Intervista a Udin&Jazz con il chitarrista napoletano

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Antonio Onorato è il classico esempio dell’artista che non ha ancora raccolto completamente quanto meritato. Sontuoso chitarrista, compositore ispirato… e persona davvero gentile e garbata, cosa tutt’altro che scontata in questo mondo di matti, Onorato può vantare un curriculum di assoluto livello.
Più di venti album a suo nome e soprattutto la padronanza di uno stile affatto personale in cui gli stilemi jazzistici si fondono con il linguaggio della cultura napoletana, con la musica medio-orientale e brasiliana. Non a caso ha viaggiato molto, in particolare negli Stati Uniti d’America, suonando, tra l’altro, al Blue Note di New York, in Brasile e soprattutto in Africa.
Lo abbiamo intervistato sabato 18 giugno poco prima dell’applaudito e convincente concerto pomeridiano alla Corte di Palazzo Morpurgo nell’ambito del Festival Udin&Jazz 2016 di cui riferiremo nei prossimi giorni.

-So che per settembre è prevista l’uscita di un nuovo disco che hai inciso con Franco Cerri. Ce ne vuoi parlare più nel dettaglio?
“E’ un disco che corona una collaborazione che va avanti da una quindicina d’anni. Lui ha tra l’altro partecipato ad un disco che è uscito una decina d’anni fa, che feci assieme ad altri chitarristi; il disco si chiamava “Four Brothers” ed eravamo tre chitarristi di Napoli – io, Pietro Condorelli e Aldo Farias – con l’aggiunta per l’appunto di Franco Cerri come ospite. Questo era però un disco cumulativo, di più chitarristi; poi la nostra collaborazione è andata avanti con molte serate, tanti concerti e come ti dicevo viene ora coronata da questo album cui ovviamente tengo moltissimo, anche perché è fatto a nome di tutti e due cosa che per me rappresenta un grandissimo onore”.

-Siete in duo o c’è qualcun altro?
“Siamo in quartetto con una formidabile sezione ritmica costituita da Simone Serafini al contrabbasso e Luca Colussi alla batteria”.

-Che tipo di repertorio avete scelto?
“Diciamo che mi sono un po’ più io avvicinato alle cose di Franco, quindi un repertorio molto classico, molto mainstream che va dagli standards che Franco ama suonare di più come “Bye Bye Blues”, “Corcovado” di Jobim fino a quello che per me è il pezzo più riuscito dell’album, una rielaborazione perfettamente arrangiata da Franco di “Munasterio ‘e Santa Chiara”; la maggior parte dei brani sono stati registrati in studio nel settembre del 2015, mentre due sono live, presi da un nostro concerto tenutosi al Teatro Palamostre di Udine il 2 dicembre del 2011”.

-Nell’album non ci sono composizioni originali?
“Sì, c’è un mio brano che si intitola “Neapolitan Minor Blues” che ho riproposto anche con questo quartetto”.

-Come si conciliano due chitarristi solisti quali indubbiamente siete tu e Franco Cerri?
“Siamo abbastanza complementari: abbiamo un modo di suonare molto simile di matrice bop ma la nostra complementarietà sta proprio nel fatto che sono due chitarre jazz marcatamente italiane, hanno cioè questo stile melodico tipicamente italiano, elemento questo che mi ha sempre colpito quando ascoltavo la musica di Franco. Lui è un chitarrista jazz “italiano” “.

-Cosa intendi con il termine chitarrista italiano?
“Noi italiani abbiamo un senso, un gusto per la melodia che altri non hanno, molto più forte rispetto agli americani … e parlo anche di raffinatezza, di eleganza. Insomma credo che queste siano le caratteristiche di Franco Cerri ed è una strada che anche io ho inteso sempre perseguire”.

-Da quanto mi dici mi sorge spontanea un’altra domanda: perché allora molti ti hanno associato a Pat Metheny?
“Indubbiamente Pat è stato uno dei miei idoli giovanili perché innegabilmente è uno dei più grandi chitarristi jazz della nuova generazione ed è un musicista straordinario”.

