Un documentario narra la storia dello storico locale di via Botero

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“Compro oro” non è certo un titolo che abbia molto a che fare con il jazz…se poi, però, leggiamo il sottotitolo “Vivere Jazz Vivere Swing” la faccenda diventa più chiara: in realtà stiamo parlando di un bel documentario, uscito proprio in queste settimane, che illustra l’attività dello storico “Swing Club” di Torino. Ne abbiamo parlato a lungo con uno degli autori , Toni Lama, personaggio ben noto nel mondo del jazz anche per la sua attività di promoter che l’ha portato a produrre più di 400 concerti l’anno in tutta Europa

Da quale motivazione nasce questo documentario?
Innanzitutto dal fatto che nella mia vita quello è stato un periodo interessante, bello e che ho sempre ricordato volentieri per cui pensavo di poterlo condividere con altre persone che hanno vissuto gli stessi anni. La seconda motivazione era quella di documentare un locale e un periodo storico di una città come Torino che ritengo, per molti motivi, non tornerà: sono cambiate le situazioni ambientali, è cambiata la situazione storica , è cambiata anche e soprattutto la situazione del jazz. Il jazz di quei tempi era una musica che gli appassionati andavano a cercare sui dischi avuti o trovati in modo quasi carbonaro , si dovevano tirare giù gli spartiti da dischi vecchi, spesso rovinati… era tutto molto difficile per cui ho pensato di fare un piccolo documento su quel periodo storico.

Stiamo parlando dello “Swing Club” di Torino…
Certo. Il locale è lo “Swing Club” di Torino e il periodo va dal 1965 al 1982 quel periodo che vedeva in altre città d’Italia la nascita di altri due locali storici, il Capolinea a Milano e il Music Inn a Roma. Questi due locali, assieme allo “Chat qui pêche” a Parigi e il “Domicil” a Berlino costituivano un po’ i caposaldi del jazz d’oltre oceano in Europa. Poi c’era tutta l’attività dei Paesi scandinavi ma quella era un po’ troppo lontana dai nostri obiettivi. Lo Swing si trovava in via Botero …e oggi sarebbe un posto anacronistico perché era un piccolo locale a livello strada, poi si scendeva in una cantina che poteva ospitare da legge 99 persone ma che in realtà durante i concerti ne ospitava più di 200 e oggi potremmo veramente definirla una trappola per topi : c’era una scala di legno che scendeva ripida in questa cantina e sotto, come in tutti i locali di quei tempi, si fumava liberamente e in più c’erano anche le cucine… con il risultato che si respirava un’ aria … irrespirabile…. C’era poi una sorta di uscita di sicurezza costituita da una piccola porta situata dietro le cucine che dava su un’altra cantina che a sua volta dava in un corridoio che poi, attraverso tutte le altre cantine, portava finalmente in un cortile. Dopo i fatti dello Statuto (L’incendio del Cinema Statuto la sera del 13 febbraio 1983, con la morte di 64 persone n.d.r.) fu impossibile mettere a norma, se non con cifre iperboliche questo posto che infatti chiuse.

E’ possibile tracciare una sorta di parallelismo tra questi tre locali italiani cui prima facevi riferimento?
Sì; direi che tutti e tre erano innanzitutto caratterizzati dalle persone che lo gestivano. A Roma c’era Pepito Pignatelli, personaggio storico che ha dedicato la sua vita al jazz ma soprattutto al rapporto con i musicisti, lui era l’amico dei musicisti . A Milano c’era Vanni , Giorgio Vanni al Capolinea era anche lui un batterista come Pepito e come Pepito anche lui aveva un cuore da musicista che lo rendeva prima che gestore di un locale, amico dei musicisti. A Torino c’era questa signora che si chiamava Ninni Questa che non era una musicista, ma un’appassionata che amava il rapporto con i musicisti, infatti nel documentario Tullio De Piscopo ricorda il sorriso di questa signora che non rideva spesso – in realtà non aveva molti motivi per ridere anche perché gestire un locale per una donna in quegli anni a Torino era un’impresa molto dura… Torino era allora una città spaccata dai clan, marsigliesi e catanesi si spartivano la città sia per la prostituzione sia per le sigarette – ebbene, nonostante tutto ciò, lei aveva deciso di mantenere pulito questo locale che era uno dei pochi a rimanere aperto fino alle cinque del mattino… per cui, ovviamente, dopo le 2 arrivava di tutto.

