Alba Jazz IX edizione: prima serata

Ha aperto il Festival un bel  tributo a Bill Evans di Roberto Gatto e Dario Deidda con Alessandro Presta e Toti Cannistraro.

4 giugno, Piazza Savona, ore 21:15

Dario Deidda: basso elettrico
Roberto Gatto: batteria
Toti Cannistraro: pianoforte
Alessandro Presti: tromba
Toti Cannistraro ed Alessandro Presti sono i due creatori originari di questo progetto che intende ripercorrere la poetica di Bill Evans, più che i suoi successi in senso stretto. Dunque è l’ atmosfera di quella musica che viene rievocata, e questo riesce in maniera originale e non in maniera didascalica prima di tutto filtrando gli inconfondibili  temi (ed i fraseggi) evansiani attraverso una timbrica diversa, che è quella della tromba, ma anche quella del basso. Il pianoforte di Cannistraro ha principalmente il compito di sottolineare, incorniciare, esaltare tutto quel materiale tematico che passa attraverso la tromba e il basso elettrico: coordina, pianifica, pone i limiti ma anche apre le porte al dialogo tra gli strumenti.  La tromba è quella di Alessandro Presti, un po’ più che una promessa del nuovo Jazz italiano, forte di un  suono brillante e della capacità di estrarre il senso profondo della musica di Bill Evans attraverso dinamiche, accenti, fraseggi “trasposti” in uno strumento “altro” dal pianoforte. Impresa non facile, bisognosa di una profonda conoscenza della materia musicale che si decide di affrontare. Presti oltretutto ha un pregio: suona senza strafare, fa in modo che emerga sempre la ricchezza melodica insita nei brani che affronta pur improvvisando con molta fantasia ed estro. Non vomita migliaia di note che soffocherebbero l’ atmosfera poetica del pezzo, ma rilegge in maniera creativa e cristallina un repertorio che non è solo inteso come insieme di  “brani” ma anche come patrimonio di cellule melodiche, parti di assoli oramai leggendari, riff ritmici che connotano il mondo musicale di Bill Evans.
Questa stessa capacità l’ ha mostrata Dario Deidda con il suo basso elettrico. Rievocare non vuol dire riproporre pedissequamente, ed anche qui il filtro è il timbro di uno strumento altro, un basso elettrico dal suono quasi acustico, nel quale quel “quasi” è un valore aggiunto. Il tema di “You must believe in spring” lo presenta lui, ed è strano che chi ascolta non pensi solo al brano in se (suonato da moltissimi Jazzisti) , ma a Bill Evans che suona quel brano. Eppure è un basso elettrico che lo presenta, eppure poi è una tromba che lo sviluppa, eppure questo è un quartetto e non il trio a cui stai pensando. Deidda si propone non solo come parte fondante della sezione ritmica, ma anche come portatore di quel patrimonio musicale originario espandendolo, contraendolo, cantandolo con dinamiche raffinate e dialogando sempre con gli altri musicisti suoi compagni di viaggio.
La batteria di Roberto Gatto dal canto suo non ripresenta le linee ritmiche originarie, ma ha la capacità di modularsi su questo “nuovo Bill Evans” avendo il gusto del bilanciamento e contemporaneamente il gusto  di proporre un groove fresco che, curiosamente, concorre però a far tornare alla mente non un brano, ma la poetica di Bill Evans.
I tributi possono essere “pericolosi” . O possono essere invece una bella ed ariosa apertura a quattro giorni di musica: “Periscope” è senz’ altro rientrato nella seconda possibilità: gli applausi della piazza ne sono la prova certa.

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Alba Jazz IX edizione – prologo

Come i nostri lettori sanno, noi di “A proposito di Jazz” nutriamo una particolare simpatia per i Festival che vengono concepiti , organizzati e realizzati da associazioni di appassionati che partono, come primo spunto, dall’ ascolto diretto delle novità discografiche e di concerti di tanti artisti durante l’ anno, e che montano il cartellone spinti dalla passione, appunto. Naturalmente quello è solo il primo passo, poiché poi tutto va modulato con la ricerca di sponsor, con l’ esigenza imprescindibile di attirare il pubblico, pena la chiusura del festival stesso, con la disponibilità o meno degli artisti prescelti, con i prezzi di mercato dei gruppi disponibili: magari il prodotto finale non sarà proprio quello rispondente all’ idea originaria, ma quando la passione è tanta ci si avvicina molto. E soprattutto, a festival iniziato, in ogni istante si percepisce l’ energia, la volontà di riuscire, l’ entusiasmo che spesso (non diciamo sempre, ma spesso) difettano in Festival organizzati principalmente per “fare cassetta”.
Alba Jazz (che seguiamo oramai da anni, e che è in continua crescita) è uno di questi Festival. L’ associazione amici di Alba Jazz, che ha in Fabio Barbero in primis, Alberto Ferrero, Rino Schivo, Franco Truscello e in altri appassionati dell’ associazione “Amici di Alba Jazz” i suoi cuori pulsanti, ha ancora una volta portato sul palco ottima musica, organizzando concerti gratuiti in piazza, autofinanziandosi e trovando sponsor tutti privati, coinvolgendo tutta la città in un’ atmosfera innegabilmente festosa e coinvolgente. Ognuno di questi eventi ha riempito le piazze e le strade di musica, la gente ha partecipato applaudendo, ascoltando attentamente e arrivando la sera in Piazza Savona con la voglia di ascoltare ancora Jazz.Tutto il Festival di Alba Jazz è stato dedicato al trombettista Marco Tamburini, scomparso in un tragico incidente stradale nei giorni immediatamente precedenti, e ricordato con dolente affetto da tutti i musicisti che hanno partecipato al Festival… e non solo dai musicisti .  Qui su A Proposito di Jazz vi daremo conto dei quattro eventi principali, ma da subito diciamo che ci sono stati concerti davanti ai locali principali della città, manifestazioni per i bimbi, la marchin’ band che ha attraversato la città da Piazza Duomo a via Savona (che ha ospitato tre dei quattro concerti previsti) , una bella mostra di copertine di vinile d’ epoca nel coro della Maddalena, un concerto dedicato al Blues della Longs Valley Blues Band, un concerto dedicato a Fred Buscaglione degli Astervejas  inserito nell’ evento della CIA (Confederazione Italiana Agricoltori) , eventi che vi documentiamo con queste belle immagini scattate da Daniela Crevena .

