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Classe 1961, siciliano di Palermo, ma oramai da molti anni cittadino del mondo, Gianni Gebbia è una delle più belle realtà del jazz europeo. Nei primissimi anni Ottanta lo troviamo già attivo sul versante della musica creativa incidendo alcuni album di notevole livello. E su questa strada proseguirà negli anni successivi tanto da essere considerato, oggi, uno dei personaggi di maggior rilievo nell’ambito della musica improvvisata… e non solo, anche se, come vedremo meglio nel corso dell’intervista che qui di seguito pubblichiamo, risulta più apprezzato all’estero che non in patria. Lo abbiamo intervistato dopo un lungo periodo in cui non ci eravamo più sentiti e devo confessare che la cosa mi ha fatto enormemente piacere anche perché ero stato tra quelli che, nei già citati anni Ottanta, avevano espresso pareri entusiastici sulla sua produzione discografica.

-La tua parabola artistica, almeno per quanto concerne l’Italia, è stata alquanto strana: nei primissimi anni Ottanta, e fin circa al 1990, hai registrato una serie di album giustamente osannati dalla critica tanto da vincere il top jazz quale miglior nuovo talento per l’appunto nel 1990; poi, a poco a poco, sei scomparso dalle scene…. O forse sarebbe più giusto dire che i riflettori su di te, sulla tua musica, si sono man mano spenti. Come mai?
Fortunatamente la vita di un musicista non è fatta solo dai media, la mia attività musicale in realtà è continuata con la massima regolarità, ma è ovvio che nell’ambiente musicale molte cose sono cambiate per tutti da quei tempi di cui parli, basta pensare all’avvento di Internet ad esempio. Riguardo ad un silenzio stampa su certi musicisti in Italia, potrei ipotizzare che sia dovuto alla progressiva mutazione dell’ambiente generale, l’irruzione massiccia delle logiche del marketing e la conseguente perdita di spontaneità, freschezza e curiosità. A questo vorrei aggiungere un piccolo ma grande particolare e cioè che i giornali e le riviste non si sono più curati di mantenere una presenza sul campo regionale di critici e giornalisti per il settore mentre anni prima vi erano dei corrispondenti locali di una certa preparazione e curiosità. Inoltre in quella che si chiama trasmissione dell’insegnamento vi è sempre stata una scissione stupida ed artificiale tra quelli che “ fanno free “ e quelli che “ sanno suonare “ che è esistita solo da noi quasi a ricalcare le fazioni della politica. A me, come a tanti altri, è toccato di essere considerato stupidamente tra quelli che “ fanno free “ senza avere alcuna cognizione esatta di ciò che facevo, quando invece tendo a precisare che ho anche suonato regolarmente il jazz più stretto sin dagli esordi della mia carriera anche se mi rendo conto che è raro trovare musicisti che sappiano esprimersi in vari campi, spesso opposti tra loro.
Dal punto di vista organizzativo invece vi è stata per anni in Italia un’assenza di manager dediti agli artisti italiani che al tempo stesso creava la possibilità di rapporti diretti da parte del musicista con gli organizzatori. Oggi invece sono apparsi, al contrario, meccanismi stagni e chiusi in fase direi di “ protezione “ ed addirittura spesso lobbistici e favoriti da una legislazione assolutamente imperfetta riguardo allo status dei musicisti italiani e che invece involontariamente favorisce quelli americani. Molti festival poi sono “caduti sul campo” a causa di assenza di fondi o a causa di mutazioni estetiche a scopo di sopravvivenza e mancanza di ricerca e slancio verso il nuovo ed i giovani. Infine c’è stato pure il crollo discografico e della distribuzione. Non voglio comunque negare in nessun modo il fatto che negli ultimi anni in Italia vi sia stato anche un grande ritorno di interesse verso i nostri artisti fondamentalmente grazie alla notorietà assunta da musicisti come Stefano Bollani e prima di lui Paolo Fresu; questo fenomeno è sicuramente una novità che inizia a far uscire l’Italia musicale dal circolo vizioso dell’esterofilia che lo ha afflitto per anni.
Sul piano personale vorrei anche aggiungere che il mercato discografico dopo l’arrivo di Internet, è totalmente mutato e personalmente ho aperto una casa discografica online che si chiama “ objet-a “ ed è, quasi esclusivamente, in download digitale di alta qualità il che è una scommessa da vari punti di vista. La musica in download online, della quale si parla tanto, slega sicuramente i produttori dal quell’impasse che erano i distributori e la catena dei negozi in generale con i quali abbiamo sempre sofferto problematiche irrisolvibili, crea un pubblico letteralmente globale lavorando con pazienza anche sulla pubblicità, ha costi abbordabili e soprattutto vorrei anche far notare che è in una certa misura una modalità ecologica non invadendo lo spazio di quadrati di plastica e carta ! Ovviamente non dobbiamo ignorare il fatto che anche i server inquinano in altro modo. Anche se siamo in una fase iniziale, si hanno numerose innovazioni ad esempio la possibilità di inserire nel download molti materiali extramusicali, persino partiture ( come abbiamo fatto nella pubblicazione di un album del sassofonista e compositore genovese Claudio Lugo ) e, poi, piccolo particolare : permette di avere degli introiti che vanno direttamente al musicista a meno di sottomettersi esclusivamente ai grandi distributori digitali i quali invece trattengono buona parte del compenso. Tutto è in fase ancora sperimentale ma fare una buona parte di lavori esclusivamente in distribuzione digitale ovviamente crea uno scompenso verso i media tradizionali cartacei anche se, ultimamente anche delle riviste cominciano a considerare le produzioni di questo tipo e recensirle. Per gli amanti delle antiche modalità di riproduzione sono invece per il vinile che mantiene sempre una qualità eccelsa e soddisfa i valori estetici dei collezionisti, in tal senso l’ideale sarebbe download digitale più serie limitata in vinile. Siamo sicuramente ad una fase di grande cambiamento e sempre più spesso vedo artisti che si esibiscono e producono ovunque al di fuori delle notizie dei media tradizionali. E’ una grande scommessa liquida per dirla alla Bauman, come tutta la contemporaneità !