Abbiamo parlato delle consonanze; c’erano anche delle differenze sostanziali?
Le differenze erano soprattutto di carattere ambientale. Il Music Inn di Roma rispecchiava una città che già allora, nelle sue molteplici sfaccettature, nel bene e nel male, era sempre la Capitale per cui c’erano dai nobili veri ai nobili decaduti, gente del cinema… era un locale molto variegato … definirlo alla moda è forse un po’ troppo, ma di sicuro era un locale che in quegli anni faceva tendenza. Il club di Vanni a Milano, il Capolinea, era un vecchio garage sui Navigli , quindi un po’ fuori Milano, e fu lui il precursore di questo posizionare i locali un po’ nelle periferie, ed era il ritrovo di tutti i musicisti milanesi che finivano di suonare… arrivavano lì verso mezzanotte, l’una e potevano dare sfogo alla propria passione, perché i più erano musicisti di sala, facevano liscio , facevano discoteca, facevano i turnisti … e lì potevano finalmente suonare il jazz che era la loro passione; poi verso le due, le tre, Vanni, come Pepito a Roma, si metteva alla batteria e aveva la gioia di accompagnare calibri come Dexter Gordon, Art Farmer, Johnny Griffin, Mal Waldron… e tanti, tanti altri. Lo Swing di Torino era ancora una cosa diversa perché l’habitat della città era diverso, Torino era una città in bianco e nero, una città grigia comunque non priva di un certo fascino, era una città che offriva attraverso questo locale uno spaccato di fantasia, uno spaccato di creatività; scendendo quelle scale, la gente, come fa notare Pupi Avati nella sua intervista, dimenticava un’Italia brutta, perché in quegli anni era un’Italia non bella, e immaginavi di essere a New York al Blue Note, a New Orleans…, sognavi, avevamo un angolo di sogno. Poi uscivi alle 3 alle 4 del mattino e spesso ti incrociavi con quelli che in piemontese si chiamano i “baracchini” quelli, cioè, che portavano il “baracchino” il posto dove mettevi il cibo, perché alle 6 dovevano aprire il turno in fabbrica (leggi Fiat) per cui molti uscivano da casa alle 4,30 alle 5 per essere puntuali sul posto di lavoro. Queste due realtà quasi si accarezzavano, per motivi di tempo, ma in vero erano due realtà che vivevano in modo profondamente diverso. E lo Swing era un’isola – diciamo – felice.

Come è cambiata la situazione del jazz a Torino?
Torino è oggi, a mio avviso, una delle città, dal punto di vista musicale, più viva. A prescindere dal fatto che oramai da tre anni si svolge questo Festival del Jazz a Torino che dura più di una settimana, e lentamente si sta affermando, poi da 15, 16 anni c’è una delle realtà più belle, nel periodo ottobre-novembre, che è questo Festival di Moncalieri, anch’esso dura una settimana, multimediale nel senso che ci sono cinema, scuole…coinvolge i locali della città (Moncalieri è una piccola realtà nell’hinterland di Torino) e ha visto ospiti prestigiosi quali Dave Brubeck, Blanchard, Dave Holland… più tanti italiani. Poi c’è un Festival a Ivrea, un altro a Pino Torinese. Però io ritengo che la forza di Torino come città del jazz risieda non tanto nel Festival, evento più turistico che squisitamente musicale, quanto in un fiorire di locali: c’è il “Jazz Club” molto attivo, c’è un altro locale che si chiama “Gilgamesh”… ce n’è un altro che si chiama “Capolinea” … e a questo fiorire di locali si accompagna un fiorire di musicisti … al Conservatorio ci sono alcune cattedre di jazz con Furio Di Castri e Dado Moroni, insomma c’è tutta una serie di attività che fanno sì che i giovani si appassionino. Non a caso oggi alcune delle realtà più belle dell’intero panorama nazionale sono Boltro, Bosso, Giachino… tutti artisti torinesi, senza, ovviamente, tralasciare i grandi del passato primo fra tutti Gianni Basso.

