetto di Dave Brubeck al ‘Sunset Center’ di Carmel (California) nel giugno del ’55. La ‘storica’ collaborazione tra il pianista Dave Brubeck e il sassofonista Paul Desmond era iniziata nel 1946 all’interno di un ottetto dal sapore vagamente sperimentale. Negli anni a venire, in particolare nel 1951, Brubeck e Desmond costituirono un quartetto completato da Fred Dutton al basso e Herb Barman alla batteria, questi ultimi poi sostituiti rispettivamente da Bob Bates e Joe Dodge. In quel periodo il quartetto, nonostante avesse tenuto diversi concerti soprattutto in università e college, realizzò solo un album “Jazz Goes To College” registrato nel corso di vari concerti in college nel 1954. Di qui l’interesse non solo artistico ma anche storico dell’album in oggetto. Dal punto di vista squisitamente musicale, non occorrono certo molte parole per sottolineare come si ascolti una delle formazioni più importanti della storia del jazz, una formazione che seppe dire qualcosa di originale. Certo lo stile può piacere o meno ma il ruolo ricoperto da Brubeck e Desmond resta lì, indiscutibile. L’album contiene otto standards registrati, come si accennava al ‘Sunset Center’ di Carmel cui è stata aggiunta una inedita versione di “Two Part Contention” dello stesso Brubeck registrata durante un concerto al ”Basin Street Club” di New York del 1956. Un’ultima notazione di carattere cronachistico: il “Sunset Center” era un teatro che ospitava dei cicli di concerti jazzistici ed è proprio lì che il 19 settembre dello stesso 1955 Erroll Garner registrò il suo indimenticabile “Concert by the Sea”.

François Couturier, Tarkovsky Quartet – “Nuit blanche” – ECM 2524

Parlare semplicemente di jazz a proposito di questo album appare improprio: siamo piuttosto nel campo della musica contemporanea eseguita da artisti che hanno frequentazioni importanti con il mondo del jazz. François Couturier piano, Anja Lechner violoncello, Jean Marc Larché sax soprano, Jean Louis Matinier accordéon sono infatti musicisti che abbiamo spesso incontrato in contesti più prettamente jazzistici. Da qualche tempo i quattro hanno costituito questa formazione dall’organico assai insolito che hanno chiamato “Tarkovsky Quartet” in omaggio ad Andrei Arsenyevich Tarkovsky, celebre regista russo scomparso nel 1986. Ancora una volta il quartetto si impone alla generale attenzione per la profondità di campo che riesce a dare alla sua musica. Ascoltando i diciassette brani dell’album – di cui sette sono libere improvvisazioni e gli altri scritti da Couturier da solo o con gli altri compagni di strada – non si può non restare colpiti dalla purezza del suono, dalla estrema linearità con cui si esprime ciascun artista, dall’atmosfera dialogante per cui violoncello e fisarmonica riescono ad esprimersi su un piano di assoluta parità e soprattutto dalla straordinaria capacità improvvisativa dei singoli che, anche nel caso dei brani scritti, trovano ampi spazi per dar libero sfogo alla fantasia. Di qui una musica aperta, nuova ad ogni ascolto, ricca di sottigliezze. E, per chiudere, consentitemi di sottolineare la straordinaria prestazione di Jean Louis Matinier il quale dimostra, se pur ce ne fosse bisogno, come la fisarmonica, se in mani sapienti, sia strumento adatto ad ogni situazione, anche la più sofisticata e quindi lontana da quel recinto popolare cui ancora oggi molti vorrebbero rinchiuderla.

