DECATHLON DISCOGRAFICO

La seguente selezione di dieci album è un Decathlon fatta per “disciplina” di strumento dei leader di formazione. Ovviamente la scelta è un’istantanea hic et nunc, dettata dal momento.  E’ un po’ come al Fantabasket od al Fantacalcio! Si individuano le individualità fra quelle più in forma, e si inseriscono a tavolino in una squadra virtuale che esiste solo sulla carta. Dopo un po’ è prevista una rotazione dei nomi, oltretutto quella proposta non è una classifica delle valenze ma una inquadratura parziale del materiale discografico che ci si ritrova in attesa di esaminarne dell’altro. Il team che ne vien fuori è un ipotetico ensemble di cd con sax/tromba/piano/tastiere/vibrafono/violino/contrabbasso/batteria/percussioni/musica d’insieme.

  1. Stefano Conforti Quintet, Different Moods. Omaggio a Yusef Lateef, Notami Jazz

L’omaggio a Yusef Lateef (William Evans), grande tenorsassofonista flautista oboista e fagottista americano, come quello che Stefano Conforti ha prodotto per Notami Jazz è di quelli destinati a lasciare il segno. Intanto è un tributo, oggi a dieci anni dalla morte, ad un jazzista dal curriculum straordinario che annovera collaborazioni con Gillespie, Burrell, Grant Green, Mingus, Fuller, Cannonball e Nat Adderley, Lawson, Cecil McBee, ma soprattutto a chi ha sviluppato, dopo gli inizi bop, “different moods” di un “sound ricco e denso di growl “ (Barithel-Gauffre)  con influssi mediorientali. Pur consapevole nella difficoltà ad accostarsi ad un siffatto polistrumentista il sassofonista-flautista-oboista italiano vi si è cimentato disinvoltamente nell’album “Different Moods. Omaggio a Yusef Lateef”, inciso per Notami Jazz, con la formazione che vede Doriano Marcucci a chitarra acustica trombone didgeridoo e percussioni, Tonino Monachesi alla chitarra elettrica, David Padella a basso elettrico e contrabbasso e Roberto Bisello alla batteria. Il quintet ha riproposto in tutto otto brani – fra i quali “Metaphor”, “Road runner”, “The Golden flùte”, “Belle isle”, “Spartacus” di Alex North – con buona resa specie se si pensa a certi tributi alla naftalina che capita di ascoltare qua e là. Le esecuzioni, se non sono calligrafiche sul piano filologico-musicale, lo sono a livello di sonorità estesa e tensione distesa nel segno di un musicista dalla narrazione inzeppata di riferimenti filosofici e poetici, espressi tramite una musica che lui stesso ha definito “auto-fisiopsichica”.

  1. Sean Lucariello, Despite It All, Caligola Records

Gli editor italiani fanno sempre più scouting. Succede anche in campo discografico con label come Caligola Records che pubblica lavori di giovani e/o esordienti per rimpolpare di forze fresche il catalogo. Una politica editoriale che spesso viene premiata dagli ok di pubblico e critica, prospettiva che saremmo pronti a sottoscrivere per l’album Despite It All del trombettista-flicornista nonché compositore Sean Lucariello.  E’ indubbio che questa coppia di strumenti principe del jazz ha sempre un fascino che seduce. Ed è di un camaleontismo unico il suo modificarsi a seconda della collocazione. Nel quintetto italo-spagnolo assortito da Lucariello che vede Edoardo Doreste Velasquez a sax soprano e alto, Sasha Lattuca al pianoforte, Francesco Bordignon al contrabbasso e Ignacio Ampurdanès Ruz alla batteria, la cornice è l’esatto contrario dello strepitio tanto è armonicamente sottile. E la tromba, il cui suono a momenti pare richiamare il Wheeler più compassato, vira sciolta la canna d’imboccatura in brani come l’introduttivo “Astral Conjunctions” scritto da Bordignon seguito da “Il Maestro e la Margherita” che il leader ha inteso dedicare a Bulgakov.  L’attenzione letteraria è comune con il pianista, autore della suite “Tendre Est La Nuit”, chiaro il riferimento al romanzo di Fitzgerald, dove pare che la tastiera rincorra il silenzio, forse la vera e segreta aspirazione della musica, nonostante tutto. Lasciando scorrere il cd dall’ulteriore “notturno” “Song With No Title” si passa poi ad una atmosfera di taglio più nettamente bop in “The Beaty of Boredom” mentre In “Five”, pezzo di Matteo Nicolin,  gli accenti si fanno più metropolitani grazie al piglio elettrico del Fender Rhodes di Lattuca.

  1. Federica Lorusso, Outside Introspections, Zennez Records/Abeat

Con un album inciso in Olanda per la Zennez Records, la Abeat Records presenta anche sul mercato italiano Outside Introspections, firmato dalla giovane pianista italiana Federica Lorusso.  La musicista fa da calamita nell’ integrato interplay del 4et con Claudio Jr. De Rosa al tenore (e ad al clarinetto in “Take A Breath”), David Macchione al contrabbasso ed Egidio Gentile alla batteria. I jazzisti dimostrano singolarmente di poter  vantare notevole “arte/fare” nei nove brani in cui il sax lascia sgolare una “voce” suasiva, il contrabbasso inchioda una probante cadenza nel timing, la batteria gioca costante sull’accentare e sincopare, la leader canta a mò di octaver, unisonica sulle note della tastiera: indizi che fanno la prova di un percorso agile per esporre, esplicare, esplicitare the hidden side of the music. Dall’inside all’extroversion, all’outside i vari gradi compositivi arricciolano un bijou di tracklist che gronda di “assorbimenti” stilistici che non vogliono essere, come il titolo del cd, degli ossimori stilistici – postbop-fusion, pop-classical – che poi tali non sono specie se innaffiati di quei semi creativi sparsi anche nella regione dei tulipani.