-Io forse toglierei la parola jazz; diciamo più semplicemente uno dei più grandi chitarristi delle nuove generazioni…
“Come vuoi…parlando di chitarristi jazz americani, Wes Montgomery e Joe Pass restano tra i miei indiscussi punti di riferimento in ambito jazz, ma amo tantissimo Jimi Hendrix a cui ho anche dedicato un brano e ovviamente Toninho Horta, un vero maestro per tutti i chitarristi del mondo, il re dell’armonia – come lo definiva Jobim- con cui ho avuto la gioia immensa di pubblicare un album in duo nel 2014. Certo, non posso negare che Pat mi abbia molto influenzato nel primo periodo di formazione specie dal punto di vista tecnico. Poi con il passare del tempo questa sorta di legame si è sempre più affievolito, mentre il nostro rapporto di amicizia si è consolidato negli anni. Io sono di Napoli, mediterraneo, propendo più per il coté latino, la mia musica ha un cuore latino e se vogliamo un cuore pellerossa perché nelle mie vene scorre anche sangue Lakota. Pat Metheny è invece americano del midwest, le sue origini provengono dal country”.

-Scusa ma questa notizia mi incuriosisce: perché sangue Lakota?
“Ho avuto molto a che fare con i nativi americani ed è sempre successa una cosa strana: quando mi vedono , anche se non ci conosciamo, mi vengono incontro, mi abbracciano e mi chiamano “brother”, fratello. Ora se accade una volta può essere un caso, ma se si ripete più e più volte allora ti fa pensare. E’ una cosa che mi appassiona sin da quando ero piccolo, sono sempre stato interessato a questa cultura”.

-Ma tu non sai se qualcuno dei tuoi antenati è nato in America?
No, ma uno sciamano nativo americano che conobbi tanti anni fa, mi ha dato due ordini di spiegazioni. La prima, di carattere antropologico, è che dopo la cosiddetta scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo, cominciarono una serie di viaggi andata e ritorno da quelle terre per cui è possibile che un “indios” sia stato deportato in Europa come schiavo e che quindi io possa da lui discendere. La seconda spiegazione che mi piace di più è di natura esoterica: i pellerossa sostengono che ogni tanto lo spirito dei Nativi Americani torturati e trucidati dagli europei si incarni in quello dei bianchi col fine di portare una ventata di spiritualità e diffondere una parola di pace nel mondo in diverse modalità. Nel mio caso specifico attraverso la musica Come sai, la visione del mondo dei nativi americani è di unione e non disgregazione come invece è quella della cultura occidentale, in particolare capitalistica. Secondo loro, noi apparteniamo alla terra e siamo un tutt’uno con ogni cosa ed essere vivente. Non esiste per loro il concetto proprietà della terra. Questi spiriti reincarnati li chiamiamo “rainbow warriors”, guerrieri dell’arcobaleno”.

-Che, se non sbaglio è stato anche il nome della nave ammiraglia della flotta di Greenpeace. Ma parliamo d’altro; questa sera tu suoni con Joe Amoruso, compagno di mille avventure…
“Certo, è anche il titolo di un mio album. Amoruso è quasi come se fosse un fratello per me. Io sono più giovane di lui ma ricordo perfettamente che un giorno andai a sentire un concerto di Pino Daniele a Misano Adriatico e suonavano pure Joe, Tullio De Piscopo, Tony Esposito con niente di meno che Gato Barbieri come ospite; io rimasi talmente colpito da Amoruso che mi dissi: “un giorno dovrò suonare con quello lì” e per fortuna la cosa si è avverata. Già all’epoca, Joe riusciva a trarre dalle tastiere un suono che era avanti di venti, trent’anni. Per la verità mi augurai di suonare anche con Tullio e Pino Daniele e anche in questi due casi si è avverato”.

-Ti è mai capitato di suonare con Gato Barbieri?
“Purtroppo no”

