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La morte di Cassius Clay – o se preferite Muhammad Alì – mi ha colto di sorpresa e sconvolto dal più profondo dell’animo. E a questo punto molti di voi si chiederanno: ma che c’entra un pugile, per quanto grande, grandissimo, con la musica?
Forse niente… o forse no: bisogna intendersi sul concetto che ognuno di noi ha di musica, sul significato profondo di questa parola e soprattutto sul dove ritrovarla al di fuori delle sedi deputate.
Cassius Clay è sempre stato uno dei miei atleti preferiti e senza alcun dubbio il pugile che da sempre considero il più grande, il MIGLIORE. Ricordo quando vinse il titolo alle Olimpiadi di Roma nel 1960, ricordo tutti i suoi incontri trasmessi dalla televisione allora in bianco e nero, ricordo perfettamente quando si rifiutò di andare a combattere in Vietnam con la frase divenuta poi simbolica: “Non ho niente contro i Vietcong, loro non mi hanno mai chiamato negro”; ricordo la sua scelta di abbracciare l’Islam e di cambiare il suo nome in Muhammad Alì; ricordo il sempre maggiore coinvolgimento nel sociale e ricordo benissimo tutte le polemiche che fecero seguito a questa scelta del campione e la discriminazione cui fu oggetto da parte probabilmente anche di chi oggi piange la sua scomparsa. E ricordo bene le prime apparizioni pubbliche in cui l’inesorabilità del male che l’aveva assalito si appalesava in tutto la sua drammaticità. Insomma ricordo bene le tappe della vita di questo personaggio che mi ha sempre affascinato e in cui ho sempre visto uno stretto collegamento con la musica, con il jazz.
Innanzitutto quelle diseguaglianze che almeno fino alla fine degli anni 60’ (e probabilmente ancora oggi) colpiscono le popolazioni di colore negli USA, discriminazione che è connaturata al mondo del jazz, per sua natura musica, espressione delle minoranze che ad onta di qualsiasi dichiarazione mai hanno avuto vita facile. Così mentre Clay si batteva con i pugni e con le parole per abbattere le barriere razziali e affermare un ideale di pace universale, il mondo del jazz conosceva la nascita e l’affermazione di quel free-jazz che tanta rilevanza avrebbe assunto non solo dal punto di vista musicale ma anche da quello sociale.
E poi il modo in cui Cassius Clay combatteva; non so quanti, tra coloro che leggeranno queste righe, hanno effettivamente visto qualche incontro del pugile: egli era diverso da tutti gli altri, sul ring non indietreggiava o avanzava come un qualsiasi pugile, ma danzava, si muoveva con una leggerezza straordinaria e non solo per un peso massimo. Era come se nella sua testa ci fosse una sorta di colonna sonora, una coreografia che lui eseguiva alla perfezione: la sua marcia di avvicinamento all’avversario, il suo spostarsi per schivare un colpo e poi rientrare era di per sé uno spettacolo meraviglioso, una sorta di balletto imbastito in un luogo deputato ad altro. Danzava come una farfalla e pungeva come un’ape – così qualcuno ha descritto la sua ‘noble art’ – ed in effetti non è un caso che molte delle sue vittorie siano arrivate al termine di incontri entusiasmanti, combattuti, in cui Clay sempre evidenziava una stupefacente velocità non disgiunta da una certa potenza. Ogni suo incontro era uno spettacolo nell’accezione più completa del termine, uno spettacolo il cui attore principale è ora andato ad esibirsi in altri luoghi, in altri spazi ove le discriminazioni di qualsivoglia natura non hanno diritto di cittadinanza.

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