  1. Enrico Solazzo, Perfect Journey, Millesuoni/ Via Veneto Jazz

Se esiste una chiave per creare connessione autentica col pubblico quella è anzitutto la musica. Ed esiste un tipo di comunicazione musicale che avvicina perché la si avverte, semplicemente, coetanea. Il tastierista Enrico Solazzo ce ne dà un saggio con l’album Perfect Journey edito da Millesuoni (mai marchio fu più illuminante) della ViaVeneto Jazz. Vi sono esaltate le sue capacità di arrangiatore, oltre che di solista, unitamente a quelle di musical coach in quanto allenatore di un team che conta qualcosa come quaranta fuoriclasse. Riesce alquanto difficile elencarli tutti per ragioni di spazio. Qualche nome? Dennis Chambers, Gumbi Ortiz, John Pena, Kadir Gonzalez Lòpez, Niclas Campagnol, Baptiste Herbin, Lo Van Gorp fra gli stranieri. Roberto Gatto, Stefano Di Battista, Antonio Faraò, Fabiana Rosciglione, Tony Esposito, Gegè Munari fra gli italiani. Insomma un bel “gruppo misto” alle prese con una quindicina circa di brani fra originali e standard di musica internazionale.  Tornando al discorso iniziale come fa un professionista, quale Solazzo, è a comunicare la propria musica nell’epoca dei podcast e del gaming? Intanto non basta esser maestri dell’ entertainment. E non è sufficiente riprendere alla grande hits tipo “Crazy” o “Caruso” per avvicinare l’audience. Ogni epoca ha suoni che le si confanno. Ad esempio le keyboards midi avevano un suono che oggi risulterebbe datato come un moog così come certi effetti campionati. La particolarità di questo disco, a parte il caleidoscopio di collaborazioni, sta nell’aver lo strumentario giusto per l’oggi, nell’averne saputo introiettare lo zeitgeist più positivo con gli arrangiamenti, nel trasmetterlo ad un ampio ventaglio di fasce d’ascolto come tappe di un viaggio perfetto, quello di Enrico Solazzo, di Brindisi: da brindisi!

  1. Michele Sannelli & The Gonghers, Inner Tales, Wow Records.

Mezzo secolo dopo i ’70 si può ancora suonare progressive? La risposta è affermativa se non ci si limita a frugare nel modernariato dei suoni vintage o nei mercatini del suono usato. Il prog, alla mezz’età, si presenta quale estetica musicale vigente, contermine a rock e jazz rock. Vero è che in alcuni casi si è assistito ad un ritorno regressivo all’infanzia e in altri la senescenza ne ha incanutito sembianze e portamenti baRock. Quando però capitano fra le mani album energici e briosi come Inner Tales, della Wow, inciso dal vibrafonista Michele Sannelli & The Gonghers, si ha cognizione di come quel “non genere” abbia ancora un carattere … progressivo. Della band, finalista al contest Jam The Future – Music For A New Planet di JazzMi  nel 2019 e, nel 2022, prima al Concorso “Chicco Bettinardi” di Piacenza, fanno parte il chitarrista Davide Sartori, il tastierista Edoardo Maggioni, il bassista/contrabbassista Stefano Zambon e il batterista Fabio Danusso. Questo disco d’esordio rivela ad una platea potenzialmente più ampia dei palcoscenici che i musicisti già calcano una forgiata vis sperimentativa che è uno degli stampini del prog brand. Vi campeggiano due icone: Dave Holland in uno dei sette brani di Sannelli (“Uncle Dave”) eppoi c’è il richiamo in denominazione al gruppo space rock dei visionari Gong di Daevid Allen, fondatore degli psichedelici Soft Machine. Le “Storie interne” al compact, dalla romantica “Song for Chiara” all’iterativo “Circle”, dal marcato “Hard Times” al soffuso “Green Light”, dal dinamico “Run Mingo Run” al lirico “Just in Time to Say Goodbye”, vanno peraltro lette non solo in termini di rivisitazione di modelli esistenti bensì di riscoperta di quei modi di far musica d’insieme che risorgono ciclicamente, resistenti alle intemperie, “eterne modernità” per dirla alla Sironi.

  1. Francesco Del Prete Violinorchestra, Controvento/Dodicilune.

Fra musica e vino, dicono studi scientifici, esiste una relazione profonda. Il rapporto interessa anche i musicisti, si pensi all’opera (“Fin ch’han dal vino”, dal Don Giovanni di Mozart), ai walzer di Strauss (“Vino donna e canto”), agli standard jazz (“The Days of Wine and Roses”), al canto nero di Nina Simone (“Lilac Wine”), al blues di Amy Winehouse (“Cherry Wine”, coautore Nas), al soul/r&b di Otis Redding (“Champagne and Wine”), al pop di Adele (“Drink Wine”).   Dalle nostre parti si ritrovano gli stornelli di Gabriella Ferri (“Osteria dei magnaccioni”), le note cantautoriali di Modugno (“Stasera pago io”), Gaber (“Barbera e champagne”), Guccini (“Canzone delle osterie di fuori porta”) con il rock di Ligabue (“Lambrusco e popcorn”) e Zucchero (“Bacco perbacco”) e la “chanson” di Sergio Cammariere (“Il pane il vino la visione”).
Dalla terra dei messapi si segnala, nella corrente annata discografica, l’album Rohesia di Francesco Del Prete con la Violinorchestra (Controvento/Dodicilune). Un lavoro non della serie jazz & wine, questo del violinista salentino gravitante anche in area jazz, essendo intriso di sonorità legate al territorio in cui si vendemmiano i cinque vini della Azienda Cantele a cui sono dedicati altrettanti brani. Scrive al riguardo Maria Giovanna Barletta che “in Rohesia  Pas Dosè, Rohesia Rosso, Teresa Manara, Rohesia Rosè ed Amativo, ecco una diversità resistente che si riappropria attraverso l’arte poetica della melodia del qui e ora”.  Il compact, nel cui progetto sono partecipi Lara Ingrosso (voce), Marco Schiavone e Anna Carla Del Prete (violoncelli), Angela Così (arpa), Emanuele Coluccia (piano) e Roberto “Bob” Mangialardo (chitarre), ha un booklet-winelist  esplicativo sui “nettari degli dei” oggetto della selezione e sulla musica loro abbinata a mò di etichetta. Amalgamando pizzica e swing, elettronica ed echi mediterranei, a seconda del carattere e delle caratteristiche, non solo organolettiche, del vino da “sonorizzare”, Del Prete ha generato un prodotto originale che oltretutto fornisce un esempio di come la musica possa essere alleata di un’economia resa “circolare”. Da un disco.