-Su questa sorta di oblio collettivo, quanto può avere influito il fatto che hai deciso di restare in Sicilia, seppure allontanandotene spesso per andare all’estero?
Oblio collettivo mi sembra un termine un po’ eccessivo comunque l’essere residente in Sicilia ha sicuramente contribuito perché è indubbio che negli ultimi dieci, venti, anni, l’attitudine culturale nei confronti della Sicilia è regredita a causa di molti motivi di ordine politico e sociologico e le linee di comunicazione culturale invece di aumentare sono andate progressivamente diminuendo mentre un movimento musicale fervido ed interessante è sempre continuato con assoluta regolarità.
Penso che in Italia si è andati di recente molto indietro dal punto di vista dell’unità culturale come se le “ contrazioni “ a livello politico e sociale (sul modello dell’apparizione di una Lega in politica) si fossero moltiplicate portando con sé molti riflessi tra i quali in primis un’assenza di comunicazione e alimentando nuovamente il mito dell’emigrato o di una Sicilia selvaggia, naif e sottosviluppata. In questo senso, senza negare assolutamente l’importanza e la tragicità di certi fenomeni sociali, io sono e l’ho ribadito spesso, contrario alla recente predominanza culturale di tematiche esclusivamente legate a fenomeni come la mafia, la povertà e la disgregazione o lo sfruttamento del mito di un Sud arretrato e spero che, nel mio piccolo, la mia attività dimostri proprio l’opposto ma non sta a me dirlo…io cerco piuttosto di ricollegarmi alla Sicilia di un Pirandello, Bonaviri, D’Arrigo, di Mimmo Cuticchio, dei filosofi greci, dei grandi pittori, dei compositori, da Sciarrino fino ad un Battiato e di tutti gli altri innumerevoli uomini di cultura da essa provenienti. Tutt’altro da quella che il mio amico antropologo Franco La Cecla ha, puntualmente definito, la “ Poetica delle rovine “ !

