Roberto Masotti ovvero l’arte in un clic

Keith Jarrett in Zurich - 1977 - Photo by Roberto Masotti

Keith Jarrett a Zurigo nel ’77 – Foto di Roberto Masotti – Inedita

Roberto Masotti è uno dei fotografi più importanti nel mondo della musica; artista sensibile, pronto a cogliere l’essenza di ogni scena che intende riprodurre, si è fatto conoscere e apprezzare attraverso una serie di immagini, alcune divenute davvero storiche e utilizzate per libri, riviste, copertine di dischi, soprattutto dalla ECM di Manfred Eicher. Celebri i suoi centoquindici ritratti di musicisti contemporanei raccolti nel lavoro “You Tourned the Tables on Me”, pubblicato nel 1995 ed esposto in numerose città europee. E’ quindi con vero piacere che vi proponiamo questa intervista.

-Direi di iniziare la nostra chiacchierata dall’ultima tua produzione, il bel libro “Keith Jarrett – Un ritratto” (arcana, euro 35.00). Se non sbaglio, si tratta della prima volta che dedichi un intero volume a un artista. Perché proprio Jarrett?
“Grazie dell’apprezzamento. Keith Jarrett è un personaggio che ho seguito molto nei decenni. Non sempre succede di approfondire a tal punto da poter dedicare un intero album fotografico a un artista. Di fatto capita di rado il costruire libri di questo tipo, non solo in Italia, tout court. Ho lavorato molto anche su personaggi come Cage, Battiato, Bennink, Stockhausen, Garbarek, Pärt, Lacy, giusto per citarne alcuni. Ad alcuni di essi, attraverso mostre, ho dedicato un ritratto”.

Cosa ha rappresentato Jarrett nella tua lunga attività di fotografo?
“Essendo stato uno dei primissimi che ho fotografato assieme a Ornette e Mingus ha sempre rappresentato il senso di una scoperta, musicale e fotografica nello stesso tempo. Paradossalmente sapevo cosa andavo ad ascoltare più di cosa e come fotografare. Quei tentativi furono segnati positivamente comunque e da lì iniziò tutto”.

-Devo dire che scorrendo le immagini si ha davvero la sensazione di rivivere l’attività artistica di questo straordinario musicista; è questo l’intento che ti prefiggevi?
“È da diversi anni che avevo la consapevolezza di aver raccolto buoni documenti sulla attività di Jarrett, foto d’azione, molti ritratti, sequenze, dittici e trittici che per la prima volta vengono restituiti per come sono stati concepiti all’origine. La cura e la passione messe nel comporre il quadro, il ritratto, hanno fatto il resto”.

-Qual è stata l’accoglienza della casa editrice quando hai proposto il progetto?
“Arcana e più precisamente Federico Pancaldi e Vincenzo Martorella hanno abbracciato un progetto, sicuramente affascinante ma complesso sotto tutti i punti di vista, con determinazione. C’è il progetto di fare altri album fotografici in associazione con Lelli e Masotti Archivio (che raggruppa le fotografie di Silvia Lelli e le mie). Dopo il mio Jarrett sarà la volta di Stratos e Area che uscirà in autunno come Lelli e Masotti appunto. Non è semplice ma è lecito provare, e convincere che la musica può essere così proposta e che anche la fotografia può essere intrisa di musica”.

-Una curiosità: quanta distanza c’è tra l’artista sul palco, specie negli ultimi tempi sempre più esigente, e l’uomo che hai avuto modo di conoscere in tanti anni di frequentazione, mi pare dal 1969?
“A parte la prima volta nel 1969, dal 1973 in poi Jarrett non è stato più un estraneo per me. Un’artista lontano, mai avvicinato, perso la sul palco. Ho avuto il privilegio con lui di essere sempre a distanza ravvicinata. Le volte che ho agito da lontano, come nel 1985 a Ravenna, la prima volta del trio in Europa, l’ho fatto per scelta, per avere il gruppo in azione secondo una visione normale, dal pubblico degli spalti della Rocca Brancaleone, luogo storico del jazz nella città romagnola in cui sono nato”.