  1. Marco Trabucco, X (Ics), Abeat Records

X (Ics), a marchio Abeat Records, del contrabbassista Marco Trabucco, è album che trae spunto nel titolo dal numero decafonico dei ruoli musicali che vi figurano, appunto dieci (Scaramella, pf; Colussi, dr; Vitale, mar; Ghezzo, g.; Andreatta, v.; Dalla Libera, viola; Calamai, fl.; Pennucci, cor., oltre Trabucco nella doppia veste di compositore e strumentista).  X, inoltre, rimanda, come scrive Paolo Cavallone nelle liner notes, “all’incognita che risulta dall’accostamento di sonorità cameristiche classiche con quelle del jazz”. X potrebbe stare anche per Pareggio vista l’equivalenza degli apporti fra legni-ottoni e jazz 4et di base con rivoli afrofolk a base di balanon (e marimba). I brani, in tutto cinque che è la metà di dieci (“One For Max”, “Open Space”, “Untitled”, “Meraki”, “Otranto”), scorrono limpidi come un ruscello alle falde di una montagna tant’è che non si avverte (di)stacco fra l’uno e l’altro. Segnale, questo, che la spinta inventiva ha origine da uno statuto creativo fondato su idee fluide sul come moltiplicare (ancora x) temi armonie timbri spazi improvvisativi sui due confini, classica e jazz, promossi a zona franca da etichettature di sorta.  Un disco, inoltre, contrassegnato da atmosfere rarefatte e da un lessico talora minimalista – chissammai perché la mente va al film Dieci di Kiarostami – in cui il regista Trabucco da autore si cala appieno nel “personaggio” del musicista che sa trasmettere, agli/cogli altri interpreti, il gioco instabile, tipo playing 1X2 dove è sempre la X a funzionare da centro di gravità.

  1. Andrea Penna, A New World, Workin’ Label.

Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando Dvorjak dedicò al Nuovo Mondo la Sinfonia n. 9! Eppure l’aspirazione/ispirazione dettata dal desiderio, magari utopico, di un mondo diverso e migliore, affiora ancora fra i musicisti. Il batterista-compositore piemontese Andrea Penna, con il c.d. A New World (Workin’ Label), è uno dei pensierosi visionari che “usano” la  musica per autoproiettarvi  i riflessi interiori del proprio mondo in osservazioni (“It Was Just Like That”), ricordi (“Poki”, “In My Arms”), emozioni (“E Fuori piove”), ritratti (“1B My Dear”), flashes (“Tutto in un Momento”) ora raccolti e ordinati. Ah, ecco perché i dischi li chiamano album! Il relativo sound registra umori provenienti dalla memoria – richiami GRP, echi travel/metheniani, ibridismi similrock –  nello sfarinare una tracklist di nove brani di fusion effusiva grazie alla formazione che vede Massimo Artiglia a piano e tastiere, Luca Biggio ai sax, Mario Petracca e Andrea Mignone alle chitarre,  Umberto Mari al basso e voce,  Antonio Santoro al flauto. Se è lecito esprimere una preferenza la scelta cade sul brano d’apertura, “Parlami Ancora”, “scritto immaginando il mare, il discorrere intenso e rilassato passeggiando sulla spiaggia, con qualche brivido di gioia ed una grande voglia di libertà”. Giusto e opportuno antecederlo per far assaporare da subito il gusto della scoperta dell’immaginifico New World di Andrea Penna.

  1. Roberto Gatti, Amanolibera, Encore Music

Quello delle percussioni è un mondo a sé stante con la propria storia, le riviste, i libri, le cattedre, i miti: Don Azpiazù, Ray Barretto, Alex Acuna, Airto Moreira, Chano Pozo,  Mino Cinelu, Ralph MacDonald, James Mtume …  Quello delle percussioni non è un mondo a sé stante in quanto legato a filo doppio con gli altri strumenti che ne valorizzano al meglio le peculiarità. Sono due affermazioni uguali e contrarie. E bisognerebbe aggiungerne una terza, sempre ambivalente, che le percussioni possono rappresentare un’idea ritmica della musica, il latin, ad esempio, in cui la collocazione solistica è al tempo stesso elemento funzionale spesso imprescindibile dell’ensemble. L’album Amanolibera di Roberto Gatti, percussionista, edito da Encore Music, con circa una trentina di musicisti coinvolti nel progetto – fra gli ospiti anche Horacio El Negro Hernandez, Paoli Mejias, Oscar Valdes, Roberto Quintero, Jhair Sala, Gabriele Mirabassi, Lorenzo Bisogno, Tetraktis – documenta quanto il percussionismo, in particolare quello di spanish tinge, ne sia elemento vitale appunto insostituibile. Gatti vi si è cimentato anche a livello compositivo ragionandoci sopra con un drum set di congas, bongos, cajon, timbales, voce, tessendovi sei brani degli otto in scaletta (“Gatti Song”, “Bombetta”, “Chachaqua”, “Roberto’s Jam”, “Rumba per Giovanni”, “Jicamo 2.0”) in alcuni casi cofirmati, recitando così free hand un rosario sonoro allargato in sincronia al Sudamerica ed in diacronia a figure storiche dell’afrocubanismo. “La Comparsa” di Lecuona e “Giò Toca” di Valdes sono i due pezzi che Gatti non ha assortito dalla collezione personale, consentendo a chi ascolta un ritorno a melodie già metabolizzate con le sue percussioni a far da sorelle siamesi di una batteria con cui dialogare fittamente, da minimo comun denominatore che diventa massimo comun divisore di microscansioni particellari e poliritmie a catena.

