SaxArts Festival 2018: Pablo Ziegler protagonista della prima parte della rassegna

Il SaxArts Festival apre l’edizione 2018 con una anteprima prestigiosa di livello internazionale. Sarà infatti il grande pianista argentino Pablo Ziegler, recente vincitopre del Grammy Award per il Best Latin Jazz Album, il protagonista degli appuntamenti in programma nel mese di giugno con la rassegna diretta da Marco Albonetti e giunta alla ventesima edizione.

Compositore, pianista e arrangiatore, Pablo Ziegler attualmente è considerato il principale esponente del Nuevo Tango. È stato il pianista di Astor Piazzolla nel suo celebre Quintetto, a partire dal 1978. Ha fondato il New Tango Quartet nel 1990 e, tra le sue prestigiose collaborazioni, figurano nomi del calibro di Gary Burton, Regina Carter, Branford Marsalis, Milva, Placido Domingo, Paquito D’Rivera, Joe Lovano, David Sánchez, Miguel Zenón e organici importanti quali la Metropole Orkest, la Sydney Symphony Orchestra, l’Orpheus Chamber Orchestra. Ha composto per numerosi spettacoli teatrali, cinematografici e televisivi.

Il suo recente lavoro in trio, Jazz Tango, ha vinto il Grammy Award come Best Latin Jazz Album. Il pianista aveva già ricevuto diverse nominations per i Latin Grammy ed aveva vinto, nel 2005, con Bajo Cero nella categoria Best Tango Album. Tra i numerosissimi premi e riconoscimenti ricevuti nel corso della sua carriera, Ziegler è stato nominato miglior compositore dalla Theatre Critics Association per il suo album “Traición” e vincitore dell’Echo Klassik Award per il suo lavoro insieme al basso-baritono uruguaiano Erwin Schrott.

Si comincia domenica 10 giugno, al Palazzo Fantini di Tredozio, con Jazz Tango, un incontro tra musica e parole in cui Pablo Ziegler racconterà la sua carriera artistica, parlando di Astor Piazzolla e dell’Argentina, del tango e dei suoi incontri con il jazz, dei riconoscimenti internazionali e del suo rapporto con la voce del sassofono. Nel corso della serata, condotta da Fabio Ciminiera, il pianista interpreterà alcuni suoi brani originali e temi tratti dal repertorio di Astor Piazzolla, Alejandro Dolina e Juan Carlos Cobian, presenterà il suo recente disco “Solo” e duetterà con Marco Albonetti. Al termine della serata, inoltre, Ziegler riceverà anche il Premio alla Carriera “SaxArts Festival 2018”.

Giovedì 14 e venerdì 15 giugno, in doppia replica al Ridotto del Teatro Masini di Faenza, si terrà il concerto Pablo Ziegler meets Marco Albonetti Trio, formazione composta dallo stesso Albonetti al sax soprano, al sax contralto e al sax baritono, da Aya Shimura al violoncello e da Virgilio Monti al contrabbasso. Un nuovo progetto tutto dedicato al Nuevo Tango. La scaletta della serata prevede ovviamente brani di Piazzolla e dello stesso Ziegler, che ha curato gli arrangiamenti di questo progetto. Rivive così il tango nato nei bassifondi e poi elevato a musica d’identità nazionale, con le suadenti melodie e le improvvisazioni. Queste si liberano dalla forma e la plasmano disegnando nuovi scenari vibranti di suggestioni, sinestesie ed emozioni. Il biglietto di ingresso ai singoli concerti costa 10€.

A luglio poi, il SaxArts Festival torna con tre appuntamenti in programma a Faenza, Russi e Tredozio, nei luoghi in cui la rassegna è ormai di casa, per tre appuntamenti che coinvolgono i talenti emergenti della scena sassofonistica italiana ed internazionale, selezionati come di consueto dall’occhio esperto del direttore artistico Marco Albonetti. Anche quest’anno, il festival ospita una figura di spicco del panorama internazionale con il gradito ritorno di Russ Peterson. Il sassofonista statunitense sarà presente nella rassegna, infatti, dal 19 al 21 luglio e si esibirà con i diversi gruppi formati dai giovani musicisti e con lo stesso Albonetti. Sui palchi del SaxArts Festival, Peterson potrà condividere la sua grande esperienza musicale con la simpatia, la verve e la maestria che lo contraddistinguono.

