Mehldau, Bach, Mehldau all’Auditorium Parco della Musica

Auditorium Parco della Musica, Jazz Love 

Sabato 17 febbraio, ore 21 Sala Sinopoli
Brad Mehldau, Three pieces after Bach

Brad Mehldau, pianoforte

 

 

Brad Mehldau suona Bach e suona se stesso: andando ad ascoltare un concerto del genere, se si fa questo bellissimo mestiere di scrivere di musica, ci si chiede quanto si ascolterà di Bach e quanto di Mehldau. Poi ci si chiede, una volta scritto un articolo, quanto i puristi di Bach troverebbero di Bach, quanto si indignerebbero nel caso non ci fosse tutto quel Bach che si aspettano. Poi quanto i puristi di Jazz troverebbero di Mehldau, quanto si indignerebbero nel caso non ci fosse tutto quel Mehldau che si aspettano.
Poi si spengono le luci, e si comincia ad ascoltare.
Bach viene affrontato da Mehldau in vari modi. Intrecciato a trame nuove quasi da subito, come accade nel Preludio n° 3 in Do# minore BWV 848, con quella sesta che da maggiore diventa minore, con il contare in uno più che in 3, tanto che il preludio sembra diventare una danza.
Oppure decide di eseguire Bach nella sua interezza, per poi accostarvi Mehldau: così accade ad esempio con il Preludio n° 1 in Do maggiore BVW 870, del quale da subito enfatizza l’incipit: che gli ricorda You must believe in spring .Quando Mehldau passa a Mehldau quell’incipit diventa citazione precisa e persino struggente.
Nella Fuga n° 16 in Sol minore BWV 885 Mehldau è improntato su una indiscutibile perfezione formale, nonostante non prevalga l’aspetto “matematico”, se così lo possiamo definire: ha di per sé, come caratteristica, un pianismo in cui mano sinistra e mano destra sono intercambiabili. In certi momenti è come se suonasse due pianoforti che dialogano tra loro: Bach gli è innegabilmente congeniale.
Ma il Bach di Mehldau è più soffuso, meno marziale di quanto noi ci potremmo aspettare. Viene enfatizzato non tanto il rincorrersi delle voci contrappuntistiche ma le singole parti tematiche di quelle voci stesse, che vengono estrapolate per poi farle tornare nelle composizioni originali che seguono. E così, ad esempio, in questa Fuga in sol minore una nota della mano sinistra diventa l’ostinato, la nota ribattuta del brano che la segue: che si intensifica e si rarefa in mezzo ad accordi dissonanti.
I brani originali sono, sembrerebbe, per la quasi totalità, scritti. Costruiti non sprecando alcun tema, estraendone l’essenza nel caso sia proveniente da Bach, e trasportandola nella nuova partitura. Il fraseggio, anche se ad un ascolto non attento non sembrerebbe, è contrappuntistico. Ogni tema viene espanso, ristretto, ampliato con inserti nuovi, subisce variazioni dinamiche, timbriche, in un un contesto armonico totalmente diverso. Nuovi temi fatti di un tessuto preesistente si avvicendano in un percorso per nulla casuale. Eppure del tutto inaspettato.
Persino l’ostinato nel brano che segue la  fuga in Sol Minore 885, quella nota ribattuta è così mutevole che non sembra nemmeno più un ostinato, e rimane nella mente anche nei pochi istanti in cui viene sospeso.
Il tema della fuga ritorna, riemerge, si inabissa tra altri, e infine torna, ma alla mano sinistra, mentre la destra, in un finale cupo, pastoso, malinconico ribatte quella nota che per Mehldau era l’inizio di tutto.
L’inizio di tutto sono i cromatismi del Preludio n° 6 in Re minore BWV 851, che diventano una parte importante della composizione che segue: ma lo è anche il dinamismo insito in quel preludio, che Mehldau decide di trasporre in tutt’altro ambito armonico, e di isolare tra brevissimi ma efficaci silenzi sospesi, che lo incorniciano, e ne sottolineano l’intenzione.
Di certo c’è una ricerca profonda da parte di Brad Mehldau di ciò che di Bach egli sente più vicino, ma anche di ciò che accomuna due epoche così lontane. E una volta trovato quel filo rosso, quel filo disegna nuove trame plausibili e possibili.