  1. No Profit Blues Band. Helpin’ Hands. 20th Anniversary LILT di Treviso.

Musica e medicina. Un’arte e una scienza. Con tante applicazioni e “trasfusioni” dall’area sanitaria a quella musicale destinate a creare effetti benefici di vario ordine, a partire dalla musicoterapia. E sono tanti gli operatori del ramo che hanno coniugato Esculapio ed Euterpe. Pensiamo a medici-compositori come Borodin, ai cantautori Jannacci e Locasciulli, a uno stimato pianista jazz come Angelo Canelli, a trombettisti come il docente di ginecologia Nando Giardina della Doctor Dixie Jazz Band, a chitarristi come il radiologo Vittorio Camardese sperimentatore del tapping sulla seicorde, al medico-batterista Zbigniew Robert Prominski membro dei Behemoth (collaboratore degli Artrosis, tanto per rimanere in tema)… Fra gli stili il blues (e derivati) si evidenzia come una fra le più azzeccate medicine dell’anima. Sono vent’anni che lo sperimenta sul campo la No Profit Blues Band che, per il compleanno, presenta l’album Helpin’ Hands frutto della collaborazione con la LILT di Treviso. Dismessi camici e mascherine, messi nel cassetto bisturi e stetoscopi, la band di professionisti della sanità con pianoforte (Alberto Zorzi), chitarra (Maurizio Marzaro), batteria (Danilo Taffarello), basso (Matteo Gasparello), voci (Teo Pelloia, Jessica Vinci, Luisa Lo Santo, Elisabetta Monastero), saxes ( Giacomo “Jack” Berlese) e armonica (Mauro Erri) ha adoperato un altro tipo di attrezzatura per “radiografare” i dintorni del blues . Scopo dell’”operazione”? Far sorridere i pazienti della LILT trevigiana diffondendo pillole di buonumore con iniezioni di spensieratezza. Un ensemble, il loro, mosso esclusivamente dal piacere di offrire la loro musica come antidoto per quanti vi possano trovare motivo di distrazione. Va detto che i pezzi in scaletta sono stati scelti ed eseguiti con maestria e verve.  In scaletta ci sono “Smile” di Chaplin  (cavallo di battaglia del fisiatra Zorzi), “Mustang Sally” di Rice (si è  in pieno  r&b alla Pickett ), “Summertime” (Gershwin forever), “Route 66”  di Troup (con versioni che vanno da Nat King Cole agli Stones), “Unchain My Heart” di Sharp (ripreso divinamente fra gli altri da Joe Cocker), “Hoochie Coochie Man” di Dixon (Muddy Waters uber alles), “I Got A Woman” e “Halleluja I Love Her So” di Ray Charles, “Let The Good Times Roll” hit di B.B. King … Musica angelica, macchè diabolica, per lenire le ferite dello spirito.

Torna il grande Jazz sotto i cieli di Roma

Dopo un periodo di relativa stasi per motivi facilmente individuabili, Roma è tornata ad essere attrattiva per gli passionati di jazz. Così da un canto l’Auditorium (con pochi ma eccellenti appuntamenti) dall’altro la Casa del Jazz con la sua consueta rassegna estiva, stanno fornendo ai cultori del jazz parecchi appuntamenti degni di rilievo, su alcuni dei quali mi soffermerò qui di seguito.

Il 10 luglio, alla Cavea dell’Auditorium, appuntamento con Gregory Porter. Sono oramai parecchi anni che conosco ad apprezzo questo vocalist e ancora una volta la sua performance ha corrisposto in pieno alle mie aspettative. La sua musicalità, il feeling che riesce a trasmettere agli ascoltatori, il suo senso del ritmo, il modo in cui riesce ad interpretare qualsiasi testo sono davvero straordinari. E non è certo un caso che la sua carriera artistica sia costellata da grandi successi e riconoscimenti tra cui due Grammy Awards per Miglior Album Vocale.

Per celebrare un decennio di successi, Gregory Porter ha pubblicato “Still Rising”, un doppio album contenente 34 tracce tra brani inediti, covers, duetti e una selezione speciale delle sue canzoni più amate. Ed è proprio sul repertorio di quest’ultimo doppio album che si è incentrata la performance romana. Ben coadiuvato da Hip Crawford al piano, Tivon Pennicott al sax tenore, Emanuel Harrold alla batteria, Jahmal Nichols al basso elettrico e Ondrej Pivec all’organo (gli stessi che l’hanno accompagnato nella già citata ultima fatica discografica) Porter ha dato ancora una volta un saggio di bravura proponendo una musica in cui era facile scorgere echi di soul, di gospel, di blues, financo di pop, mescolati in un unicum tanto originale quanto suggestivo. Ed è stato a tratti entusiasmante sentirlo duettare con alcuni dei suoi compagni di viaggio in un concerto tutto sommato breve ma di grande intensità.
Ascoltando Porter viene naturale un parallelo con i nostri giovani rampanti: beh, penso che ai vari San Giovanni, Albe, LDA, Ultimo e via discorrendo non farebbe male ascoltare qualche disco di chi sa cantare veramente bene. Ma questo è un tema che mi sollecita oramai da tempo e su cui prima o poi vorrò intervenire.