Matt Dibble, Fabio Zambelli – “Songs and Soundscapes” – Xtreme

Album interessante questo proposto da Matt Dibble e da Fabio Zambelli; il clarinettista inglese e il chitarrista italiano hanno costituito da qualche tempo un duo che tralascia facili situazioni per addentrarsi in terreni scivolosi, imprevedibili come quelli rappresentati dalla ricerca e dalla sperimentazione. Intendiamoci: mai abbiamo sostenuto che ricerca e sperimentazioni nel campo musicale siano valori in sé, occorre che le stesse siano sostenute da profonda conoscenza della materia musicale, da eccellente tecnica di base e soprattutto – almeno a nostro avviso – da una onestà di fondo che si sostanzia nell’assoluto abbandono di qualsivoglia ansia di stupire, di meravigliare. Ebbene, ascoltando l’album in oggetto, sembra proprio che i due artisti abbiano le carte in regola per soddisfare anche i palati più esigenti: la loro è una musica tutta basata sull’interplay, sulla coralità, ben equilibrata tra parti scritte (songs) e improvvisazioni (soundscapes), sempre alla ricerca di soluzioni nuove, affascinanti, impreziosite da belle linee melodiche e da una robusta tecnica strumentale. Questi elementi non stupiscono ove si tenga presente che i due si sono conosciuti nel 2001 a Londra, durante i loro studi di jazz performance e composizione presso il conservatorio “Guildhall school of music and drama” e che successivamente hanno suonato, tra l’altro, nella GSMD jazz band misurandosi su repertori di jazz classico e contemporaneo, e con cui hanno vinto il premio BBC come migliore orchestra jazz Britannica. Nel corso della loro attività, prima di questo “Songs and Soundscapes”, hanno inciso nel 2009 in Francia come duo “Minor Mood”, poi pubblicato nel 2011 da Sonitus, e quindi “Spring” sempre in duo pubblicato nel 2015, album che hanno aperto la strada quest’ultima realizzazione.

Duke Ellington – “Blues in Orbit + The Cosmic Scene” – Essential Jazz Classics 2 CD

Duke Ellington – “Sacred Concerts” – “Rondeau”

Il perché di questi due titoli , “Blues in Orbit” e “The Cosmic Scene”, viene illustrato efficacemente nell’esaustivo libretto che accompagna i CD laddove si spiega che, dopo il lancio nello spazio dello Sputnik 1 di fabbricazione sovietica il 4 ottobre del 1957, l’idea di poter viaggiare nello spazio conquistò l’animo della gente. Neanche il jazz ne rimase immune come dimostrano questi due album di Ellington risalenti al 1958-59, ma non solo ché altri lavori dedicati allo spazio furono registrati da Dave Brubeck e da George Russell. Ciò detto occorre sottolineare come i due CD di Ellington contengano integralmente gli LP originari con l’aggiunta di ben diciotto bonus tracks di cui otto alternative takes tratte dalle stesse sedute di registrazione e dodici da altre date. Nel primo album compare la band ellingtoniana al completo mentre nel secondo si può ascoltare un nonetto di livello assoluto con la presenza dei più rappresentativi solisti dell’orchestra. Ellington prese la decisione di ridurre l’orchestra ad un nonetto dopo lo strepitoso successo ottenuto al Newport Jazz Festival del 1956, sempre alla ricerca di nuove vie espressive. Straordinario il repertorio dei due album comprendente sia celebri standard rivisitati e riattualizzati sia nuove composizioni mai registrate in precedenza. Dal punto di vista squisitamente musicale, ambedue gli album sono semplicemente straordinari: l’orchestra ellingtoniana è colta in uno dei suoi momenti migliori, impreziosita dagli assolo di Paul Gonsalves, di Clark Terry, di Jimmy Hamilton, di Johnny Hodges … e via discorrendo in una galleria delle meraviglie che comprende alcuni dei migliori solisti che la storia del jazz possa vantare.
Il secondo CD contiene una recente (2015) registrazione live di brani tratti dai concerti sacri di Ellington, effettuata in Germania dalla Big Band Fette Hope e dal Junges Vokalensemble Hannover sotto la direzione rispettivamente di Timo Warnecke o Jorn Marcussen-Wulff Klaus e di Jürgen Etzold . E’ noto agli appassionati di jazz come i concerti sacri rappresentino , almeno nella considerazione dello stesso Ellington, le pagine più importanti da lui scritte nel corso degli anni. Composti tra il 1962 e il 1973 i tre Concerti rappresentano al meglio l’anima del compositore e la sua stessa concezione della spiritualità. Ben si capisce, quindi, il perché questa musica non venga spesso eseguita risultando assai difficile ricreare le emozioni che Ellington trasmetteva con la sua orchestra. Ben venga, quindi, questa impresa che ci restituisce pagine di musica che non conoscono età. E bisogna dire che sia la band sia i vocalist se la cavano assai bene: da un punto di vista orchestrale, la band riesce a rappresentare quella concezione orchestrale che caratterizzava l’opera di Ellington mentre i cantanti sono tutti all’altezza del compito: Claudia Burghard (mezzo soprano), Joachim Rust (baritono), magistralmente supportati dal già citato Junges Vokalensemble Hannover, danno energia a brani celeberrimi come “Ain’t But The One”,“Come Sunday” , “Something’Bout Believing” riportandoli all’attualità del nuovo secolo.

