Paolo Fresu. Quando la musica è vita

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Foto di Maurizio Zorzi

Foto di Maurizio Zorzi

 

Conosco Paolo Fresu oramai da una trentina d’anni e, anche se non ci incontriamo spesso, ogni volta che lo rivedo ritrovo il Fresu di sempre vale a dire un artista straordinario, che con la sua tromba ha toccato i cuori di tantissimi amanti della musica, ma soprattutto un uomo integro, mite, dolce, disponibile al colloquio…un uomo che è rimasto sempre fedele a sé stesso nonostante il successo planetario. Il tutto impreziosito da una lucida capacità di analisi che avrete modo di apprezzare anche in questa intervista raccolta nel dicembre del 2015.

Partendo da un paesino della Sardegna, tu hai saputo conquistare – non solo metaforicamente – tutto il mondo musicale. La tua vicenda è in qualche modo paradigmatica nel senso che quando si ha talento prima o poi si arriva anche se si parte da situazioni molto difficili, o è la classica eccezione che conferma la regola?
Penso un po’ tutte e due perché da un lato il talento sicuramente c’era – anche se non penso di avere un talento straordinario – dall’altro, come tu dici, la situazione da cui mi sono evoluto non era certo tra le più facili. In quegli anni, parliamo di trentacinque anni fa, la Sardegna era molto più isolata di oggi e Berchidda, il mio paese natale, era una sorta di isola nell’isola per cui la situazione in cui vivevo è stata anche uno sprone a fare, a fare meglio , uno sprone a diventare quello che sono adesso. Insomma è difficile rispondere a questa domanda nel senso che puoi arrivare anche se non hai molto talento e viceversa puoi restare al palo anche se sei eccezionalmente talentuoso. Entrano in gioco molti altri fattori, ci vuole anche una buona dose di fortuna; ad esempio, quando io mi sono affacciato nel mondo del jazz, e parliamo dei primissimi anni Ottanta (ricordo che la mia prima uscita ufficiale la feci nell’82 con un’orchestra di giovani diretta da Bruno Tommaso), in quel periodo, dicevo, non c’erano trombettisti. C’erano i trombettisti della vecchia generazione, Valdambrini, Fanni… quelli delle orchestre della Rai e poi c’era Enrico (Rava n.d.r.) che si muoveva in direzioni più moderne, ma non c’erano giovani . Un altro trombettista della mia età (classe 1961 come me) era a Torino, Flavio Boltro, ma nessuno conosceva lui come nessuno conosceva me, ci siamo incontrati a Roma nell’84 quando io vinsi un premio come miglior giovane jazzista italiano – manifestazione allora organizzata da Adriano Mazzoletti – ci siamo stretti la mano come colleghi che venivano da lontano. Ma eravamo gli unici… oggi come ben sappiamo, la situazione è completamente cambiata: ci sono moltissimi trombettisti bravi. Allora, ripeto, essendo gli unici trombettisti era molto più facile: mi chiamavano dalla Sardegna per venire a fare dei concerti in Continente … come ti dicevo il primo concerto lo feci con Bruno Tommaso il quale credette immediatamente in me, poi nell’83 mi chiamò Paolo Damiani per ROCCELLANEA ( assieme a Fresu e Damiani in quell’album c’erano Gianluig Trovesi sax alto e clarinetto basso, Giancarlo Schiaffini trombone e Ettore Fioravanti batteria n.d.r.) e poi Giovanni Tommaso, il cugino di Bruno, con il quale negli anni successivi ho suonato diverse volte facendo parte anche del quintetto con Massimo Urbani. Come vedi tre bassisti che da leader ti chiamavano per suonare con loro perché non c’erano trombettisti. E io mi chiedevo: ma perché chiamano proprio me? Ci saranno bravi trombettisti a Roma e a Milano… E probabilmente c’erano, solo che forse il fatto che non avessi studiato in modo canonico, il fatto di venire dalla Sardegna mi davano quel pizzico di originalità di fondo che veniva apprezzato. Per cui penso che nel mio caso specifico tutto sia stato da una parte fortuito dall’altra una convergenza di vari elementi. Sicuramente capacità, sicuramente talento… ma anche voglia , caparbietà, ostinazione e, come si diceva, una certa dose di fortuna altrimenti in quegli anni dalla Sardegna si usciva con molta, molta difficoltà.