Il 13, sempre alla Cavea, appuntamento con una vera e propria leggenda del jazz: Herbie Hancock. Spesso si adopera la parola “leggenda” in modo esagerato ma nel caso in questione non v’è dubbio alcuno che il termine sia più che appropriato. Non è questa la sede adatta per sintetizzare un curriculum assolutamente straordinario; basti solo dire che l’artista di Chicago, oggi ottantunenne, ha attraversato, sempre da protagonista, generi e mode come performer, compositore, arrangiatore, produttore, scopritore di talenti, inventore di nuove tendenze, senza mai perdere una coerenza di fondo. A Roma si è presentato alla testa di una band eccezionale completata da Terence Blanchard alla tromba, Lionel Loueke (chitarra), James Genus (basso) e Justin Tyson (batteria). Ascoltare un concerto di Hancock è come rivivere, in sintesi, buona parte della storia del jazz dal momento che questo artista ha sviluppato un’estetica giocata sempre su una sorta di doppio binario: da un canto virtuoso pianista del jazz acustico, dall’altro estimatore se non fondatore del funky elettronico. E questi due aspetti della sua personalità sono apparsi evidenti anche nel concerto romano; così in una prima parte abbiamo ascoltato alcuni classici del jazz come il sempre verde “Footprints” di Wayne Shorter, un altro giovanotto di 89 anni, omaggiato da Hancock che si alternava al piano e alle tastiere non disdegnando un ricorso mai esagerato al vocoder (ma che comunque se non ci fosse stato nulla avrebbe tolto alla validità del concerto). Nella seconda parte Hancock si richiamava al suo coté più funky e chiudeva il concerto con “Chameleon” brano tratto dal celebre album “Head Hunters” del 1973, scatenando l’entusiasmo del pubblico che si è accalcato a ballare sotto il palco.

E veniamo adesso ai concerti alla Casa del Jazz.

Il 12 luglio una vecchia e cara conoscenza del pubblico romano: John Scofield. Il chitarrista può a ben ragione essere considerato una delle massime espressioni della chitarra jazz degli ultimi decenni. Musicista eclettico, voglioso sempre di sperimentare strade nuove, questa volta si è presentato con un progetto del tutto nuovo, “Yankee Go Home”, con cui torna alle radici del rock americano, riscoprendo classici fra il folk e il rock’n’roll. Accanto a lui Jon Cowherd (pianoforte e tastiere), Vicente Archer (contrabbasso)e Josh Dion (batteria). E’ lo stesso Scofield a illustrare il senso di questo nuovo progetto, non senza elogiare i suoi compagni di viaggio: “L’idea –afferma Scofield – è di coprire successi americani/rock e canzoni folk jazz, più alcuni dei miei brani originali scritti in quel modo. Mi sto riconnettendo con molte delle mie radici Rock ‘n Roll da adolescente, naturalmente colorate dai miei 50 anni di pratica Jazz…. Questi ragazzi sono straordinariamente versatili, altrettanto bravi quando si tratta di suonare in modo interattivo e creativo. Stiamo esplorando rock, funk, country, jazz e musica libera e ci divertiamo moltissimo. Sono entusiasta di questa collaborazione”. Risultato raggiunto? Assolutamente sì; il repertorio, comprendente brani tra gli altri di Bob Dylan, Neil Young, Grateful Dead, B.B. King, Buddy Holly, viene declinato attraverso quella maestria strumentale che ben conosciamo oramai da tanti anni. Scofield è sempre lì a tessere le fila del discorso, con un solismo preciso, elegante, raffinato mai soverchiante cosicché tutti i suoi compagni di viaggio hanno la possibilità di mettersi in luce. I vari pezzi vengono riletti alla luce di quelle esperienze cui lo stesso Scofield faceva riferimento ridando loro una sorta di nuova linfa e il pubblico dimostra di apprezzare con lunghi appalusi a scena aperta. Immancabile il bis: un coinvolgente blues che evidenzia come Scofield rimanga solidamente ancorato anche alle radici della musica afro-americana.

Il 21 uno dei concerti inseriti nell’ambito della rassegna, tutta dedicata alle nuove tendenze e, dunque, alle più interessanti proposte di jazz contemporaneo. Un mondo affascinante, in cui si incontrano jazz, soul, funk, hip-hop, elettronica e spoken word.
In particolare giovedì 21 di scena il batterista Makaya McCraven produttore e batterista emergente, definito da Down Beat come uno dei più influenti musicisti del prossimo decennio.
In effetti Makaya McCraven, figlio di Stephen McCraven, batterista di Archie Shepp tra gli altri, è tutto questo e molto di più: americano di Parigi classe ‘83, iniziato alla musica jazz dal padre, cresciuto tra gli altri con la formazione derivante dal già citato Shepp, inizia a collaborare con artisti del calibro di Kris Delmhorst e gli Apollo Sunshine, prima di stabilire un suo complesso con il bassista Junius Paul, il chitarrista Matt Gold e il trombettista già attivo autonomamente Marquis Hill, formazione con cui si è presentato alla Casa del Jazz, per un concerto che ha soddisfatto appieno le più rosee aspettative.