Tre bis hanno riportato Mehldau al suo mondo usuale. Lo swing, una appassionata When I Fall in Love. Non più Bach. Non così distante da Bach, per pienezza sonora, per quella intercambiabilità delle mani nel percorrere il brano. Tre bis, generosamente concessi ad una platea entusiasta e coinvolta.

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 L’impatto su chi vi scrive. Il parere personale di chi vi scrive.

Ho sempre avuto un’ attrazione verso le terre di confine, che vivono della ricchezza  tra zone diverse, che esse siano geografiche, o che siano terre metaforiche. Da questo per me intrigante limbo tra due mondi musicali diversi, nella mia personale percezione di un concerto che ho trovato bellissimo, è scaturita musica nuova, e per questo affascinante.
Bach, sotto le mani di Brad Mehldau, se dovessi cercare un modo di definirlo, diventa impressionista. Il rigore formale esiste: Mehldau lo sa suonare Bach. Il rincorrersi contrappuntistico delle voci è chiaro e presente. Ma sceglie, come accennato, di dare pennellate espressive che tendono più che a svelare chiaramente l’intreccio dei temi tra loro, ad enfatizzare alcuni di questi temi, che essi siano ritmici (vedi l’ostinato nel caso della fuga in sol minore) o melodici (vedi il tema che richiamava You must believe in spring, nel preludio 1 in Do Maggiore, o i cromatismi nel caso del preludio 6 in Re minore). Chi ascolta viene come preparato al brano originale che ne scaturirà.
E’ un Bach diverso da ogni altro. Brad Mehldau non ha come priorità la fedeltà matematica alla partitura originale, ma espressivamente la tramuta in un brano più indefinito, impalpabile, proiettato verso la scomposizione del materiale sonoro in qualcosa di altro. E’ tutt’altro che “contaminazione”. E’ creare un punto o più punti di contatto.
Allo stesso modo, i brani originali sono Jazz, ma fino ad un certo punto. E’ musica scritta, per lo più, almeno così sembrerebbe, sulla quale probabilmente ci sono varianti – dovrei seguire il concerto avendone le parti per capire – ma è scritta. In fondo Mehldau compie, specularmente, l’operazione opposta che ha compiuto interpretando Bach: limita la libertà improvvisativa del Jazz, suonando brani definiti in partenza. Fissa il suo estro creativo nelle partiture. Crea dunque un rigore formale e mette dei paletti a se stesso come jazzista.
In questo ho trovato la bellezza del progetto. Il mischiare le carte. Il rendere così fluidi e potenzialmente opposti due generi così apparentemente distanti. Di certo chi vuole ascoltare Bach come scritto da Bach non sarà forse, dico forse, soddisfatto da Mehldau. Chi vorrà ascoltare Mehldau  di Paranoid Android o Que Sera non sarà forse, dico forse, soddisfatto da questo Mehldau.
Chi invece vuole ascoltare senza confini musica di confine troverà come me, questo concerto incredibilmente coinvolgente.
Ricostruire quali brani di Bach abbia suonato Mehldau non è stato semplice: mi prendo un margine di errore dato dall’averne scritto a casa nei giorni seguenti.

Michele Francesconi presenta in prima assoluta il progetto Seasons, in piano trio, allo Zingarò Jazz Club di Faenza

La stagione dello Zingarò Jazz Club di Faenza prosegue, mercoledì 7 marzo 2018, con la prima assoluta di Seasons, il nuovo progetto in trio di Michele Francesconi costituito dalle suites per piano trio commissionate per l’occasione a Luca Dell’Anna, Marco Ponchiroli e Stefano Travaglini. Con il pianista saranno sul palco Giulio Corini al contrabbasso e Luca Colussi alla batteria. Nella seconda parte del concerto, inoltre, si unirà al trio la cantante Laura Avanzolini. La serata è ad ingresso libero con inizio alle 22.

Michele Francesconi esplora il tema delle Stagioni attraverso le composizioni commissionate appositamente a tre colleghi pianisti – Luca Dell’Anna, Marco Ponchiroli e Stefano Travaglini. I compositori scelti da Francesconi hanno dimostrato nel loro percorso di essere attenti al senso narrativo della musica e alle connessioni del jazz con altri linguaggi espressivi. La scelta del piano trio – tanto esigente ed essenziale – rimette al centro l’idea di racconto in musica: i brani acquistano così una forza evocativa ancora maggiore nella dimensione scarna e compatta del trio, grazie alla connotazione precisa del suono del gruppo.