In questo preciso momento ti senti più realizzato come uomo, come artista o in ambedue le vesti?
Per la mia scala di valori spero di essere realizzato in primis come uomo, senza ombra di dubbio, perché se non mi sento realizzato come persona, in questo preciso momento come padre, non riuscirei a fare la musica che voglio. Se quando salgo sul palco non mi riconosco con me stesso quello che faccio non ha molto senso… la musica è vita, è emozione, è trasmettere un’emozione e se quando suono non mi sento realizzato come uomo capisci bene che non posso raccontare alcunché…tutto suonerebbe artificioso. Poi naturalmente mi sento realizzato anche come musicista, ma se mi sentissi realizzato solo come artista e non come uomo, per me sarebbe una disfatta, terribile, tanto più che in questi ultimi venti anni ho cercato di legare alla musica tutto ciò che le sta attorno… o se preferisci il contrario . SE oggi sono quello che sono lo devo in massima parte alla musica, la musica è al centro di una serie di problematiche che vanno al di là e che sono di drammatica attualità proprio in questi giorni. E questo l’ho appreso con il tempo. Ad esempio, quando ho iniziato ad organizzare il Festival di Berchidda avevo ben chiari gli obiettivi da raggiungere ma non ne conoscevo le potenzialità, così, man mano, facendo musica ho scoperto quanto la musica stessa potesse diventare un fattore importante di crescita, di arricchimento, di aggregazione… insomma ho scoperto come le arti – nel mio caso la musica – possano divenire dei linguaggi incredibili che rivestono un ruolo sociale, politico, nell’accezione migliore del termine. Tutto questo ci riporta alla prima affermazione e cioè il linguaggio artistico inteso come linguaggio sociale e politico postula che prima ci sia una coscienza politica e sociale che appartiene all’uomo per cui, se non c’è questo , la musica non ha senso. Insomma le due cose devono coincidere, devono camminare assieme, autoalimentarsi altrimenti il discorso cade.

Una domanda un po’ strana, ma siccome a me capita, te la faccio senza pudore: ti capita di piangere ascoltando musica?
Certo che sì, mi capita spesso. Mi capita di piangere mentre suono e non mi vergogno a dirlo. Certo, si può piangere ma si può anche ridere… l’importante è che si faccia musica avendo qualcosa dentro, soprattutto per uno come me che ha passato i cinquanta. In uno scritto che mi venne chiesto dalla « Nuova Sardegna »in prossimità dei miei cinquant’anni, nel febbraio del 2011, quando mi apprestavo a fare un giro di concerti lunghissimo in Sardegna, ebbi modo di affermare che non è sufficiente soffiare dentro una tromba, ci vuole qualcosa di più profondo. L’abbiamo detto prima: per me la musica è sostanzialmente emozione… se non c’è emozione è come se l’intera impalcatura crollasse, priva di fondamento.

Quanto ha influito sulla tua musica l’essere sardo?
Francamente non ho una risposta certa al riguardo. Credo che abbia influito molto; sono contento di essere sardo e non potrebbe essere altrimenti; quando ho qualche progetto – in realtà sempre meno – in qualche modo legato alla mia terra vuoi per il repertorio , vuoi per le varie commistioni che sono state fatte con i cantanti , con la musica polifonica vocale che è un po’ la musica caratteristica della Sardegna, questo elemento può venir fuori. Ma quando suono la mia musica ‘quotidiana’ , quando suono ad esempio con Ralph Towner non c’è alcun riferimento voluto alla musica sarda.. eppure, alla fine del concerto, c’è sempre qualcuno che viene a dirmi ‘in quel pezzo ho sentito le sue origini sarde’. Evidentemente qualcosa vien sempre fuori indipendentemente dalla mia volontà: io sono sardo, sono profondamente legato a questa cultura, parlo benissimo la lingua per cui alla fine, qualche tratto della mia personalità molto sardo, si trasmette in quello che suono e il pubblico lo percepisce.

Questo evidente attaccamento alla tua terra, mi spinge a farti un’altra domanda: tu passi molto del tuo tempo lontano dalla Sardegna; ti pesa questa lontananza?
Direi proprio di no, così come non mi pesa la lontananza dall’Italia. E ciò per due motivi. Il primo è che sono sempre abbastanza presente, seppure non fisicamente, con la Sardegna: in quello che faccio, nei rapporti che tengo con la famiglia, con gli amici, con agli amici pittori, scultori, poeti tutta gente che in Sardegna fanno qualcosa di notevole con il linguaggio dell’arte… e poi c’è il Festival di Berchidda. In secondo luogo perché sono oramai trent’anni che giro il mondo per cui mi sono abituato. Se dovessi soffrire di nostalgia sarebbe davvero un bel guaio. L’obiettivo, per me, non è quello di tornare a casa ma di essere sempre a casa mia anche quando ne sono fisicamente molto lontano . D’altronde in ogni posto ci sono molte cose belle e altre che non ci piacciono ma bisogna accettarlo. Quando vado fuori vivo quello che devo vivere.