A proposito di estero, qual è il Paese in cui ti trovi meglio… e non solo dal punto di vista artistico?
Direi che mi trovo bene ovunque la mia proposta musicale viene recepita bene il che può variare: Italia, Giappone Usa, Polonia, Germania etc. La musica ha la fortuna di essere un linguaggio trascendente le nazionalità.

-Quali le maggiori differenze tra il pubblico italiano e quello degli altri Paesi?
Il pubblico italiano è un ottimo pubblico tra i migliori, specialmente quando ha la possibilità di ascoltare la musica in teatro. Il Giappone invece, come tutti sanno, è un mondo a sé per silenziosità e concentrazione ma è un fatto culturale generalizzato. Poi ci sono gli Stati Uniti dove c’è sicuramente un approccio che potrei definire il più diretto ma è dovuto al fatto che queste musiche provengono da là e quindi sono incise nel DNA del pubblico anche meno colto e vi è anche una notevole cultura musicale dovuta alla presenza di marching bands e big band nelle scuole sin da ragazzini, questo tra l’altro sta anche avvenendo in Giappone.

-E veniamo alla tua formazione; come e perché ti sei avvicinato al jazz?
Ho iniziato ad avvicinarmi al jazz sin da ragazzino grazie alla collezione di dischi di mia madre che era una grande appassionata di jazz che aveva conosciuto tramite lo sbarco in Sicilia dell’esercito americano. Successivamente l’ascolto dal vivo dei più grandi jazzisti dell’epoca al Jazz Club del Brass Group . Il club Brass a quei tempi si trovava infatti a pochi passi dalla casa dei miei genitori. Là ebbi modo di vedere più di una volta e con regolarità gente come Ornette, Dexter Gordon, Lee Konitz, Sun Ra, Art Ensemble of Chicago, Charles Mingus, Antonello Salis, Franco D’Andrea, Giorgio Gaslini e tantissimi altri. In seguito avvenne che uno “zio d’America” mi regalò un bellissimo sax contralto e da là entrai in contatto con gli storici jazzisti palermitani come Claudio Lo Cascio, Enzo Randisi, Salvatore Bonafede, Diego Spitaleri, Stefano D’Anna e Bruno Biriaco ( che veniva regolarmente a Palermo ). Creai i miei primi gruppi e ci ritrovammo sorprendentemente sugli stessi palchi di nomi storici come Wayne Shorter ( ad Imola Jazz at the Rock ), Herbie Hancock ( Palermo Fusion Jazz festival).

-Quale pensi possa essere il ruolo delle scuole nella formazione di giovani jazzisti?
Questo è un soggetto direi molto spinoso e delicato nel quale si intrecciano numerosissime problematiche complesse di tipo organizzativo ed istituzionale. Mi limiterei a dire che per me il jazz è sempre stata una forma espressiva che nel rispetto di certi codici e stilemi è fondata sull’originalità di un segno, di una cifra riconoscibile ed anche nella rottura ed esplorazione di questi codici stessi, quando non ci sono questi elementi siamo nel manierismo o nella stilizzazione e per me a quel punto ha poco a che vedere con il jazz se non come mestiere.

-Tu ami suonare in diversi contesti… dal solo a gruppi diversificati; qual è il tuo abito preferito?
Direi che amo particolarmente il solo ed il trio che sono due formule che ho particolarmente sviluppato negli anni anche se a presto vivrò la grande novità di eseguire le mie musiche arrangiate per il grosso ensemble della Sicilian Improvisors Orchestra a fine dell’anno prossimo. Sarà un grande progetto e collaboro con un giovane arrangiatore tedesco che si chiama Christian Kuhn e che ho scelto per il particolare approccio “ crossover “ che ha e spero che il risultato sia divertente. Il solo non l’ho mai abbandonato sin da quando Jost Gebers della FMP di Berlino mi invitò nel 1990 a suonare in solo accanto a gente come Lacy, Butch Morris, Ernst Reijsiger ed altri e trovo che ogni volta sia una scommessa quasi impossibile e sicuramente una delle formule più difficili specialmente per uno strumentista a fiato. Oggi per me il solo è un po’ il punto di partenza delle altre mie formazioni perché è in esso che ho avuto di modo di sviluppare le mie “ cifre “ musicali e soprattutto la respirazione circolare.