Seasons rappresenta il terzo progetto in cui Francesconi si dedica a musiche originali e propone il suo ritorno alla formula del piano trio e, in generale, alla musica strumentale, dopo diversi progetti che avevano messo al centro la voce come Twice con Massimiliano Coclite e Skylark e Songs con Laura Avanzolini.

Il tema delle stagioni è la chiave per leggere gli stati d’animo e le sensazioni della vita umana. Un ciclo che si ripete in maniera ogni volta diversa, un modo per scomporre il tempo e trovare punti di riferimento: ogni passaggio ha una prospettiva simile ma intimamente differente, mai del tutto uguale al precedente e al successivo. Seasons si ispira così ai temi legati alla natura, ai colori e ai cicli vitali e, in senso lato, ai passaggi dell’esistenza umana e dell’esperienza di vita che compie ciascuno di noi, dall’infanzia alla vecchiaia, passaggi fondamentali proprio perché irripetibili.

Al progetto musicale si affianca, inoltre, anche un ulteriore tassello: vale a dire un saggio che il filosofo Massimo Donà ha scritto sul tema delle stagioni (è possibile leggere il testo al seguente link).

Mercoledì 14 marzo 2018, il palco dello Zingarò Jazz Club ospita il jazz manouche del trio Quai Des Brumes, formato da Federico Benedetti al clarinetto, Tolga During alla chitarra e
Roberto Bartoli al contrabbasso.

Lo Zingarò Jazz Club è a Faenza in Via Campidori, 11.

NEW ALBUM :”OLD STUFF, NEW BOX” l’ultima uscita discografica di Marco Postacchini

Le Edizioni Musicali Notami hanno il piacere di annunciare l’ultima uscita discografica dell’etichetta Notami Jazz già disponibile on line e distribuito da IRD il nuovo attesissimo lavoro discografico di Marco Postacchini dal titolo”OLD STUFF, NEW BOX”.
Postacchini firma 5 dei 10 brani dell’album, tra cui la title track, posta in apertura come una dichiarazione d’intenti e, allo stesso tempo, un omaggio al celebre disco di Gil Evans del 1958, New bottle, old wine.
Il disco rivela da subito la sua anima composita, fatta di ritmi sudamericani e guizzi energici, evidenti in Not for lovers e Now’s the time to run, ma anche di complessità armoniche e alternarsi di sezioni contrastanti, come in Eterno puzzle e Illogical moon. A questo si aggiungono gli arrangiamenti su due brani di Zeppetella, Allegro e Reunion, e due di Ada Montellanico, Da quando e Ti sognerò comunque. Quest’ultimo, in particolare, con un testo scritto da Luigi Tenco, rimasto inedito fino al 2008, quando Ada Montellanico l’aveva messo in musica nel suo album “Suono di donna”.
Il lavoro di arrangiamento più articolato è stato fatto nella traccia scelta come epilogo, che riprende un celebre brano pop sanremese, apparentemente lontano dal sound jazz, Di sole e d’azzurro scritto da Matteo Saggese e Mino Vergnaghi e interpretato da Giorgia.
In “Old stuff, new box”, vengono sfruttate fino all’estremo le possibilità dell’ottetto, formato da Simone La Maida, Massimo Morganti, Davide Ghidoni, Samuele Garofoli, Alessandro Paternesi, Emanuele Evangelista e Gabriele Pesaresi. Postacchini, infatti, esplora con i musicisti la grande tradizione della scrittura per piccolo gruppo, che sin dalle origini ha fatto da anticamera di una scrittura più complessa, come quella utilizzata per la formazione ampia della big band. Ogni strumento, quindi, diventa una particella elementare da cui scaturisce un linguaggio ricco e compatto. Postacchini sposta il jazz dalle sue definizioni consuete, rivisitando in modo inaspettato il sound dei compositori dell’ultima generazione.