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Sicuramente dallo Swing saranno passati moltissimi personaggi illustri; c’è, ripescando nella tua memoria, qualche episodio che ti è rimasto particolarmente impresso?
Il locale che allora si chiamava Swing ora è diventato un “Compro Oro” da cui il titolo del documentario… Tieni presente che allo Swing, come d’altra parte al Capolinea e al Music Inn, non c’erano camerini in cui gli artisti si preparavano, si cambiavano, non c’erano barriere tra gli artisti e gli appassionati: tu entravi e incontravi i musicisti magari al bancone del bar e potevi bere con loro, scambiare quattro chiacchiere… non c’era quella frattura che ad esempio c’è oggi al Blue Note di Milano . Al Blue Note il musicista è praticamente inavvicinabile , è una star, ha il suo camerino, entra da un’altra porta. Lì no, magari venivi da casa dove avevi 50 lp di Dexter Gordon e te lo ritrovavi al bar, e potevi parlargli senza alcun problema anche perché loro erano solitamente molto disponibili: era come, scusa il paradosso, vedere la Madonna di Lourdes scendere le scale… ma allora questi esistono davvero? Non sono solo dei vinili che girano con le note… hanno una voce, hanno un corpo, hanno le gambe. Tornando alla tua domanda, certo dallo Swing sono passati tanti, tanti personaggi… io ti cito solo alcuni degli stranieri: Gato Barbieri, Ornette Coleman, Kenny Clarke, Elvin Jones, Johnny Griffin, Art Farmer, Jean-Luc Ponty, Dexter Gordon, Chet Baker era quasi di casa. Lui aveva a Torino e a Roma dei precisi punti di riferimento nel senso che quando era alla bocchetta del gas arrivava in queste città e trovava sempre degli amici. Aneddoti ce ne sono tanti. Ne rammento uno che viene riportato anche nel documentario e che riguarda Ornette Coleman. Quando venivano queste star c’erano i due turni, si riempiva l’uno e poi verso le 23 si faceva l’altro. Ornette era abituato negli Stati Uniti ad essere pagato due volte mentre qui doveva capire che si faceva fatica già a pagarlo una sola volta… ci fu una discussione, ma poi, conti alla mano, si convinse e fece due set al prezzo di uno secondo lui, secondo noi al prezzo di un concerto pieno. Un altro aneddoto è significativo perché rivela come lo Swing fosse tutto sommato un modo di essere, e riguarda Cher Baker. Bene, una mattina presto mi chiama Chet e mi dice che un impresario in Germania, dopo aver fatto sei o sette date, gli aveva assicurato che l’avrebbe incontrato e pagato alla stazione prima di prendere il treno…naturalmente l’impresario non si fece vivo e Chet non incassò alcunché. Così arrivò a Torino; era un mese freddo e lui camminava con gli infradito… insomma, per farla breve, lo portammo nella pensione che l’ospitava sempre, Poncini, gli comprammo un paio di scarpe chiuse, lo rimettemmo un po’ in sesto , gli trovarono delle date… insomma Chet aveva qui in Italia davvero dei grandi amici e lui lo sapeva tanto da vedere il nostro Paese come un suo rifugio. Questa è una cosa che mi fa piacere ricordare perché Chet era una persona buona, e sono contento che qui, in Italia, abbia trovato tante persone che ancora oggi lo ricordano con dolcezza.