-Cosa ti è rimasto dell’esperienza negli Usa dove se non sbaglio ti sei trasferito nei primissimi anni Ottanta?
Le mie esperienze a New York nei primi anni Ottanta mi hanno lasciato un imprinting indelebile a livello di creatività, attitudine e concezione più che sull’estetica che credo abbia avuto una direzione di tipo più europeo. Per me sono stati fondamentali gli ascolti dal vivo di quella generazione dei loft degli anni Settanta ed Ottanta, in particolar modo il jazz nero di quei tempi, per intenderci artisti come: Ornette, Julius Hemphill, Oliver Lake, Arthur Blythe, Frank Lowe, Muhal Richard Abrams, Joe e Lester Bowie, e tantissimi altri che avevo modo di vedere a quei tempi. Di recente, nel 2010 ho avuto modo di riconnettermi a queste mie radici americane grazie all’invito a partecipare alla registrazione di un cd a Los Angeles assieme al leggendario Wadada Leo Smith ed anche un tour che ho fatto in Giappone assieme allo scomparso violinista Billy Bang, entrambi due eroi della mia gioventù !

-Quali sono gli aspetti della musica su cui concentri la tua attività di ricerca?
Oggi, a parte gli incontri con grandi improvvisatori provenienti un po’ da tutte le parti del mondo, concentro molto la mia attività musicale sulla creazione del mio songbook personale al quale ho dedicato un trio che si chiama Magnetic Trio ( assieme a due giovani musicisti siciliani: il contrabbassista Gabrio Bevilacqua ed il batterista Carmelo Graceffa) dove studiamo ed esploriamo tutte le mie melodie e composizioni che ho maturato a partire degli anni Ottanta sino ad oggi e che sono basate su due elementi principali: da un lato l’utilizzo estensivo della respirazione circolare (che imparai a contatto con i grandi maestri delle launeddas sarde da ragazzo) e delle influenze della mia terra più l’inserimento di suoni e tessiture provenienti dalle mie esperienze nel campo della musica improvvisata o del jazz classico. Il tutto avviene in un linguaggio strettamente jazzistico più che elettrico, o rock etc. Con il Magnetic trio abbiamo già pubblicato un album dal titolo PROSPERO ed un secondo è in preparazione in questi giorni. Il Magnetic trio tra le tante cose ospita anche altri musicisti com’è avvenuto con il geniale cornettista e cantante francese Mederic Collignon oppure alcuni giovani promesse del jazz siciliano come il trombettista Alessandro Presti. Accanto a questo, continuo ad evolvere da decenni il mio lavoro in solo, fatto di illusioni polifoniche e risonanze di un folklore immaginario per dirla secondo il felice termine coniato dagli amici dell’Arfi ( Association pour la Recherche d’un Folklore imaginaire ) di Lione. Il mio ultimo solo si intitola “ Panopticon “ ed ho avuto il piacere di presentarlo in prima assoluta su commissione del compositore tedesco Heiner Goebbels alla Triennale della Ruhr ad Essen in Germania.

-Caso abbastanza raro nel campo del jazz, tu sei laureato in filosofia; questi studi hanno in qualche modo influito sulla tua musica?
Beh si, penso che studiare filosofia mi abbia dato un particolare aiuto nella concettualizzazione della musica, dell’estetica e dei progetti. In realtà non ho mai smesso di coltivarmi in questa direzione e mi capita spesso anche di scrivere articoli.
Due anni fa ho anche organizzato a Palermo un festival di musica e filosofia dal titolo “ Anassimandro “ nel quale musicisti si affiancavano a filosofi e studiosi di scienze umane ed è stato molto interessante. E’ probabile che una certa cultura filosofica mi abbia anche aiutato nella creazione di vari happening ed installazioni musicali come, di recente, per la convention di Google avvenuta in Sicilia la scorsa estate, dove ho affiancato una selezione di musicisti legati alla tradizione siciliana dislocati in varie parti della Valle dei Templi di Agrigento.