La promo : https://youtu.be/N5nAzLrE3PU

Video – Maurizio Machella
www.edizioninotami.it
www.marcopostacchini.it
jazz@edizioninotami.it

(C.S)L'immagine può contenere: spazio all'aperto

“Les Troyens” di Hector Berlioz: l’anima virgiliana in musica

Dopo il sonoro fiasco della sua opera Benvenuto Cellini, del 1838, Hector Berlioz fece a se stesso una promessa solenne: mai più opera. Ma tale espressione artistica, per le sue caratteristiche intrinseche, era fatta apposta per veicolarne l’arte visionaria. E così arrivò in porto un progetto quasi più ambizioso del precedente: ‘Les Troyens’. Composta fra il 1856 ed il 1858, ispirata all’Eneide di Virgilio, quest’opera incontrò grandi difficoltà ad essere messa in scena. Forse addirittura uniche. Problema primario, anzi tutto, la lunghezza: quattro ore buone, quasi cinque. Si era in epoca wagneriana, non era così insolito, tuttavia l’epopea del pio Enea in musica dovette essere scissa in due opere distinte, La Prise de Troie e la più ampia Les Troyens à Carthage. Procedura, curioso notarlo, oggi non insolita nel cinema (“Kill Bill” di Quentin Tarantino, “Novecento” di Bertolucci), forma d’arte che, non a caso, discende più direttamente di altre dal melodramma ottocentesco e ne esorcizza l’eredità. Disgraziatamente Berlioz poté assistere in vita solo all’ultima sezione, rappresentata al Théâtre Lyrique di Parigi il 4 novembre 1863.

La prima parte venne invece eseguita in forma di concerto nel 1879. Le due metà, finalmente riunite in un’unica creatura, furono rappresentate per la prima volta – quasi parto distòcico – a Karlsruhe il 6 e 7 dicembre 1890, sotto la direzione di André Messager, compositore e direttore grande amico di Faurè. La prima vera esecuzione integrale in una sola serata, però, non ebbe luogo che nel 1957 al Covent Garden. Un ulteriore ostacolo alla rappresentazione dell’opera completa fu ed è tuttora il costo alto di un allestimento che richiede grandi masse orchestrali (sei arpe…) e corali.

Per citare un esempio ‘ex pluribus’, oltre all’imponente coro che agisce sul palcoscenico, è previsto l’intervento di un coro fuori scena ma soltanto per due brevi interventi, collocati al primo e ultimo atto: quindi ad alcune ore di distanza l’uno dall’altro! Per tacere poi della modernità del linguaggio, che alla prima rappresentazione destò sgomento tra le compagini, chiamate a un difficilissimo quanto irrituale compito. Ma com’è, ad ascoltarla oggi, ‘Les Troyens’? Senza esitazione: stupenda, avvincente e piena di senso del bello. Essa rappresenta una terza via, alternativa sia al wagnerismo (cui è in qualche modo imparentata più fraternamente) che all’opera italiana a forme chiuse. Come Dallapiccola escogitò una via italiana alla dodecafonia, potremmo dire che Berlioz seppe trovare, ante litteram, una via ‘francese’, o ‘latina’ a Wagner il cui lascito, imprescindibile, è espressione eminentemente teutonica. Se nei ‘Troiani’ quindi cerchi la grande melodia belliniana o verdiana non la troverai; ma ciò che che accade in orchestra, nelle variopinte correnti ascensionali del coro così come nel sofferto ed eroico vaticinare dei solisti che si agitano in una natura vivente, tutta questa energia vitale, questa “shakti”, esprimono gioia impareggiabile come di fronte alla scoperta di un nuovo mondo, poiché di questo si tratta. Berlioz viene considerato uno sperimentatore e lo fu, certamente, ma nelle sue creazioni il progetto compositivo comprende quello costruttivo. Nulla vi è di arbitrario nelle soluzioni linguistiche adottate; vi confluiscono, per contro, energie eterogenee plausibilizzate da un’ispirazione sicura, che ingloba il passato comprendendo il presente. Grande avvocato di quest’opera nei tempi moderni fu, come è noto, Colin Davis, che la incise per Decca subito dopo la rappresentazione londinese summenzionata. Successivamente, la registrò, pure brillantemente, Charles Dutoit. Ritengo però che questa nuova realizzazione Erato superi le pur pregevoli sopra citate ponendosi come edizione di riferimento, quantomeno mio personale. Ognuno merita di essere citato poiché tutti eclatanti: Joyce DiDonato, Michael Spyres, Marie-Nicole Lemieux, Stéphane Degout, Nicolas Courjal, Marianne Crebassa, Hanna Hipp, Cyrille Dubois, Stanislas de Barbeyrac, Philippe Sly, Choeur de l’Opéra du Rhin, Badischer Staatsopernchor, Choeur philharmonique de Strasbourg, Orchestre philharmonique de Strasbourg. Il cofanetto di quattro CD comprende anche un DVD extra con estratti da ognuno dei cinque atti. Esso rende possibile ammirare, attraverso una rappresentazione in forma di concerto, il vero eroe dell’impresa, il direttore John Nelson: preciso, ispirato, esattissimo, e pure simpatico. Registrazione accurata sul piano della chiarezza come del calore, e voci ben integrate nel panorama sonoro dell’orchestra. Menzione speciale all’emozionante Cassandra di Marie-Nicole Lemieux, che si ammira anche nel DVD e purtroppo sparisce dopo il primo atto