Attualmente le due maggiori isole italiane, Sardegna e Sicilia, continuano a sfornare talenti jazzistici in quantità industriale nonostante le oggettive situazioni di difficoltà in cui entrambi i territori si trovano. Come te lo spieghi? E’ solo un insieme di casualità o c’è qualcosa di più profondo?
No, non credo ci sia casualità. Non riesco a individuare un fattore specifico. Una qualche spiegazione potrebbe forse essere trovata nel fatto che l’Italia è un Paese lungo in cui i centri di irradiazione della cultura sono sparsi per tutto il territorio. Se facciamo un paragone con la Francia, vediamo che lì la vita culturale è accentrata su Parigi, Lione e forse qualche altra città. Da noi no; anche i lembi estremi del territorio come per l’appunto la Sicilia e sotto molti aspetti la Sardegna, hanno una storia, un portato culturale che ancora oggi è in grado di dire qualcosa di nuovo, di interessante. Certo, per lungo tempo queste periferie sono state trascurate, bistrattate, e la risposta è stata una grande energia creativa: la gente ha voglia di mettersi in gioco… il fatto che, ad esempio, faccio un Festival a Berchidda è perché quel festival , con quel tipo di obiettivi, con quel tipo di impostazione, si può fare solo lì…organizzarlo che so a Roma o a Firenze non avrebbe senso: un concerto a Berchidda diventa un avvenimento, e quindi si creano un’energia, un’attenzione che non si creerebbero in altre città dove di eventi ce ne sono diversi. Come dicevo, da questo punto di vista l’Italia è un Paese molto frastagliato e però la risposta è poi questa: pochi Paesi possono vantare un ventaglio di proposte culturali come quelle che può mettere in campo il nostro Paese, ciò vale per il jazz ma penso valga bene o male per tutte le forme artistiche. Voglio precisare, per quanto riguarda più specificatamente il jazz, che non sto entrando nel merito cioè non voglio dire che la proposta jazzistica italiana sia meglio di quella francese o tedesca ma sfido chiunque a dire che l’Italia non è il Paese dove si fa più jazz, dove le proposte sono più diversificate in termini di repertori , di generazioni etc..etc…Poi, tornando alla tua domanda, non bisogna dimenticare che la Sardegna e la Sicilia sono due isole immerse nel Mediterraneo per cui hanno ancora forte una grande tradizione popolare: esiste una musica ancora viva, esiste una musica più radicata che in altre regioni italiane, esiste una musica che comunque si sta muovendo, si sta evolvendo . Se trent’anni fa poteva sembrare difficile trovare una qualche relazione tra il jazz e la musica tradizionale, oggi è facile trovarla: se ci pensiamo bene il jazz nasce proprio come musica popolare, agli inizi aveva una funzione che era fortemente popolare … poi è cambiato, è diventato una musica di ricerca, una musica dura perché doveva dare delle risposte anche a dei dubbi, a delle problematiche forti che c’erano negli Stati Uniti. Oggi, che ci siano in Sardegna tanti musicisti, che in Sicilia ci sia comunque un pubblico piuttosto vasto per questo genere musicale, nonostante la crisi imperante, ecco, tutto ciò deriva dal fatto che il pubblico trova nel jazz questa relazione tra quella che è la genesi di questa musica, la sua originaria funzione e quello che oggi è diventata. Mi chiedo solo se questa relazione tra il jazz e la musica popolare sia ciò che spinge molti giovani verso questa musica…francamente non lo so. Però, per quanto riguarda la Sicilia, non è un fatto di oggi: ci sono stati nel passato, e ci sono oggi, un sacco di musicisti eccellenti provenienti dalla Sicilia che hanno fatto fortuna altrove. Per la Sardegna il discorso è un po’ diverso in quanto prima dalla mia terra si emigrava meno. Quindi probabilmente in questa cultura mediterranea c’è una sorta di forza, di spinta che per una serie di motivi fa emergere tutta una serie di nuovi talenti. Ci sono molti giovani che suonano bene e che non si sa da dove siano usciti….voglio dire che in queste terre c’è un humus, una forza interiore che forse viene dalla ‘perifericità’ … probabilmente questi stessi giovani vissuti a Roma o a Milano non avrebbero avuto la stessa energia. (altro…)