La band inizia a suonare senza presentare alcunché; McCraven è uomo di poche parole, e non si concede quasi mai pause, tranne una ogni tre pezzi circa per presentare e ringraziare la sua band e per annunciare – qualche volta – il nome del prossimo pezzo. Per il resto è stata una serata di pura musica ed energia: non solo di McCraven, il cui vigore era pari alla sua abilità – mai sentito un batterista che suonasse per circa un’ora e mezza, senza mai smettere di percuotere pelli e piatti con tanta ininterrotta energia – ma anche di tutti gli altri musicisti, che durante il concerto si cimentavano con diversi tipi di percussioni. Altra nota di merito va alla varietà di brani suonati: si passa da pezzi ormai diventati standard del jazz, come “Autumn in New York”, Frank’s Tune” di Frank Strzier o “A Slice of the Top” a pezzi originali di McCraven, come “In These Times”, “The Bounce!” e un inedito tratto dal suo prossimo album in uscita a settembre.
Riguardo alla performance dell’”archeologo del beat”, (come si definisce lo stesso batterista), essa nel suo complesso si basava su due punti di forza: la leadership di McCraven, che con grande forza e precisione trascinava sia i suoi musicisti sia il pubblico durante le esibizioni, nonché l’approccio inedito da DJ dello stesso McCraven specie nelle sue composizioni: infatti in gran parte dei brani veniva ripetuto un leitmotif al basso, che diventava il vero centro motore della situazione, attorno a cui venivano aggiunte gradualmente la batteria, la chitarra, la tromba e varie percussioni; in seguito si passava ad una graduale elaborazione dei motiv aggiunti alla linea di basso che, rimanendo sempre costante, forniva all’ascoltatore un filo rosso che legava le varie elaborazioni e improvvisazioni e un senso di familiarità all’interno della composizione. Quest’operazione coniuga a mio parere il processo creativo di numerose canzoni house, dance ed EDM con l’improvvisazione tipica del jazz: inoltre l’enfasi posta sulle percussioni nel concerto è caratteristica anche dei beat dei brani hip hop, dove il ritmo della base è cruciale per orientare il rapper durante il brano in questione.

 

Il 23 la Casa de Jazz proponeva un quesito intrigante: può la sofisticata poetica di un Pieranunzi coniugarsi con l’incredibile carica energetica di Antonello Salis? In altri termini possono coesistere due musicisti stilisticamente quasi all’opposto, uniti solo dalla grande passione e dedizione alla musica? Ciò perché il concerto in programma prevedeva per l’appunto un duo di piano composto da questi due artisti che mai avevano avuto modo di incontrarsi sul palco. Grande attesa, quindi, e non a caso grande affluenza di pubblico…ripagato da un concerto sicuramente interessante. Seduti l’uno di fronte all’altro i due hanno suonato per circa un’ora e mezza sciorinando un’intesa che non era facile prevedere. Spesso si partiva da un tema che veniva sviluppato, esaminato, sviscerato fin nelle sue più intime pieghe e quindi riproposto in una veste totalmente diversa che traeva nelle capacità improvvisative dei due nuova linfa vitale. E questa volta non si può dire che l’uno si sia piegato alle esigenze dell’altro in quanto ambedue hanno sviluppato appieno le proprie tematiche che finivano con l’incontrarsi su un terreno ben frequentato sia da Enrico sia da Antonello: l’improvvisazione pura o forse meglio la capacità di creare musica strada facendo. In effetti, oltre che partire da un dato tema, i due si sono spesso avventurati anche sul foglio bianco, vale a dire cominciando a suonare senza conoscere il punto di approdo, con una maestria che solo pochi posseggono.
Ed è stato lo stesso Pieranunzi a svelare come la musica eseguita sia stata tutta improvvisata. Tra i brani eseguiti, da ricordare una sempre suggestiva “Moon River” di Henry Mancini, una “Well, you needn’t” di Thelonious Monk che nulla ha perso dell’originario fascino, una memorabile versione di “Naima” di John Coltrane, nonché un sentito omaggio ad Ennio Morricone con “Il clan dei siciliani”.
E a conferma della splendida atmosfera che si respirava sul palco, Pieranunzi è apparso particolarmente in forma anche quando ha intrattenuto il pubblico con sagaci commenti sulla “strumentazione” di Antonello (tra cui una latta di tonno Callipo) e con un sentito ricordo della sua esperienza a fianco di Morricone.

Ed eccoci alla serata di lunedì 25. Mi reco alla Casa del Jazz al solito orario e noto immediatamente una sorta di novità: una fila interminabile di auto parcheggiate sul marciapiedi a indicare una straordinaria affluenza di pubblico. Cosa che verifico subito: i giardini della Casa del Jazz sono letteralmente invasi da una massa di giovani festanti in attesa dell’evento: il concerto di “Sons of Kemet”.
La band inglese è giunta a Roma preceduta da una formidabile campagna di stampa che la indicava come una delle massime espressioni del cosiddetto nu jazz; a richiamare il pubblico anche la considerazione che si trattava dell’ultima tournée del gruppo che nei prossimi mesi dovrebbe sciogliersi. Insomma tutto pronto per un grande successo di pubblico… che puntualmente è arrivato.