 

 

 

 

 

Accordi Disaccordi al Teatro Massimo di Pescara

Venerdì 2 marzo, il trio Accordi Disaccordi si esibirà al Teatro Massimo di Pescara nell’ambito della 52sima Stagione Musicale della Società del Teatro e della Musica “Luigi Barbara”.

Il concerto avrà inizio alle ore 21. Il biglietto di ingresso costa 20€ (ridotto a 15€ per i soci della Società del Teatro e della Musica “Luigi Barbara”) e si può acquistare sui circuiti online e a Pescara, presso la sede di Via Liguria.

Il concerto è realizzato nell’ambito del Progetto Circolazione Musicale in Italia del CIDIM – Comitato Nazionale Italiano Musica.

Accordi Disaccordi è un progetto italiano – nato nel 2012 – molto attivo nel panorama swing nazionale ed internazionale. Il suo genere si orienta su un repertorio gipsy jazz, riproponendo in chiave moderna i classici della migliore musica jazz e manouche degli anni 30. Allo stesso modo vengono scritti numerosi inediti e riarrangiamenti di alcuni brani più moderni, anche pop e non propriamente jazz, secondo una personalissima interpretazione che la band stessa ama definire “hot Italian swing”, con una continua ispirazione allo stile del celebre chitarrista Django Reinhardt. Il trio ha all’attivo due album, “Bouncing Vibes” del 2013 e “Swing Avenue” del 2015 nei quali si trova il miglior resoconto del loro repertorio e della loro inedita produzione. Il primo è interamente suonato in trio, mentre il secondo vede la presenza, in alcuni brani, anche di un violoncello, di un sassofono e di un clarinetto. In concerti live vantano diverse collaborazioni con artisti del calibro di Florin Niculescu, Gonzalo Bergara, Adrien Moignard, Jérémie Arranger, Matt Holborn e numerosi altri. A metà̀ 2016 hanno prodotto un nuovo CD dal titolo “Live Tracks”: una raccolta di alcune registrazioni live in studio, con numerosi e importanti ospiti, a testimonianza della spiccata anima sperimentale del trio. In soli quattro anni hanno suonato in più̀ di 400 concerti, compresa la partecipazione alle ultime quattro edizioni di Umbria Jazz Festival e Torino Jazz Festival, a due edizioni del Festival Django Reinhardt di Samois-sur-Seine, al Pennabilli Django Festival 2015, al Bentivoglio Manouche Festival 2016 di Bologna e al Festival Jazz di Mosca nel 2014 e 2015. In Russia hanno suonato in oltre 70 diverse città̀ e location, durante quattro differenti tour. A novembre 2016 son stati ospiti dell’Antibes Jazz Festival – Jammin’ Juan in rappresentanza dell’Umbria Jazz Festival e della IJFO, come una delle più̀ promettenti giovani promesse europee. Nei prossimi mesi è prevista l’uscita del quarto album di soli brani originali eseguiti dal vivo. In questi quattro anni hanno riscosso un incredibile successo di vendite, con tutti e tre i CD giunti alla seconda ristampa, e ricevuto ottimi riscontri da parte della critica e dagli addetti ai lavori, che non hanno mancato di indicarli come giovane promessa dello swing italiano ed europeo.