-Tu sei stato – o ovviamente lo sei ancora oggi – un alfiere della musica cosiddetta creativa. Puoi spiegarci qual è oggi il senso di questa definizione?
Si, ai tempi c’era chi la chiamava così…In realtà, a parte un periodo dove si era davvero in pochi a portare avanti quelle esperienze là in Europa, per il resto della mia attività mi considero piuttosto un eclettico e soprattutto mi sono dedicato molto alla mia musica al di fuori dell’aderenza ad un genere o fazione precisa, per questo ho sempre continuato a suonare anche jazz “ classico “ cosa che ho sempre fatto.
Se dovessi indicare un modello che mi ha guidato come esempio di approccio e di evoluzione direi senz’altro Steve Lacy nel suo essere partito dalle roots del jazz sino ad arrivare agli estremi della musica improvvisata per poi condensare il tutto con grande armonia nella sua musica personale dove jazz, musica contemporanea, ed extraeuropea convivevano. Oggi non mi sento più un alfiere di un genere o movimento in nessuno senso o direzione anche perché penso che ogni movimento musicale abbia una sua curva di estrinsecazione storico temporale che procede sempre da una fase iniziale di impatto sperimentale sino al divenire stile o addirittura manierismo. Fino alla fine degli anni Ottanta ed i primi Novanta direi che la musica improvvisata aveva ancora una forza di impatto assolutamente dirompente, ma poi com’è naturale le cose si evolvono lungo il tempo sino ad essere spesso inglobate in fissazioni o stagnazioni, basta dire che oggi abbiamo persino le “ star “ della musica improvvisata, esattamente come in ogni altro genere musicale ! Roba impensabile ai tempi. Mettendola in termini molto semplici il mio focus musicale oggi è diretto esclusivamente verso la qualità della musica al di là della semplice connotazione stilistica e quindi trovo roba interessante e stimolante in ogni forma espressiva, penso dipenda più da chi la fa e questo pone il problema della qualità strettamente musicale anche in generi dove la componenti di impatto e di novità la faceva da padrone in passato.

-Non è esagerato affermare che tu hai collaborato con alcuni dei più grossi nomi internazionali della musica improvvisata; come sei riuscito in questa non facile impresa ?
Si, forse è vero, ho avuto e continuo ad avere incontri musicali con alcuni dei più noti nomi storici della musica improvvisata come Peter Kowald, Leo Smith, Han Bennink, Sclavis etc perché credo di avere sviluppato degli skills particolari in quell’approccio in un periodo dove nella seconda o terza generazione della musica improvvisata in Europa eravamo davvero in pochi, una sorta di comunità abbastanza ristretta. Oggi invece questa musica è diventata un po’ uno “ stile “ come tanti altri generi di musica e, come nel jazz “ regolare “ c’è molta ignoranza e soprattutto un’assenza di lavoro storiografico serio. Di contro certe innovazioni di linguaggio operate con grande coraggio e sforzi sino alla terza generazione di improvvisatori sono diventati repertorio comune nel linguaggio musicale ma senza conoscerne le origini nella maggior parte dei casi odierni…a tal punto da creare delle confusioni storico culturali enormi e più di una volta mi sono sentito dire “ guarda fai le cose che fa quel tizio…” ed il musicista in questione poi, essendo di decenni più giovane le aveva apprese da musicisti della mia generazione….Al di là di tutto questo continuano ad esserci sempre in ogni genere delle novità interessanti e creative.