Ellery Eskelin Trio – “Willisau Live” – hatOLOGY 741

Oramai vicino ai sessanta, il tenorsassofonista statunitense Ellery Eskelin è stato definito da “Down Beat” il miglior artista nel campo della musica creativa di oggi. E per avere conferma di quanto tale considerazione sia meritata basta l’ascolto di questo album registrato dal vivo durante il Festival Jazz di Willisau, in Svizzera, il 28 agosto 2015. Ellery suona in trio con Gary Versace all’organo Hammond B3 e Gerry Hemingway alla batteria. L’organico è inusuale ma non per il sassofonista che sta esplorando questa particolare formula già dal 1994 quando costituì un trio con il tastierista Andrea Parkins e il batterista Jim Black, formula ulteriormente perfezionata nel 2011 con la creazione del Trio New York, dove accanto a Eskelin e Versace c’era Gerald Cleaver alla batteria, in questi ultimi tempi sostituito per l’appunto da Gerry Hemingway. Ed eccoci alla serata del 28 agosto 2015 a Willisau: il trio inizia la sua performance con una medley lunga oltre cinquanta minuti in cui figurano, in successione, un originale – “Our (or about)” –firmato da tutti e tre i musicisti, e tre standard , “My Melancoly Baby”, “Blue and Sentimental” di basiana memoria ed “East of the Sun”. Il set si chiude con altre due perle, la monkiana “Wee See” e “I Don’t Stand A Ghost of A Chance With You”. Ebbene dal primo all’ultimo istante la musica del trio appare innervata da una grande energia e dalla perfetta consapevolezza, da parte di tutti e tre i musicisti, di stare esplorando nuove strade pur restando fortemente ancorati alla tradizione. Di qui il fraseggio e la sonorità del leader che dimostra di aver ascoltato e assimilato la lezione dei grandi del passato quali, tanto per fare qualche nome, Sonny Rollins e Ben Webster; di qui il fantasioso apporto ritmico, davvero originale e timbricamente unico, della batteria di Hemingway che deve aver molto apprezzato le sezioni ritmiche delle orchestre di Count Basie; di qui il particolare approccio alla materia sonora da parte di Versace che stravolge un po’ il modo di suonare di Jimmy Smith, da un tutto pieno ad un gioco di pause e di sottigliezze timbriche non proprio usuali nel mondo degli organisti.

Cameron Graves – “Planetary Prince” – Mack Avenue 1123

Cameron Graves al pianoforte , Kamasi Washington al sax tenore: dovrebbero bastare solo questi due nomi per far capire che tipo di musica si ascolta in questo cd. Ma il gruppo è più largo e comprende altri eccellenti musicisti del moderno jazz di Los Angeles quali il trombettista Philip Dizack, il trombonista Ryan Porter, ed una formidabile sezione ritmica costituita dal batterista Ronald Bruner Jr., dal bassista elettrico Hadrien Feraud considerato oggi un numero uno e dal contrabbassista Stephen “Thundercat” Bruner. La presenza di Kamasi Washington in questo album di debutto come leader di Cameron Graves non deve meravigliare ove si tenga presente che il pianista era partner del sassofonista in quell’album “Epic” che tanto successo ottenne alla sua uscita nel 2015. Insomma questo “Planetary Prince” rappresentava , per Cameron, una occasione assai importante per consacrarsi definitivamente come uno dei migliori, più fantasiosi e visionari pianisti, tastieristi e compositori delle ultime generazioni. E le premesse c’erano tutte anche perché i pezzi dell’album sono da lui stesso scritti e arrangiati. Peccato che anche ad un primo sommario ascolto l’album risulti tutt’altro che imperdibile. Certo Graves suona bene, Washington non deve dimostrare alcunché, ma è tutto l’impianto del disco che non regge, proponendo una musica scontata e poco originale. E qui ci fermiamo in quanto è ben possibile che Graves ritorni sui suoi passi e ci proponga qualcosa all’altezza delle sue enormi possibilità. (altro…)