Guidati dal funambolico sassofonista Shabaka Hutchings, il quartetto (completato dal basso tuba di Theon Cross e ben due batterie nelle mani di Eddie Hick e della giovanissima e bravissima Jas Keyser in sostituzione di Tom Skinner in tour con Thom Yorke) ha sciorinato una musica di grande intensità, basata sul fitto tappeto ritmico intessuto dalle due batterie su cui svolgevano i loro interventi i due fiati. In particolare il sax del leader, spesso effettato con delay o reverberi, non disegnava lunghe linee melodiche ma intonava frasi ritmiche e frammenti melodici ripetuti più volte mentre il basso tuba contribuiva in maniera determinante a completare il tessuto ritmico delle due batterie. Il tutto ‘condito’ da un volume molto, molto elevato a creare una musica che raggiungesse l’obiettivo di portare al massimo l’eccitazione dell’uditorio e di coinvolgerlo in una sorta di rito collettivo in cui i richiami all’Africa erano ben evidenti. Si tenga presente che il concerto si è sviluppato su una linea di continuità ininterrotta tranne due momenti in cui Shabaka Hutchings ha imbracciato un flauto di legno per intonare una splendida melodia di origine africana e il tubista si è espresso in solitudine. Obiettivo raggiunto? Quanto al coinvolgimento direi proprio di sì… anche se non al cento per cento. Nel senso che, ad esempio, il vostro cronista non si è sentito coinvolto dalla musica dei Sons of Kemet. Ed il perché non è difficile da spiegare: avendo avuto la fortuna di ascoltare anche dal vivo alcuni dei più grandi musicisti  – per intenderci quelli che hanno scritto davvero la storia del jazz – non è facile lasciarsi impressionare da qualcuno che pur suonando bene non raggiunge quei vertici cui prima si faceva riferimento. Quanto ai messaggi che questa musica così aggressiva intende veicolare, ci viene in soccorso lo stesso Shabaka Hutchings affermando che “Black to the Future (ultimo album del gruppo) è un poema sonoro di invocazione del potere, del ricordo e della guarigione. Raffigura un movimento, quello della ridefinizione e riaffermazione di cosa significa lottare per il black power”. Ma anche sotto questo aspetto non riusciamo a vedere una grande novità dal momento che il jazz come musica di protesta non è certo cosa di oggi.
Quindi ben vengano gruppi del genere ma se mi si dice che questa è la nuova strada che il jazz si avvia a percorrere devo confessare che il jazz dei prossimi anni non mi avrà tra i suoi massimi sostenitori. Ovviamente la cosa poco importerà ai più ma a mio avviso il ruolo di un cronista-critico non è quello di affermare sempre che tutto va bene, ma anche di esprimere qualche perplessità, sempre motivandole, è ovvio.

Smaltita la sbornia dell’“Afrofuturism” (così viene definita la musica di Sons of Kemet da chi se ne intende), ecco il 27 sempre alla Casa del Jazz, la giovane e brava sassofonista Nubya Garcia, reduce dallo straordinario successo ottenuto dal suo primo album “Source” su etichetta Concord. Bel concerto questo con una musica sì proiettata verso il futuro ma sempre memore di ciò che il jazz ha rappresentato fino ad oggi. Anche la Garcia viene fuori dalla tumultuosa scena londinese di questi ultimi anni affermandosi passo dopo passo come una delle strumentiste più preparate e fantasiose del pur vasto panorama. In effetti Nubya frequenta il sax da tanti anni riuscendo così a raggiungere una tecnica tutt’altro che banale, una tecnica comunque sempre messa al servizio dell’espressività e di una concezione musicale fortemente inclusiva dal momento che nelle sue performances sono ben riscontrabili echi di jazz spirituale, dub, reggae, ritmi latini e suoni africani. Così il concerto si è sviluppato lungo modalità contrassegnate da notevoli assolo non solo della leader ma anche del pianista-tastierista Alastair MacSween mentre la sezione ritmica (Daniel Casimir contrabbasso e Sam Jones batteria) forniva un supporto sempre preciso, puntuale, propositivo. E a proposito di ritmo, da sottolineare la sensualità dei ritmi colombiani rinverdita dalla Nubya nella riproposizione di uno dei brani più riusciti dell’intera serata, “La Cumbia Me Está Llamando”, scritta con il trio colombiano al femminile “La Perla”.

Gerlando & Beny Gatto

I video dei grandi concerti storici di 30 anni di Udin&Jazz dal 21 marzo sul sito web di Euritmica!

La nostra testata lo segue da diversi anni e il nostro direttore lo considera “una delle manifestazioni più interessanti dell’intero panorama jazzistico italiano, per il giusto mix tra musicisti internazionali e italiani con una particolare attenzione verso gli artisti friulani, alla valorizzazione del territorio e dei relativi prodotti”. Stiamo parlando di Udin&Jazz, Festival Internazionale che compie quest’anno trent’anni. E in attesa della trentesima edizione, in programma (virus Covid-19 permettendo) tra giugno e luglio 2020, per ricordare i momenti più emozionanti e i grandi musicisti che nel corso degli anni si sono esibiti sui vari palchi della regione Friuli Venezia Giulia, Euritmica ha deciso di aprire il proprio archivio e di diffondere, a partire dal 21 marzo 2020, i video di alcuni tra i concerti più significativi dei suoi 30 anni di storia (tra questi Abdullah Ibrahim, Michel Petrucciani, Ornette Coleman, John Zorn, Charles Lloyd). Ne saranno felici, come lo siamo noi, i tanti jazzofili, costretti a casa in questo drammatico periodo per le misure atte a contenere la diffusione del corona virus, che potranno così gustare comodamente online alcune autentiche perle inedite di ottimo jazz.