Il SaxArts Festival viene organizzato con il contributo del Comune di Tredozio, del Comune di Faenza, del Comune di Russi, di Romagna Acque, di Confcooperative e dell’Unione della Romagna Faentina e con il supporto materiale ed umano delle famiglie ospitanti che accolgono i ragazzi convenuti a Faenza per la rassegna.

EDE: Zanisi – Gallo – Baron alla Rassegna Da Maggio a Maggio

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La foto è di Marc Maggio

Rassegna “Da Maggio a Maggio
Sabato 26 maggio ore 20:30
Laboratorio Pianoforti Marc Maggio

EDE
Enrico Zanisi, pianoforte e synth modulare
Danilo Gallo, basso elettrico
Ermanno Baron, batteria

Comincio con il dire che qui a Roma ci sono tanti posti dove ascoltare musica. Auditorium, teatri, club più o meno piccoli, bar, spazi all’aria aperta che ora a primavera cominciano ad animarsi, dunque c’è da scegliere.
Ma io stessa non sapevo che esiste un Laboratorio per la riparazione, e anzi, la cura, dei pianoforti, nel cuore del quartiere Pigneto. E’ il laboratorio di Marc Maggio, tecnico accordatore restauratore di pianoforti, ed è sito in via Giovanni De Agostini 19.
Quando entri senti l’odore caratteristico che chiunque abbia varcato la soglia di un negozio di pianoforti conosce benissimo, e ti trovi in un grande spazio, saturo (naturalmente) di pianoforti, a coda, mezza coda, verticali, un verticale è persino nel bagno.
Marc Maggio con il batterista Marco Calderano hanno inventato, in questo spazio fascinoso e inusuale, un piccolo festival del Jazz, “Da Maggio a Maggio” di tre giorni, a maggio, appunto. Il primo concerto venerdì 25 maggio, con Marco Calderano, AntiHero. Il secondo sabato 26 maggio con EDE, Euristic Data Exchange e l’ultimo il 28 maggio con Stefano Calderano Playin’ Rice.

Sono stata al secondo concerto, quello di EDE, ovvero Enrico Zanisi, pianoforte e synth modulare, Danilo Gallo, basso elettrico, Ermanno Baron, batteria.
EDE oltre che acronimo dei nomi dei musicisti è anche acronimo di Euristic Data Exchange:“un processo euristico di ricerca sonora, scambio di dati estemporaneo, istintivo e intuitivo,il suono come obiettivo finale. Le partiture si ottengono in dirittura d’arrivo
La Treccani ci spiega il termine euristico così: “in matematica, procedimento, qualsiasi procedimento non rigoroso (a carattere approssimativo, intuitivo, analogico, ecc.) che consente di prevedere o rendere plausibile un risultato, il quale in un secondo tempo dovrà essere controllato e convalidato per via rigorosa.”
Resi doverosamente noti gli intenti del gruppo, doverosamente vi dico che raramente, andando ad ascoltare un gruppo che non conosco, mi documento sull’intento dichiarato del gruppo stesso: preferisco ascoltare e documentarmi alla fine, quando cerco le parole per descrivere la musica, vedere cosa di quell’intento mi è arrivato, cosa io ho capito, e SE ho capito, e se non ho capito, perché .

Ho preso posto in quella sala così profumata di legno, corde, feltrini, e dopo una lezione di Marc Maggio sul funzionamento della meccanica del pianoforte, ho ascoltato un’ora di musica completamente improvvisata, dal primo all’ultimo minuto. Come da intento dichiarato, ma io non lo sapevo: una ricerca estemporanea di una strada sonora comune. Chi guida? Non c’è un pilota in particolare: si improvvisa, ma con la sicurezza di chi il mezzo lo conosce così bene da potersi permettere (e godersi) ogni tipo di evoluzione.
Vi descrivo, sperando di essere fedele a ciò che è accaduto, i primi minuti di questo concerto inusuale, sperando di non essere troppo tecnica, o pedante: ma occorre per dare un’idea della musica. E poter poi approdare nel mio amato spazio “L’impatto su chi vi scrive” per poter parlare delle mie personalissime sensazioni a riguardo.

