Francesco Bearzatti si racconta

Il concerto del 27 gennaio all’Auditorium di Roma

Francesco Bearzatti

“The Gentle Side of Francesco Bearzatti”: così si potrebbe intitolare il recital del sassofonista e clarinettista friulano (teatro Studio del Parco della Musica, 27 gennaio), parodiando un famoso album di John Coltrane.

Per questo concerto in duo con il chitarrista Federico Casagrande – che gli ha fatto da spalla armonico-ritmica in modo egregio – Bearzatti ha raccontato al folto pubblico di aver utilizzato una serie di brani composti nel corso del tempo e utilizzati in parte o mai: una sorta di memoria compositiva stratigrafica che l’organico in duo, la dimensione cameristica e l’atmosfera raccolta gli hanno consentito di mettere in luce. Il sassofonista leader del Tinissima Quartet, il musicista progettuale e trasversale che si è occupato di Tina Modotti, Malcolm X e di  fondere Monk con il rock è anche un compositore/esecutore che traccia lirici bozzetti, che ritrae stati d’animo, che prende spunto da una via parigina, dai giochi dei bimbi, da un vecchiofilm in bianco e nero per brani di particolare bellezza.

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Rivive il be-bop con la chitarra di Nicola Mingo

Nicola Mingo (foto Roberto Panucci)

Nicola Mingo (foto Roberto Panucci)

“Billi’es bounce”, “Daahoud”, “Sandu” , il primo di Charlie Parker, gli altri due di Clifford Brown, sono standard celeberrimi che hanno giustamente segnato la storia del jazz costituendo vere e proprie pietre miliari del bop.

Se ne è parlato nella terza Guida all’ ascolto condotta da Gerlando Gatto per merito dell’ospite, Nicola Mingo, che per la sua performance ha scelto proprio questi tre brani.
Così la serata ha preso un andamento piuttosto diverso rispetto alle altre volte: qui non si trattava tanto di illustrare la storia di brani che scritti prevalentemente per commedie musicali e film, erano poi entrati nel mondo del jazz per merito di grandi artisti, ma di evidenziare il fatto che con l’avvento del be-bop i musicisti neri pensarono, finalmente, di scrivere essi stessi delle composizioni particolarmente adatte alle proprie esigenze espressive. Di qui i capolavori cui in apertura si faceva riferimento.

Con la solita grazia ed eleganza, Gatto ha introdotto l’argomento per poi lasciare spazio alla musica: si è così ascoltato una strepitosa versione di “Billie’s Bounce” da parte di un George Benson d’annata (1967) magnificamente coadiuvato da Herbie Hancock, Ron Carter e Billy Cobham. Poi è stata la volta di Nicola Mingo a interpretare lo stesso brano in splendida solitudine: suonare bop con la chitarra, e per giunta da solo, non è impresa facile ma Nicola se l’è cavata alla grande: il suo strumento, accompagnato dalla voce che intonava tutte le note della complessa partitura, ha letteralmente volato sulle note di Parker entusiasmando il pubblico, numeroso ed attento come sempre.

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Con Pippo Matino la noia non è ammessa

Pippo Matino (Foto Luigi Orrù)

Pippo Matino (Foto Luigi Orrù)

Pippo Matino, lo sappiamo bene, è un virtuoso del basso elettrico ed ha alle spalle e davanti a se molti progetti , grazie anche al suo gusto per vari generi di musica, che si può permettere di affrontare con disinvoltura proprio in virtù della totale padronanza che ha  dello strumento .

E’ di pochi giorni fa il concerto (sold out)  al “Backroom” con il suo “BassVoice project” che lo vede accanto alla cantante romana Silvia Barba, con la quale ha presentato il nuovo cd “Love & Groove” e che ha avuto come guest Fabrizio Bosso, Javier Girotto e Nicola Angelucci: un mix di pop, jazz e musica d’ autore nonché brani originali. Ma è anche in uscita il suo cd live registrato alla Casa del Jazz “Joe Zawinul Tribute” , e gira l’ Italia con diversi progetti ancora, jazzistici, funky: insomma stiamo parlando di un musicista versatile, propositivo, curioso.
All’ Alexanderplatz ha voluto dunque proporre un’ altra idea ancora: l’ inedito quartetto formato da Antonello Salis alla fisarmonica, Lorenzo Tucci alla batteria, Domenico Sanna al piano Rhodes e, naturalmente,  il suo basso elettrico.
I quattro hanno proposto brani di Pat Metheny, Joe Zawinul, dello stesso Pippo Matino dando grandissimo spazio all’ improvvisazione.