Quanto mi dici trova conferma nel fatto che tutti i musicisti con cui ho parlato che, in qualche modo, hanno avuto a che fare con Chet, ne hanno un’immagine indelebile e lo ricordano con quella dolcezza cui hai fatto riferimento…
Certo, la cosa non mi stupisce, anzi! Chet seminava la strada di amici veri ai quali lui insegnava la bellezza delle note, senza bisogno di alcuna sovrastruttura; ad esempio in “Compro Oro”, il batterista Franco Mondini, allora bravissimo, che lavorò tanto con Chet Baker afferma “io con Chet mai ho visto uno spartito musicale”. Mio fratello (Maurizio Lama, grande pianista scomparso prematuramente a 30 anni per un incidente stradale n.d.r.) lavorò con lui al Bussolotto quando poi Chet venne arrestato; allora al Bussolotto le scritture erano lunghe, anche un mese un mese e mezzo per cui si alternavano diversi pianisti … c’erano Renato Sellani, Amedeo Tommasi, Franco D’Andrea.. facevano una, due settimane perché le ritmiche si alternavano e tutti lo ricordano con amore. Chet era un musicista che, se avesse avuto la testa, intendo dire se fosse riuscito a gestirsi meglio sul piano pratico, nella vita di tutti i giorni, sarebbe diventato uno dei personaggi del XX secolo. Era bello come James Dean , aveva una voce, uno strumento, un carattere che lo potevano rendere un personaggio storico del Millennio… purtroppo c’era qualche cosa che non girava ed era un personaggio facile da prendere in braccio per cui chiunque non si approcciasse a lui con amore, con affetto ma con l’idea di dargli un morso, ci riusciva. Oltre tutto lui visse in un periodo d’oro per il jazz, il jazz californiano, Shelly Manne, Bud Shank, Desmond, Brubeck stesso… tutta gente che ha accumulato ricchezze. Lui ne avrebbe potuto accumulare ancora di più perché al genio musicale abbinava questa bellezza, questo aspetto fisico di bel tormentato … ma, come sappiamo, non fu così.

Torniamo al documentario; con quale criterio avete scelto i musicisti da intervistare?
Con un criterio cinico ti direi: quelli vivi. In realtà abbiamo cercato quelli che più frequentavano il locale, anche perché l’aspetto del locale era la multi pluralità nel senso che c’era di tutto… c’erano persone che poi hanno fatto i musicisti professionisti (leggi Enrico Rava, Furio Di Castri, Dino Piana… e altri) ma c’erano anche persone che poi hanno fatto i cantanti (leggi Paolo Conte che veniva a strimbellare il vibrafono allo Swing da Asti), c’erano persone che poi hanno fatto il giornalista (leggi Peter Angela come si faceva chiamare allora… adesso si chiama Piero Angela), c’erano persone che hanno fatto i magistrati e poi c’erano persone di tutti i giorni come si vede nel film, era gente che di giorno aveva il banco al mercato o faceva il fabbro o faceva l’avvocato o l’assicuratore… era veramente il mondo trasversale del jazz, quello che io credo debba essere il vero spirito del jazz. Noi diciamo “Vivere Swing Vivere Jazz” e questa è una scoperta che abbiamo fatto nel filmato, c’è un filo rosso che unisce tutte le persone che hanno amato questo tipo di musica. Non ne conosco le caratteristiche ma sta di fatto che appena ci siamo incontrati, è bastato sentire in sottofondo un giro di blues e ci siamo ritrovati cinquant’anni indietro. Ecco, questo è lo spirito che ci ha condotti da un canto a trovare personaggi importanti – e quindi abbiamo parlato con Piero Angela, con Mondini, con i musicisti di allora, con chi ha fatto il magistrato…- ma soprattutto siamo andati a scovare quelli che finita quell’epopea si sono rimessi a fare il loro lavoro ma hanno continuato ad amare il jazz, a suonarlo seppure in modo amatoriale, non professionistico.

Oltre te, chi sono gli altri autori del documentario?
Siamo in tre, con estrazioni diverse ma con un denominatore comune: siamo tre persone che nella loro vita lavorano o hanno lavorato nella pubblicità. Io, per fatti anagrafici, sono un po’ la memoria storica, ma anche per fatti professionali dal momento che per quindici, sedici anni ho avuto un’agenzia di concerti , soprattutto jazz. Io, quando avevo delle date vuote, ad esempio tra un concerto a Milano ed uno a La Spezia o a Genova, preferivo fermarmi a Torino così dormivo a casa e i musicisti suonavano allo Swing. Poi c’è Marino Bronzino che è un regista di spot pubblicitari e Angelo Santovito che opera anche lui nel settore della documentaristica, pubblicitaria e non, come direttore della luce. Ho trovato queste persone che erano su una lunghezza d’onda simile alla mia e abbiamo deciso di fare questa cosa e il prodotto – mi fa piacere che ce lo abbia confermato anche Pupi Avati – è di buona, alta qualità. Il cuore del film – ed è stata questa la cosa cui tenevo di più – è stato apprezzato, ossia è un documentario che può essere gustato non solo dagli appassionati di jazz ma anche da quanti orecchiano questa musica… insomma abbiamo voluto documentare uno spaccato di una città, di una società .

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