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Hai spesso affiancato la tua musica ad altre arti quali la danza, la poesia, la pittura… per non parlare del tuo interesse per il cinema: a quale di queste ti senti più vicino?
Beh, io provengo a tutti gli effetti dal mondo delle arti visive poiché dipingevo sin da ragazzino ed ho frequentato molto quell’ambiente. Oggi sono molto legato al cinema ed all’audiovisivo componendo colonne sonore ed avendo creato io stesso tre lungometraggi a tema principalmente musicale che hanno avuto anche un discreto successo nei circuiti off internazionali e che riguardano storie legate al Giappone e l’Italia grazie al mio lungo soggiornare nel Paese del Sol Levante da più di quindici anni ad oggi. Il primo si intitola Brecht ad Asakusa ed è uno spaccato sognante del mondo del cabaret del quartiere di Asakusa a Tokyo, gli altri due sono Nanbanjin ( I barbari del Sud ) che tratta in maniera molto sperimentale delle storie dei missionari siciliani in Giappone e l’ultimo, molto musicale, racconta la vita romantica di fine 800 della pittrice giapponese O’Tama Kiyohara che si trasferì da Tokyo a Palermo ove trascorse quasi tutta la sua vita. Sono video o film, non saprei come definirli, con moltissima musica più che parti parlate e dove ho creato immagini per me particolarmente adatte alle mie musiche ed anche mostrare che la Sicilia non è una terra di sola mafia come accennavo precedentemente. Accanto a questi film ho pure girato un mini documentario su quello splendido personaggio che era Aldo Sinesio, il creatore della leggendaria Horo Records, con il quale sono stato a contatto negli ultimi anni della sua vita e che è stato uno dei grandi produttori del jazz tutt’oggi poco apprezzato se non dai veri cultori del genere. Il documentario si chiama Ad Aldo ed è disponibile liberamente su youtube. Sinesio sapeva tutto del jazz sound e possedeva un intuito senza pari, una volta suonai per una piccola rassegna organizzata da lui nel suo paese natale di Porto Empedocle e dopo avermi ascoltato ha letteralmente radiografato la mia sonorità intuendo influenze talmente nascoste da lasciarmi esterrefatto! Ho deciso in maniera semplice ed immediata di lasciare una testimonianza visiva su di lui. Per il resto continuo a lavorare molto con danzatori, e recentemente ho messo su un trio assieme ad una danzatrice di tip tap giapponese ed il batterista e percussionista americano Samm Bennett.

-C’è un tuo album a cui ti senti particolarmente legato?
Io direi che l’album al quale sono più legato è sempre l’ultimo! In questo caso PROSPERO con il Magnetic Trio, un lavoro che mi soddisfa particolarmente perché sono riuscito a realizzare un progetto di un gruppo che esegue le mie musiche con creatività in un linguaggio jazzistico e che viene apprezzato da ogni sorta di pubblico dal profano all’esperto. Questo fatto mi dà grande soddisfazione perché nell’impostazione del Magnetic Trio non sento di operare alcun sacrificio delle istanze di ricerca anche se esse sono mediate da un linguaggio accessibile a tutti.
Il lavoro con il trio mi permette anche di esprimere il mio legame con le musiche delle isole italiane e quindi fare “ i conti “ con la mia terra.
Un’altra grande novità è il fatto che con questo trio sono ritornato al mio primo amore, il sax soprano che avevo abbandonato per lungo tempo a favore del contralto ed al quale sono invece ritornato a piene mani, ristudiandolo dai “basics” e dedicandomici a tempo pieno. E’ sicuramente il più difficile di tutti i sax da qualsiasi punto di vista ed è una storia un po’ a sé e penso sia molto adatto alla mia espressione. Per molti anni l’ho abbandonato perché sentivo che con l’alto ero più originale ed in molti sopranisti ci trovammo, quasi “ oppressi “ dalla presenza del sound di Lacy ma, poi le cose si sono evolute naturalmente.

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-Come sono nati i tuoi ultimi lavori?
Nella creazione dei mie ultimi lavori PROSPERO con il Magnetic trio e PANOPTICON in solo entrambi usciti per l’etichetta Objet-a che ho fondato anni fa, direi che mi è risuonato una sorta di mantra/ direzione datami per l’appunto da Steve Lacy molti anni fa quando venne a Palermo per uno spettacolo al Piccolo Teatro dove, ascoltando alcune tecniche e suoni particolari che gli mostravo mi disse che quando sarei riuscito a farne di tutto ciò una musica, una melodia nel senso più semplice ed arcaico della parola ce l’avrei fatta. E’ stato un grande insegnamento e gliene sarò per sempre grato, uno di quelli veri, simile a quello che nella meditazione Zen viene chiamato un Koan o nel Cristianesimo una parabola…

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