Nat Hentoff : così lo ricorda Dino Betti van der Noot

di Dino Betti van der Noot

Purtroppo un colpo di coda del nefasto 2016 per il mondo della musica: Nat Hentoff ci ha lasciati il 7 gennaio, a 91 anni compiuti. Non l’ho mai incontrato di persona, anche se nel 1985 ho avuto il privilegio delle sue note di copertina – dirette, precise, obiettive come sempre – per un mio album (“Here Comes Springtime ndr9 e, successivamente, ho avuto delle rapide conversazioni telefoniche mentre era nella redazione della sua creatura prediletta, il Village Voice.

In Italia lo conosciamo come critico e storico del jazz attento e acuto, aperto al nuovo anche se emotivamente ancorato alla musica a cavallo degli anni ’40. Tuttavia la sua importanza nel panorama pubblicistico americano va oltre, perché è stato attivo nel promuovere – anche con articoli estremamente polemici – il movimento per le libertà civili e, coerentemente con il suo pensiero, verso un miglioramento della società, ha scritto romanzi destinati ai giovani, oltre a ricordi delle sue frequentazioni in campo jazzistico.

La sua continua frequentazione e amicizia con i musicisti, il suo amore per questa musica, hanno improntato il suo stile di scrittura, basato su esperienze personali trasmesse in maniera piana ma colta. Le sue rubriche sul New Yorker, il Washington Post, il Washington Times, il New York Times, il Down Beat, il Jazz Times, oltre al Village Voice, rimarranno nella storia della saggistica sul jazz.

Il figlio Nick ha annunciato la sua scomparsa su Twitter, scrivendo che è mancato circondato dalla famiglia e ascoltando il canto di Billie Holiday, della quale, nel 1957, aveva organizzato la storica reunion con Lester Young. Una scelta precisa, legata alla coerenza intellettuale che ha caratterizzato tutta la sua vita, schiva ma attenta ai fenomeni del suo tempo, con scelte estetiche e di campo ben precise.

In un certo senso, questo addio chiude un’epoca. Una grande tristezza.

La creatività di Bill Laurance nell’ultimo album

Di Luigi Viva – Il 23 maggio dello scorso anno alla Union Chapel, una stupenda chiesa anglicana, abbiamo assistito  al concerto di Bill Laurance, pianista e tastierista degli Snarky Puppy . Si trattò di una serata molto coinvolgente: bel palco, ottima produzione, luci curatissime, atmosfera unica, complice la stupenda location scelta,  pubblico calorosissimo. Da quel concerto, per certi versi unico, viene ora pubblicato un  cd/dvd “Live at Union Chapel” uscito per la GroundUp. Pianista di formazione classica, inglese, trentacinque anni, Bill Laurance ha cominciato ad esibirsi  professionalmente a 14 anni. Inizialmente influenzato da Bill Evans e  Herbie Hancock, per il piano e Joe Zawinul  e Chick Corea per le tastiere, Laurance ha elaborato nel tempo una sua cifra stilistica convincente dando prova della sua bravura  negli album degli Snarky Puppy e nei tre ottimi lavori da solista : “Flint” (2014), “Swift” (2015), “Aftersun” (2016) tutti pubblicati per la GroundUP.

Nel corso degli anni ha collaborato con tanti grandi musicisti: Salif Keita, Bobby McFerrin, Susana Baca, Laura Mvula, Jacob Collier, Lalah Hathaway, Chris Potter, Lionel Loueke, David Crosby (stupende le sue parti di piano in “Lighthouse” ultimo cd di Crosby). Ha inoltre scritto musica per  numerose compagnie di danza oltre a musica per pubblicità, film e documentari.