Dal synth di Zanisi parte un suono lungo, persistente, acuto, che fende l’aria. Baron percuote con bacchette di metallo ciotole di metallo, l’effetto è di campanelli, l’atmosfera è rarefatta. Poco dopo il basso di Danilo Gallo introduce un bicordo che risolve in una nota unica, quasi una tonica. Questo schema bicordo/nota unica prosegue, e i suoni si susseguono aumentando in velocità. Le due note del bicordo si slegano e la sequenza diventa un ostinato di tre note. Il synth aumenta gli effetti. La batteria intensifica i battiti, il tessuto sonoro complessivo prima piuttosto dilatato si addensa. Il basso diventa incalzante, e si assesta sul registro grave. Appare il suono del pianoforte: con una cellula melodica reiterata che comincia su una ampiezza di una nona, per poi restringersi ad una sesta. Il basso elettrico lo doppia con lo stesso andamento ritmico. La batteria ne carpisce il groove e decodifica il tutto dal punto di vista ritmico.
Questo andamento dura qualche decina di secondi, fino a quando il basso procede ascendendo cromaticamente con note ribattute: ma queste via via si diradano. Rallentano gli impulsi e si ritorna gradualmente alla rarefazione sonora dell’inizio. Riappare quella nota persistente del synth con cui tutto era cominciato, ma il basso ricomincia cantando una piccola melodia pentatonica…..
Mi fermo. Perché sono accadute mille altre cose, e questi sono soltanto i primi otto nove minuti. E gli stessi musicisti, se leggeranno questa descrizione, penseranno che sono impazzita, perché il loro procedere era completamente istintivo, anche se non casuale: l’istinto non è mai casuale. Dubito, in pratica, che possano ricordare così precisamente cosa hanno suonato.

L’IMPATTO SU CHI VI SCRIVE

In un concerto tutto di musica improvvisata estemporaneamente ciò che conta, a mio parere, è proprio l’impatto su chi ascolta.
Per ascoltare bene un concerto come questo, secondo me è fondamentale abbandonare i propri rassicuranti riferimenti e lasciarsi avvolgere dai suoni. Su di me una performance come quella di EDE può avere un potere evocativo ed immaginifico molto forte, una volta abbandonati i miei riferimenti usuali (centri tonali, strutture, cadenze, il jazz, il free jazz, il jazz modale, la musica tradizionale e così via dicendo).
Ho dovuto solo cercare di sdoppiarmi concentrandomi e scrivendo (vedi sopra) cosa accadeva, ma mi sono ritagliata anche una metà della mia percezione lasciandola libera, perché volevo godermi quell’impatto emotivo. Per tutto il tempo ho assistito alla nascita improvvisa di suoni che erano ognuno causa del successivo, che a suo volta era effetto del precedente, e ancora, causa del successivo, mi si perdoni la spirale: ma è ciò che è accaduto.
Mi sono trovata in giardini fiabeschi, quando Zanisi insisteva reiterando piccoli arpeggi nel registro acuto del pianoforte, sottolineati dal basso, che cantava libero, e da Baron con i suoi suoni di campane. Poi ho assistito ad un sisma sotterraneo, quando Danilo Gallo si è aperto in un suono grave, lavico, profondo, da far vibrare le pelli della batteria, che è diventata a sua volta secca, insistente, potente. E’ stato un tintinnio di ciotole a fermare quel sisma, quasi richiamando all’ordine il basso, e costringendolo a suoni sempre più diradati.
Talvolta i suoni volatili del synth mi sono sembrati aria pulita. Un momento quasi parossistico placatosi gradualmente mi ha evocato il navigare placido in un fiume di suoni, improvvisamente inscritti in un centro tonale, con un susseguirsi di accordi (quasi) comprensibili: ma oramai io i miei rassicuranti riferimenti li avevo abbandonati , e decodificarli non mi è sembrato così importante. Non li ho analizzati e così ancora non ho capito  come sia potuto accadere di trovarmi, alla fine, ad ascoltare El Choclo, sì, El Choclo, il tango. Mi sono affrettata a trascriverne le note nel mio taccuino per poter poi ricordare a me stessa quale titolo avrei dovuto ricercare. Era El Choclo: sono partita da una nota fissa di sintetizzatore e sono approdata ad un tango argentino.