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La vita artistica di Gaspare Pasini sulle tracce di Art Pepper

PIER RAFFAELE PLATANIA SIRACUSA

PIER RAFFAELE PLATANIA SIRACUSA

Pensate ad un sassofonista Jazz, uno di quelli che da trent’ anni non solo suonano, ma studiano, viaggiano, si affermano negli Usa, spariscono temporaneamente per scelta, ma rimangono jazzisti fino al midollo.  Pensate ad un altro sassofonista, un mito:  Art Pepper, scomparso nel 1982, indimenticato ma anche pericolosamente in bilico sulla china di quell’ oblio strano, inspiegabile, che colpisce alcuni grandi del Jazz e che a volte non perdona.

Ora unite questi due uomini con un filo neanche tanto invisibile. Il primo si mette sulle tracce del secondo, e contattando  la sua vedova ne recupera i manoscritti. Incontra i musicisti che suonavano con lui  e realizza “Pepper Legacy”: ovvero la musica di Art Pepper suonata con i musicisti di Art Pepper e basandosi sui manoscritti di Art Pepper. Ma interpretandoli secondo la propria passione, la propria intensa anima di artista.  Gaspare Pasini è quel sassofonista, e qui di seguito ci racconta il suo sogno realizzato: concerti in giro per l’ Italia e un Tour ancora da completare tra la primavera e l’ estate.  Il Jazz è fatto , per fortuna, anche di storie come questa che vedrete qui sotto raccontata, con tutti i particolari.

-Caro Gaspare, prima di parlare del tuo progetto “Pepper Legacy”  abbiamo bisogno che ci parli di te: ci fa comprendere meglio il perché del tuo profondo interesse verso Art Pepper.

“ Domanda facile, risposta difficile. Sono nato nel 1958, a sette anni ho iniziato a suonare la batteria – senza studiarla, in realtà – e a 14 anni sono entrato nel mondo del jazz.  Art Pepper ha accompagnato “ live “ i miei esordi, all’epoca privati e personali, con il contralto nel 1976 ( ma il sassofono mi aveva già stregato a tre anni, quando lo vidi per la prima volta in TV ): seguendo  la lettura di “ Musica Jazz “ compravo i dischi – che spesso mi arrivavano su espressa ordinazione – di questo gigante redivivo il cui ritorno sulle scene faceva grande notizia in tutto il mondo. E così, assieme alle magnifiche e doverose scorpacciate di Parker, Coltrane, Ayler, Shepp, Hodges, Coleman, Mc Lean e Barbieri, Pepper prese un posto speciale dentro di me. Forse la vicenda romanzesca della sua vita e il mito della riscossa che incarnava fecero buona presa sullo spirito “ sturm und drang “ di un giovane pieno di studi umanistici, ma di certo il fatto che  i dischi che comperavo fossero freschi di registrazione rendevano la cosa  attuale e quindi intrigante: un mito vivo, un mito che diffondeva il verbo del suo tanto sapere e del suo immenso sentire nei teatri di tutto il mondo mi ricordava l’idea che i greci avevano degli dei – entità divine ma in carne ed ossa che interagivano con il mondo terreno -. Il suono del suo ultimo periodo era spesso sofferto (a volte urlato) ed i sovracuti completavano un bagaglio espressivo vicino a quello utilizzato nel free, al quale avevo dedicato non poco ascolto”.