Un artista poliedrico, sulla cresta dell’onda, complice lo straordinario successo degli Snarky Puppy, il gruppo del momento, vincitore per il secondo anno consecutivo del referendum dei lettori di Down Beat come miglior gruppo jazz oltre ad essere freschi di nomination al Grammy con l’album “Chulcha Vulcha”. Non a caso la band che lo accompagna in questo live vede la presenza di due componenti degli Snarky : il leader Michael League (basso e contrabbasso) oltre a Robert “Sput” Searight alla batteria. Completano il line up: Felix Higginbottom alle percussioni, Vera Van Der Bie (violino), Isabella Petersen (viola), Annie Tangberg (violoncello) e Katie Christie (corno), queste ultime componenti della Metropol Orkest.

I brani proposti nella versione live  sono tratti dai due primi cd  e  nella versione in concerto acquistano nuova lucentezza. In scaletta, tratti da “Flint” : Gold Coast (molto brave le  musiciste della Metropol Orkest, con toccanti soli al violino e al corno), The Good Things (da sottolineare qui, come in tutto l’album, lo straordinario lavoro di quel gran batterista che è Robert Searight), Never-Ending City (gran solo al piano che riporta alla mente Bill Evans, Paul Bley e Lyle Mays), Swag Times (con Laurance impegnato al Fender Rhodes), Ready Wednesday con l’emozionante l’introduzione di Laurance al pianoforte). Da  “Swift” vengono invece riproposti: The Rush (gran intervento di League al basso) The Real One (caratterizzato dalle sonorità del Roli Seabord), Swift (con il tema suonato da Katie Christie al corno ), Red Sand (dall’impronta fortemente ritmica), Fjords (dalla lunga intro al vocoder), December in New York (la più bella composizione di Laurance, eseguita da Searight alle spazzole, con League al contrabbasso e un  raffinato lavoro in pizzicato da parte degli archi).

Musica che ha molto a che fare con il jazz modale ed il crossover mediando le influenze della musica classica mitteleuropea con il jazz, la musica minimale e l’elettronica. Il risultato è un grande album, fresco, che colpisce per la bellezza dei temi  grazie anche al gran senso della melodia e al notevole tocco di Laurance al piano. L’allegato dvd diretto da Andy Laviolette  consente, a chi non c’era, di rivivere una serata memorabile. “Live at Union Chapel” contribuisce a fissare l’artista in un momento di gran vena creativa, uno degli album più belli degli ultimi tempi.

 

Luigi Viva

 

I NOSTRI CD. Buon natale in Jazz

a proposito di jazz - i nostri cd

Jesper Bodilsen – “Santa Claus Is Coming To Town” – Up Art Records
santa-clausIl Natale si avvicina e, come ogni anno, sul mercato compaiono produzioni discografiche dedicate a questa festività. Ecco quindi tre album, piuttosto diversi ma accomunati dall’essere dedicati alle canzoni natalizie.
Il primo è il nuovo CD di Jesper Bodilsen, “Santa Claus is Coming to Town”, uscito lo scorso 21 ottobre, su etichetta Up Art Records. Contrabbassista, compositore, arrangiatore e didatta danese, Bodilsen vanta un curriculum di tutto rispetto avendo collaborato con artisti di assoluto livello quali, tanto per citare qualche nome, Enrico Rava, Kasper Villaume, Stefano Bollani, Katrine Madsen, George Colligan, inoltre dal 2003 si è esibito in tutto il mondo con il celebre Danish Trio insieme a Stefano Bollani e al batterista Morten Lund. Adesso ha deciso di mettersi in proprio e in breve tempo ha prodotto due importanti album: del primo , “TID”, abbiamo parlato di recente; il secondo è questo “Santa Claus Is Coming To Town” in cui il contrabbassista si presenta alla testa di un gruppo con Peter Rosendal al piano, Regin Fuhlendorf chitarra, Francesco Calì piano e fisarmonica e Claus Waidtlow al sax con l’aggiunta delle voci di Mads Mathias, Joe Barbieri e la piccola (nove anni) Marie Bodilsen. Il repertorio è scelto con molta oculatezza: niente brani particolarmente celebrati ma canzoni tratte dal mondo natalizio italiano, scandinavo e statunitense. Tutt’altro che casuale anche la scelta delle voci: Mads Mathias è artista di punta della nuova musica danese, e Joe Barbieri è ben noto al pubblico italiano per le sue doti di raffinato e sensibile interprete, li si ascolti rispettivamente, in “Have Yourself A Merry Little Christmas” con in bella evidenza il contrabbasso del leader e la chitarra di Regin Fuhlendorf, e “Quanno nascette Ninno” (versione originale di “Tu scendi dalle stelle”); davvero brava Marie Bodilsen nell’interpretazione del brano tradizionale svedese “På Loftet sidder Nissen” .