Avvertenza: il prossimo concerto di EDE non sarà di certo uguale a questo.

 

 

Vicenza Jazz: Randy Weston e Billy Harper duo (in esclusiva)


Tutte le foto sono di DANIELA CREVENA

VICENZA JAZZ
Teatro Olimpico, 19 maggio, ore 22

Randy Weston e Billy Harper duo

Randy Weston, pianoforte
Billy Harper: sax tenore

Il secondo concerto in programma al Teatro Olimpico vede un gigante (in tutti i sensi) del pianoforte Jazz in duo con un grande protagonista del sax: Randy Weston e Billy Harper entrano sorridenti, prendono posto sul palco e il concerto comincia con un’intro di pianoforte tutt’altro che morbida e rassicurante. Dissonanze, frasi spezzate, un piccolo ma veramente volatile accenno all’incipit di ‘Round Midnight fino all’entrata del sax, che comincia da subito a raccogliere i suggerimenti del pianoforte.

Da quel momento comincia un’improvvisazione libera e un flusso da Weston e Harper, un’interazione fatta di idee lanciate, sviluppate, momentaneamente tralasciate e riprese inaspettatamente, flusso che persiste per tutto il concerto e che ha una sua forma stilistica precisa.
Se affrontano un Blues, quel Blues si percepisce fortemente. Il piano ed il sax ne toccano i cardini, e che siamo in presenza di un Blues lo capiamo da quei cardini: si sceglie la sintesi dei punti di riferimento. La batteria, assente, viene evocata dai pochissimi accenti necessari e ridotti al minimo. Una volta evocato il pulsare ritmico in modo che il nostro cervello possa immaginarlo in sottofondo, il pianoforte si può permettere di virare libero e addirittura ridondante: tu però sai che sei in un Blues. A dire il vero le ridondanze sono poche, prevale l’essenzialità. Il contrabbasso, assente, viene evocato da pochissime note che si comprende che sarebbero inscritte in un walkin’bass.


Il ritmo, le pulsazioni, sono sempre appena accennate e sottintese. Il pianoforte di Randy Weston e il sax di Billy Harper interagiscono ma più giustapponendosi che sovrapponendosi, quasi in un continuo “domanda e risposta”, dialogando ad armi pari. Ovvero, il pianoforte non è accompagnamento armonico alle digressioni del sax. Sono due entità distinte che dialogano, due personaggi di una storia che parlano fra loro ognuno con la sua voce.
Nei piccoli momenti in cui i due ritornano ad un andamento più mainstream si ha la decodifica per viaggiare nei minuti successivi.
Fraseggi compiuti, sapiente uso di staccati e legati, energia e una presenza sul palco notevole. Sorridenti, comunicativi, felici di suonare insieme, felici di suonare al Teatro Olimpico: il direttore artistico Riccardo Brazzale rivela che il novantaduenne Randy Weston è venuto in Italia solo e soltanto per Vicenza Jazz. Innovativi.

L’IMPATTO SU CHI VI SCRIVE

Un concerto pulsante di energia e carica creativa. Un Jazz originale, che dimostra ciò che ho sempre pensato e cioè che il parametro anagrafico non è quello giusto per valutare la freschezza del modo di fare Jazz di un artista: conta la musica. Per non parlare della presenza scenica di entrambi gli artisti e la loro capacità di comunicare la gioia di suonare insieme. Una sensazione dunque più che positiva di un concerto di altissimo livello.

In questo mio piccolo spazio in cui descrivo sensazioni soggettive posso dire che l’andamento quasi sempre alternato dei due strumenti, questo rincorrersi continuo con pochi momenti di raccordo, il linguaggio spesso frammentato delle frasi, al mio ascolto è risultato in alcuni tratti spigoloso e dunque un po’ allontanante. Il pubblico del Teatro Olimpico, però, in questo non è sembrato d’accordo con me!