 

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Ancora una perdita: Ornette Coleman

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Nell’immaginario di ognuno di noi ci sono artisti, personaggi che consideriamo immortali, al di fuori di qualsivoglia dimensione spazio-temporale. Poi un giorno, magari mentre stai cenando, ti accorgi, per l’ennesima volta, di esserti sbagliato: l’anonima voce di uno speaker televisivo rilancia la notizia della morte di Ornette Coleman; all’inizio speri di non aver capito bene, ti avvicini al televisore, alzi il volume e hai la conferma: anche Ornette ci ha lasciati, andando a suonare in luoghi altri davanti a sterminate platee.
Ecco così ho appreso della dipartita di uno dei più grandi innovatori del XX secolo, un artista che ha dato la stura a quello che può a ben ragione essere considerato il “jazz moderno” ben oltre la non esaustiva etichetta di “free jazz”.
Come altre volte in queste tristi occasioni, piuttosto che tracciare un profilo di Coleman – cosa che in queste ore stanno facendo altri meglio di quanto possa fare io – preferisco lasciarmi prendere dai ricordi e trasmetterveli così come vengono.
Ecco quindi che mi torna in mente la prima volta, parecchi anni fa, che ascoltai Ornette in un concerto: il suono del suo sax mi colpì come un pugno nello stomaco; il suo sound era ben più aspro e tagliente di quanto si potesse apprezzare nei dischi e soprattutto mi stupì la contrapposizione tra quella musica così rivoluzionaria, sotto certi aspetti furente, e l’atteggiamento del musicista sul palco, un uomo che irradiava pace e tranquillità.
Ricordo, altresì, la prima volta che lo ascoltai al violino: all’inizio ne rimasi totalmente straniato e devo confessare che impiegai un po’ di tempo per capire come anche quella fosse una modalità del tutto connaturata all’artista e completamente funzionale a ciò che Ornette voleva esprimere.
E poi l’ascolto dei dischi, tanti e tutti di immenso livello: da “Shape of Jazz to Come” l’album del ‘59 che lo impose alla generale attenzione rappresentando un momento di rottura con il bebop, allo storico “Free Jazz” dei primissimi anni ’60 con Eric Dolphy, Donald Cherry, Freddie Hubbard, Charlie Haden, Ed Blackwell, Billy Higgins e Scott La Faro; da “Chappaqua Suite” con Pharoah Sanders, David Izenzon e Charles Moffett del ’65, al doppio live al “Gorden Circle” di Stoccolma del ’65 con David Izenzon e Charles Moffett che segnò un nuovo inizio nella strepitosa carriera del sassofonista texano; da “Song X” con Pat Metheny, Charlie Haden, Jack DeJohnette e Denardo Coleman del 1985 a “Sound Grammar” con cui nel 2007 ottenne il Pulitzer … tanto per citare qualche titolo.
Insomma una stima verso l’artista che è andata crescendo anno dopo anno e che mi ha portato a non disertare molti dei suoi concerti romani.
Eccoci quindi il 19 luglio 2003 All’Auditorium Parco della Musica, in occasione del Dolce Vita Jazz Festival; Ornette suona con Denardo Coleman batteria e Charnett Moffet contrabbasso ed è un bel sentire. Ornette è in gran forma; il suo sax alterna belle frasi melodiche a lunghi assolo in cui si riascolta la foga dell’innovatore, di colui che seppe abbattere qualsivoglia barriera armonica e ritmica staccandosi completamente da quel songbook americano che aveva costituito il terreno d’ispirazione per molti jazzisti. Dal canto suo la sezione ritmica lo asseconda magnificamente. E così non mancano sprazzi di assoluta improvvisazione in cui Ornette imbraccia prima la tromba e poi il violino. E con quest’ultimo strumento ci regala il brano più lungo e forse più suggestivo dell’intero concerto con Moffett che suona il contrabbasso con l’archetto a disegnare atmosfere di rara intensità. (altro…)