Kurt Elling – “The Beautiful Day” – Okeh
the-beautiful-dayDi impianto diverso questo secondo album firmato da Kurt Elling, ovvero da colui che viene considerato una delle personalità più eminenti nel campo del canto jazz maschile: non a caso ha vinto diverse volte i sondaggi delle riviste Down Beat e JazzTimes. Kurt è accompagnato da un gruppo piuttosto numeroso con Stuart Mindeman al piano, Clark Sommers al basso , John McLean alla chitarra (musicisti che erano con lui anche nell’ultimo tour italiano), Jill Kaeding cello, Jim Gailloreto sax soprano, Tito Carrillo tromba, Kendrick Scott batteria, Kalyan Pathak percussioni, Luiza Elling voce. L’album è molto gradevole anche perché l’artista ha avuto l’intelligenza di pescare nel mare magnum delle canzoni natalizie alcune perle che non si ha spesso l’occasione di ascoltare. Così accanto a molti canti tradizionali, figurano, tra gli altri, tre pezzi scritti da Leslie Bricusse per il musical “Scrooge”, uno scoppiettante “This Christmas” di Donny Hathaway dalla chiara impronta soul impreziosito da un convincente assolo di John McLean, il vagamente rockeggiante “Same Old Lang Syne” scritto e cantato da Dan Fogelberg che come singolo ottenne un buon successo nel 1980…fino a giungere a “The Michigan Farm (Cradle Song , op.41/1) una delicata composizione di Edvard Grieg cui Elling ha aggiunto le liriche facendo arrangiare il tutto al fido Mindeman. Ebbene, in tutte queste occasioni Kurt Elling dimostra di aver affrontato l’impresa con grande serietà, abbandonando qualsiasi atteggiamento gigionesco da grande star, di compiacimento del pubblico e cercando così di trasmettere l’intima essenza dei brani. Quasi superfluo aggiungere che la prestazione vocale è ancora una volta di altissimo livello: mai una nota fuori posto, l’intonazione perfetta, l’uso dello strumento sempre aderente alle volontà espressive…in estrema sintesi una grandissima sensibilità musicale.

Nils Landgren – “Christmas With My Friends V” – ACT 98302
christmas-with-my-friend-vQuesto terzo album dedicato al Natale si inserisce in una storia che parte nel 2006: il trombonista scandinavo Nils Landgren pensò, bene, in quell’anno, di raccogliere accanto a sé alcuni degli amici musicisti e festeggiare il Natale in musica; il concerto venne registrato nella Chiesa di Odensala a Stoccolma e poi pubblicato su CD. Dato il successo di questa prima esperienza, Landgren ha deciso di ripeterla ogni due anni, effettuando un tour natalizio tra la Svezia e la Germania. Queste tournées hanno prodotto altrettanti album tutti premiati con un Germa Jazz Award. Eccoci quindi al quinto CD che presumibilmente otterrà lo stesso successo dei precedenti sia per il messaggio di pace che intende veicolare sia per la qualità della musica. Sulla statura artistica del leader non esistono dubbi, così come per gli altri artisti scelti per questa nuova avventura: i quattro cantanti: Jeanette Kohn, Jessica Pilnäs, Sharon Dyall e Ida Sand, che suona anche il pianoforte, Jonas Knutsson ai sassofoni, Johan Norberg alla chitarra ed Eva Kruse al basso. Ciascuno di questi musicisti ha proposto due brani arrivando così ad una track list piuttosto variegata in cui il Natale è raccontato sotto varie sfaccettature musicali. Tra i brani che ci hanno maggiormente colpiti , l’apertura basata su un brano di Bach ed eseguita in solitaria da Landgren, “Baby It’s Cold Outside” affidato alla voce di Jessica Pilnäs, il traditional “Go Tell It On The Mountains” interpretato con solida partecipazione da Ida Sand e lo strumentale “Seven Stains From Christmas Eve” di Johan Norberg. (altro…)