Qui sotto, il backstage!


Gli altri concerti che abbiamo seguito a VICENZA JAZZ!
Manhattan Transfer
Gavino Murgia e Cantar Lontano
Tigran Hamasyan

 

VICENZA JAZZ: Tigran Hamasyan al Teatro Olimpico


Tutte le foto sono di DANIELA CREVENA

VICENZA JAZZ, 19 maggio 2018
Teatro Olimpico, ore 21:00

Tigran Hamasyan, pianoforte

Tigran Hamasyan appare sull’incredibile palco palladiano del Teatro Olimpico, e davanti a quelle quinte cinquecentesche in prospettiva sembra ancora più minuto di quanto non sia in realtà. Si siede al piano, cerca per qualche secondo la concentrazione e parte quasi in sordina con note ribattute alla mano sinistra. Su quelle parte poi un tema vagamente classicheggiante, non scevro da abbellimenti come trilli, o mordenti.
Non fai in tempo quasi a cullarti in quel piccolo incanto che all’improvviso appaiono accordi dissonanti e in contrasto ritmico, un delicato disturbo che smuove le acque. Le note ribattute, a bordone non smettono mai, nemmeno quando il tempo raddoppia, nemmeno quando la mano sinistra produce accordi, nemmeno quando appaiono piccole reminiscenze di danze popolari: quello scorrere del tempo è costante, quasi martellante, nonostante il brano rimanga in un ambito che si potrebbe definire introspettivo.

Introspettivo appare anche il brano successivo. Hamasyan parte con un pianissimo, tonalmente pressoché indefinito. Introduce un piccolo tema che traspone, creando tensione: tutto il materiale tematico, dalla cellula melodica al riff ritmico all’artifizio armonico, viene curato e mantenuto e mai buttato via.
Il pezzo è in quattro, ma in realtà si percepisce una serie quadripartita di battute in uno, in cui il ritmo di danza riappare, anche se solo accennato. Grappoli cromatici di note, arpeggi diminuiti si materializzano nel registro acuto del pianoforte. Anche in questo caso la mano sinistra tiene bordone con note ribattute.

Quando entrano in scena l’elettronica, la loop station, i suoni distorti, l’effetto non è avveniristico, spaziale, o underground: è mistico, sospeso, fino a quando il pianoforte non si inserisce in un impianto armonico semplice, tonica minore – settima di dominante – tonica minore, e con una melodia che sembrerebbe antica, lontana, tradizionale.
Hamasyan privilegia la parte centrale della tastiera. Il bordone alla mano sinistra persiste per gran parte del tempo. Il concerto termina con un bis più esplicito del resto dei brani tra gli applausi di un pubblico affascinato, quasi irretito.

L’IMPATTO SU CHI VI SCRIVE

Un’ora abbondante di musica intensa, affascinante. Niente di cerebrale, un flusso interiore reso con rara efficacia emotiva.
Il reiterarsi di cellule melodiche e ritmiche, il bordone spesso presente tenuto dalla mano sinistra, l’insistere sulla parte centrale della tastiera e l’improvviso apparire di cromatismi ed arpeggi nel registro acuto creano un’atmosfera sospesa onirica, sulla quale vengono ricamate reminiscenze di musica armena: quasi sicuramente, non ne sono sicura, perché di tutto si può parlare fuorché di “contaminazioni”. Hamasyan ha su di sé tutto il carico delle sue origini ma le trasfigura in un modo di fare musica che è al di là di Jazz, musica classica, musica popolare. E’ malinconico, nostalgico, introspettivo ma a modo suo anche assertivo e incisivo. E possiede una creatività inusuale e inarrestabile.
Posso affermare senza timore in questo piccolo spazio della recensione dedicato alle mie convinzioni, che Tigran Hamasyan è un grande pianista contemporaneo.