-Io sono stato di recente a Napoli e ho trovato una realtà profondamente contraddittoria: da un canto una città vivace, bella, carica di energia…dall’altra questo problema della malavita organizzata che non si riesce a risolvere. Come ti spieghi il fatto che, nonostante queste contingenze, Napoli è una città che riesce sempre a regalare talenti di straordinaria purezza e non solo nella musica?
“Come forse avrai capito io sono una persona che crede molto nell’esoterismo per cui credo che a Napoli ci sia un’energia particolare vuoi perché si trova in un certo punto della terra dove c’è un incrocio di energie vuoi per la presenza del Vesuvio sotto di cui scorre del magma, quindi una potentissima fonte di energia. D’altro canto se si ha riguardo alla storia della città si vedrà come Napoli sia sempre stata un centro dispensatore di energia, di talento. E poi Napoli è stata la capitale di un regno evoluto, al contrario di ciò che dopo l’unità d’’Italia è stato scritto nei libri. Una delle più antiche università del mondo, il teatro lirico più antico d’Europa, la prima linea ferroviaria, la Napoli-Portici e la lista è lunghissima sia in ambito culturale che industriale. Ovviamente anche nella musica. Io sono studioso specialmente della Napoli del ‘700 e conosco bene tutti i musicisti di quel periodo da Pergolesi ad Anfossi, da Cimarosa a Paisiello, ma uno dei miei musicisti preferiti è Mozart e c’è un perché: Mozart soggiornò per ben due volte a Napoli, allora davvero centro importantissimo della cultura internazionale, e nelle lettere che egli scriveva alla moglie , alla cugina, agli amici raccontava una Napoli che non è per niente cambiata, tendenzialmente sporca, con la gente che getta le carte a terra, ma allo stesso tempo ricca di fervore, di idee. Ecco è la città, se vuoi, delle contraddizioni, c’è il minimo ma c’è anche il massimo per cui trovi il più grande delinquente ma anche il più grande letterato e via di questo passo. Ritornando a Mozart, questo grandioso artista mi piace anche perché dopo i periodi trascorsi a Napoli è stato molto influenzato dalla cultura partenopea sia dal punto di vista musicale sia dalla mediterraneità propria del Regno delle Due Sicilie che da quel momento ha improntato in qualche maniera la sua opera: un austriaco che è diventato mediterraneo, dal cuore mediterraneo; se tu ascolti Beethoven si sente che è tedesco, mentre Mozart ha quella leggerezza, eleganza propria della cultura mediterranea. Al riguardo ricordo sempre una frase detta non mi sovviene da chi ‘La musica di Beethoven tende al cielo, quella di Mozart viene dal cielo’”.

-E dato che hai parlato di composizione, come vivi il tuo processo compositivo?
“Con grande dedizione e con un senso di profonda gratitudine per avere sempre qualcosa da poter scrivere, da poter trasmettere. L’ispirazione è un dono fantastico, qualcosa di inafferrabile, di misterioso: per essere ispirato bisogna però anche porsi nella vita in un certo modo, bisogna seguire un certo percorso e quindi io sono molto attento a queste cose, cerco di seguire una strada di dedizione mettendo il cuore nelle cose che faccio nel più profondo rispetto per il prossimo, per il creato. E’ tutto correlato, i nativi americani dicevano “mitakuye oyasin”, siamo uno : se si vive in armonia con ciò che ci circonda, arriverà l’ispirazione e questa può arrivare in qualsiasi momento tanto è vero che io cammino sempre con qualcosa con cui posso annotare le idee che eventualmente mi vengono, un piccolo registratorino o un blocchetto con i fogli pentagrammati che mi ha regalato proprio Franco Cerri”.

-Qual è la tua preparazione musicale?
“Sostanzialmente da autodidatta: suono la chitarra da quando avevo sei anni e ho cominciato seguendo un mio grande impulso; ho studiato un po’ anche il pianoforte e poi ho conseguito la licenza di solfeggio a 15,16 anni ma non ho proseguito con gli studi canonici, al Conservatorio, ma li ho proseguiti per conto mio . Così ho seguito tanti seminari di specializzazione con artisti del calibro di Eddy Palermo che considero uno dei più grandi chitarristi jazz del mondo purtroppo non ancora considerato come dovrebbe, John Scofield, Jim Hall, Pat Metheny, John Abercrombie, Mick Goodrick”.

-Tra le tante esperienze artistiche e umane che hai vissuto, ce n’è una che ti è rimasta particolarmente impressa?
Sì; nel ’97 Pino Daniele, a cui ero legato da un rapporto di profonda ammirazione e affetto, mi invitò ad aprire i suoi concerti nel corso di una tournée in pompa magna che lui faceva negli stadi quindi dinnanzi a 40, 50 mila persone. Ogni volta che salivo sul palco con il mio gruppo per me era una sorta di choc anche perché suonavo pezzi miei, non covers. Comunque tutto andò benissimo ed ovviamente per me fu una grande esposizione mediatica. Una volta eravamo in un hotel di Pescara, io e Pino, e stavamo chiacchierando nella reception; ad un certo punto entrarono delle persone che riconobbero immediatamente Pino e gli si avvicinarono per chiedergli un autografo e lui rispose: ‘Sì, ve lo faccio a patto che ve lo faccia anche questo signore qui. Sapete chi è questo signore? E’ Antonio Onorato, un grande chitarrista’. Ecco, questo era Pino Daniele”. Dopo esattamente 15 anni mi ha invitato di nuovo, ma questa volta come ospite in alcuni suoi concerti”.

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