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-Spesso si dice che la fotografia è un elemento oggettivo nel senso che riproduce una determinata scena in un determinato momento; a mio avviso, viceversa non c’è alcunché di più soggettivo rispetto ad una foto dal momento che la stessa dipende moltissimo da chi ha in mano l’apparecchio fotografico: inquadratura, luce, tempo di scatto… e via discorrendo. Qual è la tua opinione al riguardo?
“Luce e tempo sono gli elementi in gioco, la velocità di decisione sull’inquadratura determina la foto che altro non è che la risposta a ciò che stai osservando e ascoltando. Sempre che tu sia lì con intenzioni fotografiche. Una certa oggettività è sempre parte del documento che elabori, una foto “di scena” lo è certo di più di un particolare soggettivamente ritagliato. Essere in sintonia, sul tempo, non è sempre facile ma è la cosa più importante affinché l’immagine possa evocare e trasmettere qualcosa. Se quel qualcosa è riferibile alla personalità dell’artista o anche tua meglio ancora”.

Classica. Henri Dutilleux: Correspondances.  Gli occhi riflessi nella città dorata

classica

In Italia Henri Dutilleux, che nacque nel 1916 ad Angers, non è eseguitissimo né conosciuto dai più. Non troppe, benché molte siano prestigiose, neppure le incisioni delle sue opere. Ascoltai il pianista svizzero Jean-François Antonioli, con cui ebbi il piacere di studiare tanti anni fa, suonare – benissimo – alcuni Preludi: pezzi di grande atmosfera.
Subito dopo la scomparsa, avvenuta nel 2013, il nome di Dutilleux assurse nuovamente agli onori – si fa per dire – della cronaca, non purtroppo per la musica ma a causa di un pasticciaccio degno di quello gaddiano… Nel novembre 2013 mi pare, il sindaco di Parigi decise di negare il permesso alla posa di una targa commemorativa sull’edificio presso il quale il musicista abitò. Ciò in base a un’accusa risibile di collaborazionismo fondata sul fatto che Dutilleux ebbe a scrivere, nel 1942, in pieno regime di Vichy e in un momento di ristrettezze economiche, le musiche di commento per un innocuo documentario sportivo. Unanime fu la sollevazione del mondo culturale (Jack Lang si disse “abasourdi”) di fronte a tale sciocca esibizione di giacobinismo giacché, lungi dall’essere stato nazista, Dutilleux fu al contrario, come molte testimonianze comprovano, uno strenuo oppositore del nocivo morbo germanico. Successivamente il Comune ammise il proprio errore, la targa venne finalmente apposta e noi fingemmo di consolarci per il fatto che non solo in Italia trovansi politici, per così dire, dalla fronte inutilmente spaziosa.

Questo disco pubblicato nel 2013 da Deutsche Grammophon mi ha dato l’occasione di riascoltarlo e sono rimasto, come sempre, incantato.
Musica “piena di grazia”, mossa su fondali marini dai mille colori su cui si dischiudono epifanie di luce e dove, come esotiche farfalle, sventolano le proprie ali colorate miriadi di figure erranti. I colori sono i personaggi principali, quasi con funzione tematica, dei suoi racconti: e una rete di prospettive, intersecata con altre reti, si svolge dal gomitolo della sua immaginazione sotto i nostri occhi con smaliziata naturalezza. In simile reticolo scorgiamo, come riflessa, anche la complessità del tempo che viviamo, le nostre città, anime, vite. Un’arte non astratta, misteriosamente palpitante, con la quale possiamo colloquiare. Dotato di tecnica brillante anche sul versante contrappuntistico (risultò vincitore del Prix de Rome nel 1938), con una predilezione per il calligrafismo, Dutilleux confeziona opere dal gusto quasi orientale che si collocano, esteticamente, quasi tra Ravel e Boulez, pur se da questi diversissimo. Come Ghedini o Busoni, fu un avanguardista isolato, praticante le tecniche più aggiornate (le fasce microtonali, la musica elettronica) ma restio ad aderire ad alcun dogma proprio o altrui. (altro…)