Gli altri concerti che abbiamo seguito a VICENZA JAZZ
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Gavino Murgia e Cantar Lontano
Randy Weston and Billy Harper Duo

VICENZA JAZZ: Gavino Murgia e Cantar Lontano Officium Divinum


Tutte le foto sono di DANIELA CREVENA

VICENZA JAZZ, Cimitero Maggiore, ore 00:00

Gavino Murgia e Cantar Lontano – Officium Divinum

Gavino Murgia (sax soprano)
Marco Mencoboni (direttore)
Cantar Lontano (ensemble)
Alessandro Carmignani (controtenore)
Paolo Borgonovo (tenore)
Riccardo Pisani (tenore)
Guglielmo Buonsanti (basso)
Musiche di Guillaume Dufay, Pierre de La Rue, Cristobal de Morales, Perotin

E’ mezzanotte al Cimitero Maggiore di Vicenza. Le poche luci accese sono suggestive. Si ode una campanella da lontano e dal buio compaiono quattro uomini in giacca scura che prendono posto sul palco ed intonano un antico canto sacro a quattro voci. Dopo poco, sempre in lontananza risuona, avviluppandosi a quel canto polifonico, la voce di un sax soprano.

I quattro uomini compongono l’ensemble vocale “Cantar Lontano”, e sono diretti da Marco Mencoboni. Il sax soprano è quello di Gavino Murgia. L’ensemble esegue brani composti da Guillaume Dufay, Pierre de La Rue, Perotin ed altri giganti della musica polifonica dal 1200 al 1500, Gavino Murgia compie incursioni con il suo sax soprano ma anche con la sua voce da basso del tradizionale canto a boche sardo, che non è poi così dissimile dal canto mistico tibetano.

Le incursioni di Murgia non contraddicono l’impianto armonico dei pezzi sacri. Vi si intreccia aggiungendo le sue voci (strumentale o vocale) in contrasto timbrico e melodico, ma non armonicamente dissonante. La volontà è quella di fondersi con le voci perfette, trasfigurate, quasi sovrumane di quel quartetto, salendo raramente sul palco ma facendovi giungere i suoni da luoghi e distanze diverse, per movimentare suggestivamente timbri, dinamiche, e rendere tutto ancora più inaspettato.
Sulle note lunghe delle composizioni vocali Murgia ricama. Oppure carpisce cellule melodiche che diventano l’incipit dei suoi fraseggi, o la loro chiusura. O ancora esegue un’introduzione che racchiude in sé le note iniziali del brano che seguirà.

L’IMPATTO SU CHI VI SCRIVE

Difficilmente potrò dimenticare la sensazione incomprensibile, quasi estatica, del trovarmi in un luogo così definito, in maniera anche convenzionale dalla letteratura, come può essere un cimitero a mezzanotte, e nello stesso istante in luogo così lontano dallo spazio e dal tempo, così terrestre, così ancestrale, e anche allo stesso tempo così sacrale come quel cimitero in quella mezzanotte con quella musica. Niente di tetro, niente di spaventoso, uno stato di ritorno alla terra ma anche al mistero che ne regola le leggi della vita e della morte, morte che, per una notte, quasi è tornata alla vita.
L’incredibile, straniante legame che si è materializzato in un’ ora tra la voce del sax di Gavino Murgia e quell’unico flusso sonoro di quattro voci ha fatto risuonare persino il silenzio nei quali i presenti erano immersi poiché incantati da ciò che accadeva sul palco e intorno al palco.
La voce da basso di Murgia intrecciata alla voce acutissima e perfetta del controtenore Alessandro Carmignani, il contrasto tra il tacere denso dell’attimo che precede gli attacchi e l’esplodere polifonico delle voci, l’armonia inaspettata che può sorgere tra le frasi potenti e libere di un sax soprano e l’andamento strutturato nei minimi particolari di una musica che per l’intenzione stessa di chi l’ha scritta vuole tendere al divino fanno del progetto Officium Divinum un’esperienza unica per chi deciderà di viverla dal vivo. Magari non accadrà più in un cimitero a mezzanotte, ma io ve la consiglio, a prescindere. Meglio se di notte e all’aria aperta.


Gli altri concerti che abbiamo seguito a Vicenza:
Manhattan Transfer