-Art Pepper è stato uno di quegli artisti giganteschi che però sono sempre sul filo del rasoio tra la mitizzazione e l’ oblio.  Cosa ti ha folgorato di lui come musicista?  “L’esposizione del cuore. Ascoltare l’ultimo Pepper (1975 – 1982) significa ascoltare l’uomo prima del musicista: è come se davvero lui con lo strumento parlasse un gergo umano ancor prima che musicale, come se la mediazione del pentagramma fosse un dettaglio superato all’atto stesso dell’emissione del suono, come se il suo fosse un linguaggio diretto e primordiale immediatamente comprensibile da ogni essere vivente. L’immediatezza della sua comunicazione, tanto nelle ballad più sofferte che negli up tempo più stringenti, è un miracoloso pugno allo stomaco che ci fa ricordare e desiderare di essere più che mai vivi. Dal punto di vista più strettamente musicale, oltre che  dalla sua enciclopedica  preparazione tecnica – forse maggiormente evidente nella sua fase giovanile – sono sempre rimasto affascinato dalla costruzione melodica che non prescinde mai da una solida base blues ( non a caso ne ha scritti ed eseguiti tantissimi ); se ci aggiungiamo poi il suono che aveva…

-Nel Jazz non facciamo che trovarci davanti ad “omaggi” e tributi, ma in “Pepper  Legacy” si intravede qualcosa di più che un semplice riproporre musica… spiegaci in cosa consiste il tuo progetto.

“Il mio progetto non e’ un progetto musicale ma il progetto della realizzazione di un sogno musicale: il sogno della mia vita. Quando nel 1981 vidi Pepper baciare la testa pelata di George (George Cables, il suo pianista, n.d.r.) davanti ad un migliaio di persone, mai e poi mai avrei potuto immaginare ciò che sarebbe accaduto di lì a trent’anni. Non amo il termine “  progetto “ perché oggi come oggi sembra che ogni promoter non possa prescindere da questo vocabolo per invitare qualcuno a suonare ( come se la cosa più importante  non sia la musica  e chi la fa ma che si chiami “ Progetto… “ ); in effetti, però, questo mio sogno ha tutte le caratteristiche di un progetto vero e proprio – quantomeno per gli sforzi profusi, i tempi di gestazione e l’alea sempre incombente -. Ed e’ anche un tributo vero, tanto sotto il punto di vista soggettivo ( il mio profondo amore per la musica di  Art ) che quello oggettivo ( i suoi musicisti, i suoi pezzi originali ). L’idea di poter suonare la sua musica con i suoi ragazzi (George Cables, Bob Magnusson – che sostituisce temporaneamente David Williams al contrabbasso e Carl Burnett alla batteria ) dopo trent’anni dalla morte e’ certamente di difficilissima realizzazione, ma ce l’ho fatta. Phil Woods mi scrisse che facevo bene a provarci, perché nessuno aveva mai più suonato la musica di Art: ci pensai, e mi resi conto che in effetti per potersi immedesimare nelle composizioni dell’ultima sua fase – costruite su geometrie particolari che rispecchiano appieno  la maturazione del suo linguaggio – bisogna  essere davvero “ dentro “ la sua musica con la testa, lo stomaco ed il cuore. Io per tre anni, in gioventù, non ho fatto altro che ascoltare Pepper, continuando poi a godermelo dopo averne acquisito ogni sfumatura. Lo scopo filologico della mia proposta e’ stata dunque quella di proporre le sue splendide composizioni, non certo quello di scimmiottare il suo personalissimo ed inimitabile fraseggio – frutto di un’esperienza musicale e personale assolutamente irriproducibili -. Credo di esserci riuscito, e mi piace riportare alcune parole scritte da Gaetano Celestre sul nostro concerto di Scicli, che mi sento di condividere: “ Non si tratta solo di difendere un genere con argomentazioni fondate sul piacere di ascoltare “ classici “. Pasini ha saputo dare quel tocco interpretativo attualizzante, che e’ la caratteristica fondante del jazz inteso nel suo senso più ampio. Ribadisco, non è affatto cosa da poco, nel 2012, suonare qualcosa di “ vecchio “ e farlo sembrare “ nuovo “. La grandezza di Pepper ? Sì, senza dubbio non si può  prescindere da questo dato, ma si tenga conto che il tutto poteva tramutarsi in una mera esecuzione, riproposizione di classici. E così non e’ stato. “

-La vedova di Art Pepper , Laurie Miller, che hai incontrato appositamente a NY, tra le altre cose ti ha fatto avere i suoi manoscritti.  Che emozione hai provato quando hai avuto in mano la sua musica?