Nasce la Federazione Nazionale “Il Jazz Italiano”

 

I-Jazz (l’associazione dei festival italiani di jazz dal 2008, presidente Gianni Pini), MIdJ (associazione dei Musicisti Italiani di jazz dal 2004, presidente Ada Montellanico), Italy Jazz Network (associazione agenzie e management italiane afferenti alla musica afro-americana, presidente Vittorio Albani) e le neonate ADEIDJ (Associazione delle Etichette Indipendenti di Jazz, presidente Marco Valente) e Italia Jazz Club (associazione dei club, presidente Giovanni Serrazanetti): sono queste le cinque associazioni di settore che oggi, in tarda mattinata (mercoledì 21 febbraio) hanno dato vita, presso il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo a Roma, alla Federazione Nazionale ‘IJI – Il Jazz Italiano’  presieduta da Paolo Fresu, firmando contemporaneamente un protocollo d’intesa con il ministero.

Le motivazioni che hanno portato a questo atto sono da condividere appieno, salve le inevitabili perplessità quando entrano in gioco le pubbliche autorità e si sottoscrive un’intesa a pochi giorni dalle prossime elezioni. E se il futuro ministro dei Beni Culturali non sarà, come probabile, Franceschini? Se il nuovo titolare non la penserà come lui, questi patti che fine faranno? E come risolvere il problema dei rapporti tra poteri centrali e poteri locali non sempre idilliaci (Roma docet)?

Comunque, in attesa di vedere cosa ci riserva il futuro, resta il fatto che quella di oggi, come sottolineato da quasi tutti i su citati presidenti, può considerarsi una data storica per il jazz italiano dal momento che almeno si sono poste le basi per una cooperazione che se ben realizzata non potrà che portare frutti generosi.

In effetti in un’epoca di individualismi e di una difficoltà sempre più forte nella condivisione e nella comprensione di tutto ciò che ci sta intorno, il jazz italiano ha dimostrato che per il raggiungimento di un lavoro di qualità è indispensabile fare squadra, unire capacità e forze. Di qui la nascita della Federazione che non ha scopo di lucro e persegue il riconoscimento e la tutela dei valori e degli interessi culturali, sociali e imprenditoriali del sistema del jazz italiano favorendo la creazione di reti virtuose e incentivando il dialogo e la collaborazione tra tutti i soggetti.

IJI nasce – si legge nel comunicato ufficiale –  come riferimento nazionale con l’intento “di unire e rappresentare le associazioni di categoria più importanti e rappresentative del mondo del jazz italiano per sostenere progetti che tendano alla valorizzazione e allo sviluppo dell’attività artistica italiana con particolare riferimento al jazz e alle musiche attuali e che abbiano come nucleo la ricerca e la sperimentazione”.

In tale contesto si inserisce la firma del protocollo d’intesa con il MiBACT, avvenuta ad opera del Ministro Dario Franceschini , del neo presidente IJI, Paolo Fresu e dei su citati presidenti delle associazioni coinvolte.

Obiettivo esplicito delle parti è impegnarsi reciprocamente “nel perseguire obiettivi strutturali che vadano a implementare la conoscenza della cultura jazzistica – riconosciuta quale patrimonio comune e momento di crescita del pubblico e dei musicisti – e ne promuovano lo sviluppo e la crescita costante”.

Come? Attraverso un coinvolgimento delle amministrazioni e delle realtà locali, delle scuole, l’apertura di un dialogo con il settore turistico e   un maggior interesse verso le nuove generazioni e le zone periferiche e dimenticate nonché attraverso l’istituzione di una giornata nazionale del Jazz Italiano che ricalchi le orme del successo dell’Aquila, riunendo tutta la “popolazione” del jazz nazionale per l’organizzazione di un evento annuale unico. Fondamentale appare poi continuare l’importante lavoro sulle residenze d’artista, portato avanti in primo luogo da MIdJ insieme alla SIAE, sia all’estero che in Italia, nell’ottica di favorire l’incontro con esperienze e conoscenze di artisti di altri paesi e lavorare insieme per garantire una maggiore visibilità, anche a livello mediatico, alla musica jazz.