Udine, 26.6.2005 – Abdullah Ibrahim – ph Luca A. d’Agostino

Si inizia il 21 marzo con il primo dei concerti, online dalle 12: Abdullah Ibrahim in Piano Solo, dal Teatro Palamostre di Udine il 26 giugno 2005 (XV edizione)
I concerti saranno visibili a rotazione, con cambio ogni due giorni, all’interno della sezione speciale sulla homepage del sito www.euritmica.it, mentre sulle pagine Facebook di Udin&Jazz ed Euritmica sono già disponibili quotidianamente pillole video di altri concerti jazz, con alcuni spezzoni di significative performance del Festival

Top jazz tra avanguardia e tradizione, grandi nomi internazionali e italiani, e molta attenzione alla valorizzazione dei talenti locali, fanno di Udin&Jazz un unicum culturale che, nel tempo, ha consentito anche la nascita di un vero e proprio movimento jazz in FVG. L’importante rassegna è da sempre organizzata da Euritmica, associazione culturale con sede a Udine che propone e realizza attività culturali e musicali in tutta la regione.

Udine, 27.6.2009, Ornette Coleman – ph Luca A. d’Agostino

Ricordiamo che nel corso di questi 30 anni, Udin&Jazz ha ospitato artisti del calibro di Max Roach, Stan Getz, Jim Hall, Michel Petrucciani, Paul Bley, Pat Metheny, James Brown, Cassandra Wilson, Bill Frisell, Michael Brecker, Bill Evans, Joe Zawinul, McCoy Tyner, Charlie Haden, Ahmad Jamal, B.B. King , Ornette Coleman, Charles Lloyd, Archie Shepp, John Zorn, Dionne Warwick, Paul Simon, Chris Cornell, Stefano Bollani, Paolo Fresu, Vinicio Capossela, Ezio Bosso, Mario Biondi e tanti, tantissimi altri, di alcuni dei quali sarà possibile, in questi tempi di forzato isolamento, gustare i concerti comodamente on line.

Oltre allo storico festival Udin&Jazz, Euritmica ha organizzato negli anni: Incontri Jazz a Gorizia, Jazz Terminal aTrieste, Jazz Time al teatro Verdi di Codroipo, Tra Miti e Sorgenti nella Bassa Friulana, Le vie della Musica, OndeSea, Festival del Cinema Mediterraneo a Grado, Onde Mediterranee (Medaglia d’Argento del Presidente della Repubblica per meriti culturali) e Lettere Mediterranee, ora a Cervignano ma per anni anche a Monfalcone e in diverse altre località, Note Nuove, a Udine e in vari centri della regione e MusiCarnia, a Tolmezzo e in varie località carniche. Euritmica cura inoltre, da quindici anni, la sezione musica della stagione artistica del Teatro Pasolini di Cervignano ed ha anche portato in regione grandi eventi in ambito diverso dal jazz tra Udine, Villa Manin (Codroipo) e Palmanova: Goran Bregovic, i Madredeus, Franco Battiato, Pino Daniele, Bob Dylan, Mark Knopfler, Andrea Bocelli, Paolo Conte, Renzo Arbore e la sua Orchestra…

Udine, 28/06/2004 – John Zorn Electric Masada – Foto Luca d’Agostino

dalla Redazione di A Proposito di Jazz

Crediti fotografici: Luca A. d’Agostino / Phocus Agency

 

B.B. King, la musica non è finita!

bbking_bbking_DSC_3280_16 luglio 2011_crevena_16 luglio 2011_crevena

Io amo il blues e questo leone del Blues lo amavo, come musicista, come interprete, e poi anche perché il blues  B.B. King  lo ha fatto conoscere anche ai bianchi. Perché il timbro della sua voce era  inconfondibile, perché il suono della sua chitarra e il suo fraseggiare erano inconfondibili, perché il suo timing era inconfondibile così come lo erano  la sua verve e la sua ironia dissacratoria. Amavo i duetti con le grandi cantanti come Ruth Brown, che erano spettacolo, ma amavo anche il fatto che, pur se spettacolarizzato e non più “etnomusicologico”,  quello era blues vero, che ti trascinava, ti faceva amare quella musica. Che poi il cotone, da ragazzino, B.B. lo aveva raccolto davvero.
Ho visto B.B.King ad Umbria Jazz, nel 2011.
Certo era già anziano e non proprio in perfetta forma fisica. Ma avreste dovuto vederlo con la sua camicia sgargiante, con il suo sguardo vivo, con il suo fisico imponente.  Anzi guardatelo in queste due foto scattate dalla nostra Daniela Crevena proprio quella sera.

bbking_bbking_DSC_3234_16 luglio 2011_crevena_16 luglio 2011_crevena
Certo, è arrivato sul palco dopo una lunga introduzione della sua Band, per preservare le sue forze il più possibile. E poi una volta sul palco ha gigioneggiato parecchio, cantato il minimo e anche suonato poco . Ma avreste dovuto ascoltarlo… Quando sul palco c’è un tale gigante  quel poco cantare e suonare è già cento volte di più di moltissimi altri: appena la sua voce è risuonata nell’ Arena Santa Giuliana si è materializzato un mito. E così è accaduto appena un suo solo si è librato nell’ aria: ero lì e lo avevo davanti, era lui, era B.B.King.

(altro…)

I nostri CD

(altro…)

STEVE WINWOOD ALL’AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA

Steve Winwood

Steve Winwood

Domenica 3 ottobre

Dopo il tour estivo negli Stati Uniti in compagnia di Carlos Santana, il cantante, compositore e polistrumentista britannico Steve Winwood, uno dei più influenti musicisti inglesi , membro in passato di Spencer Davis Group, Traffic e Blind Faith si esibirà nella Sala Santa Cecilia. Recentemente ha ottenuto insieme a Eric Clapton 2 nomination ai Grammy Award: una come ‘Best Rock Album’ per il ‘Live from Madison Square Garden’ e l’altra come ‘Best Rock Performance By A Duo Or Group With Vocals’  per la canzone ‘Can’t Find My Way Home’. L’ultimo disco intitolato Revolutions – The Very Best Of Steve Winwood”, è una retrospettiva definitiva su cinquanta anni di brillante carriera.

(altro…)