“Non ho mai trovato le parole giuste per riuscire ad esprimerlo (e’ probabile che sia andato oltre l’emozione, in uno stato di trance emotiva). Mi consegno’ questa cartellina di tela blu appena ci sedemmo al tavolo, e dentro c’era il tesoro. Cominciai a cercare “ My friend John “ e dopo poco lo trovai – completo, con le parti di basso, piano e batteria -; e poi Valse Triste, Ophelia, The trip e via via tutte le partiture manoscritte, brutte copie e cancellature comprese. Non ci credevo, davvero, era tutto troppo incredibile per riuscire a capire cosa stesse accadendo. Io, italiano di Pordenone, prendo un volo da New York per Los Angeles e, seduto al tavolo con Laurie assieme al mio idolo Carl Burnett, ho tra le mie mani i manoscritti di tutti (tutti) i pezzi scritti da Art nella sua vita: troppo !”.

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Ancora una volta svelati i colpevoli… della bellezza del Jazz

Andrea Beneventano“It could Happen to you”, “Just in time”, “Polka Dots and Moombeams” sono standard celeberrimi che chiunque ami il Jazz riconosce già dalla prima battuta. Ma saperne la storia, l’ evoluzione è un’ altra questione. In che anno sono stati composti, chi li ha per primo registrati in studio, quale è stata l’ esecuzione più famosa in assoluto, quale interprete ne ha fatto il proprio “cavallo di battaglia”?
Nella seconda Guida all’ ascolto non solo se ne è parlato (con aneddoti, storie, date meticolosamente ricostruiti da Gerlando Gatto). Ma questi fortunatissimi brani, come avviene ogni mercoledì, hanno anche ripreso vita, hanno mostrato tutta la loro duttilità nei numerosi ascolti proposti e nei Live di musicisti che il Jazz lo sa suonare benissimo.

Ospiti Andrea Beneventano, pianista che suona un Jazz che vibra di tradizione ma non ne è affatto ancorato o peggio paralizzato. Con Francesco Puglisi al contrabbasso (side man di classe, che il contrabbasso lo fa cantare e swingare alla perfezione) e Nicola Angelucci alla batteria (sempre, ma sempre più bravo, fantasia, eleganza e tecnica impeccabili), ha interpretato con garbo, naturalezza, fantasia e gusto queste meraviglie Jazzistiche facendone emergere tutto il sound che ci piace ascoltare nel Jazz. Ma ha anche dimostrato quanta freschezza ci sia nei suoi brani originali (quali “Cool River” e “The Drive”).

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Ciao Roberto, il jazz ti accompagnerà sempre

Sarà difficile, per non dire impossibile, dimenticare la figura di Roberto Capasso: avvocato,  giornalista, fotografo, promoter romano che davvero tanto ha fatto  – per gran parte della sua vita ed in epoche pionieristiche e difficili – a favore del jazz. E’ morto ieri  nella capitale (11 gennaio) ad ottantadue anni.

In occasione  del ricordo di due amici (Salvatore G.Biamonte ed Anselmo Boldrini – altre due figure di grande spessore per la musica afroamericana in Italia – spentisi l’8 e l’11 gennaio 1999), Capasso scrisse riferendosi alla “passione” condivisa con gli scomparsi: “ (…) l’amore per il jazz, dal quale ho ricavato le gioie più grandi e durature della mia vita e che mi ha costruito attorno una cerchia di amici che, salvo rare eccezioni, tali sono rimasti a dispetto del passar degli anni, delle distanze a volte insuperabili, delle diverse attività lavorative. Un amore sincero, non minato da interessi di sorta, da gelosie, ripicche o rivalse; un amore fatto di costante dedizione e attenzione; un amore – forse il solo – sempre e appieno ricambiato che tanto mi ha arricchito senza mai inaridirsi. Anzi, trovando sempre nuovi motivi di ricerca, approfondimento e soddisfazione” (in “In memoriam”, “Il Sismografo. Bollettino della S.I.S.M.A. Società Italiana per lo Studio della Musica Afroamericana”, n°28, marzo 1999, p.6).

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